Dalle piccole cose

Il formicolio che strazia

ogni mio arto

svela ignorante

il silenzioso panico

di una presa di coscienza

mai richiesta

e dolorosamente subita.

Sono l’uomo media,

quello che si trova a metà

tra gli estremi

d’azione, desideri,

obiettivi,

volontà, follia,

miscredente del tutto

meglio del poco

rischiando il niente.

Il sangue che si libera

dalla stretta di arterie

o di vene per il taglio

di coltello affilato

o pallottola all’uranio

mi terrorizza

come una voce spezzata

o il pianto disperato

di madri orfane

dei loro figli.

Lascio qui le mie paure

mentre racconto

a giovani fantasmi

che dalle piccole cose

arriva il peggio.

Quadro B, riga 5, colonna 7

Mi gira un po’ la testa, ma sto meglio di quanto pensassi. Compiere un balzo del genere avrebbe potuto dare reazioni più pesanti, invece sta già passando.

Mi guardo attorno e mi rendo subito conto che l’ambiente è molto cambiato in quindici anni. Non riconosco neppure le strade, sono molto diverse, non solo nelle direzioni, ma anche nel materiale: di colore verde con delle righe rosse al centro. Non sono da meno le auto, di forma ridicola, ma silenziose e rapide, sembrano scorrere magicamente sul manto stradale. Nessun rumore di motore, nessun tubo di scappamento. Questo però non mi meraviglia più di tanto, me lo aspettavo che tutto si sarebbe elettrificato. Anche le strade, base di appoggio e allo stesso tempo alimentatrici di energia. Mi viene da ridere pensando ai filobus degli anni sessanta.

Solo una cosa è ancora uguale: il cimitero.

Sembra che niente possa cambiare questo bisogno di rendere facilmente raggiungibili i cari defunti e io non posso dire certo di non comprenderlo. Non per niente se ho fatto il balzo è proprio per vedere una cosa che mi serve a capire quella più importante per me.

Mi incammino e arrivo all’entrata del cimitero. Non c’è più Martino il fioraio, ma una macchinetta elettronica che dispensa fiori a scelta. Metto una moneta per prendere una rosa, ma il dispositivo non riconosce gli euro. Chissà che moneta esiste adesso. Entro senza il fiore, percorro il vialetto centrale fino a che non arrivo vicino una casetta di legno dove sulla porta c’è la scritta “informazioni”. Mi rivolgo a una graziosa ragazza e le chiedo se può dirmi dove trovo… e le dico il nome. Lei, ancor più graziosa mi indica il quadro B riga 5, colonna 7.

Ringrazio e lentamente mi avvio verso la meta. Solo che il passo si fa sempre più lento nell’avvicinarmi. Con ansia, giungo alla tomba.

Guardo la lapide. Semplice, liscia, con il solo nome e l’anno dell’addio a questo mondo. Davanti alla lapide un rettangolo di terra malcurata, senza un fiore, un vaso, una luce.

Resto lì fermo, impalato, per almeno 5 minuti. Poi, come uscendo da una trance, mi guardo attorno. A pochi metri vedo un rastrello, vado a prenderlo e con quello pareggio il suolo della tomba, lo rendo ordinato e preciso. Al termine vado a una siepe vicina alla quale ho visto dei fiori di campo. Li ho colti e li ho appoggiati alla lapide.

Il tutto come drogato, senza pensiero e pieno di malessere.

Quando avevano cercato volontari per il prototipo di macchina del tempo, mi sono offerto senza timori. Mi avevano appena diagnosticato una malattia che lenta e inesorabile mi avrebbe portato a morte certa, ma non volevo andare nel futuro nella speranza di essere guarito. No, volevo altro. Capire quanto bene avevo lasciato, quanto davvero restare nella memoria di qualcuno diventava eternità per chi terminava il suo cammino terrestre.

Osservo le tombe attorno alla mia, Artistiche, curate, con composizioni floreali bellissime, con messaggi pieni d’amore scolpiti sul marmo.

Sento un leggero formicolio. Guardo lo strano orologio che ho al polso. Mi sa che questa macchina del tempo funziona davvero.

Mi sto chiedendo dove ho sbagliato e forse conosco la risposta.

Inizio a scomparire. Sto tornando, mentre penso che forse sono sempre in tempo.

Emozioni

Il morettino seduto alla sua destra continuava a sorridergli. Capita di avere un bambino nelle vicinanze e che questo ti guardi con simpatia, ecco, a lui capitava in quel momento. Avrà avuto otto o nove anni. Decise che forse, nell’attesa, qualcosa dovesse dirgli. “Ciao, come ti chiami?” era la domanda più semplice e immediata. “Alessio…” rispose timidamente, mantenendo però lo stesso sorriso. “Io mi chiamo Gabriele”, ricambiò.

La madre, seduta subito dopo il bambino, disse il canonico “non disturbare il signore”.

Il signore era lui. A parte che essere signore può voler dire molte cose, ma c’era una cosa che sfuggiva alla donna e probabilmente a tutto il mondo: lui si sentiva bambino quando era con i bambini. Quel “signore” aveva una eco devastante nel suo mondo di cristallo prezioso. Lo faceva sentire vecchio in un momento in cui l’età mentale doveva ancora prendere doppia cifra.

“No, no, non solo non disturba, ma mi fa piacere se lui ha voglia di parlarmi…”. Ed era tutto vero. In quella sala d’attesa dello studio medico, piena di persone che avevano tutto fuorché voglia di scherzare e ridere, quel bimbo era come la manna del Signore.

”Sai giocare a tris?” gli chiese Alessio e lui rispose di si, ma che non aveva un foglio per farlo. “Io si!!!” quasi gridò Alessio felice della certezza di poterlo sfidare a quel gioco in cui avrebbe dimostrato quanto fosse bravo e quindi grande. “La penna ce l’hai?” gli chiese lui. Gabriele stava per rispondere di noi, ma il piccolo lo anticipò: “Eccola!” Non poteva più evitarlo e forse non ne aveva proprio voglia di farlo. Si girò leggermente verso Alessio e cominciarono a mettere le x lui e i pallini Alessio. Lo fece quasi sempre vincere fino a quando Alessio guardandolo storto gli disse “Mi stai facendo vincere apposta… gioca per bene!!” Adesso era Gabriele a sorridere e si impegnò, ma nessuno dei due da quel momento vinse una manche fino a quando Alessio si stufò e disse “Basta, siamo troppo bravi e io m’annoio! ” Gabriele lo guardò e comprese che era il momento che aspettava da una vita. Mise la mano nella tasca posteriore dei pantaloni, tirò fuori il portafoglio e dallo stesso estrasse una figurina di calciatore della Panini. “Alessio sai cos’è questa?” Il piccolo la guardò senza capire. “Questo Alessio è un vero tesoro che ho tenuto in questo scrigno e che io porto sempre con me, gelosamente. Lo hanno cercato mille e mille persone, in televisione, alla radio, al cinema senza mai trovarla, perché l’avevo io, solo io…” “Cos’è?” chiese Alessio. “Vedi questa foto, questo viso? E’ un portiere di calcio di tanti anni fa, Pizzaballa della Atalanta,conosci la squadra? Si? Bene, questa figurina la volevano tutti, ma nessuno ha potuto averla… eccola qui…” Alessio la toccò con grande timore, come se toccasse il più prezioso diamanti. Poi lo guardò negli occhi con quella meraviglia bambina che è la più profonda delle emozioni di questa nostra vita. Alessio ebbe un attimo di apparente smarrimento, poi mise le mani in tasca e tirò fuori un fogliolino ripiegato in quattro. Lo aprì, c’era disegnato un fiore con una dedica in grafia molto incerta “da Irene a Alessio”. “Fai a cambio con questa?” propose il piccolo facendo capire quanto fosse importante. Gabriele lo guardò. Poi guardò la figurina.

“Te l’affido! Ma mi raccomando, custodiscila come la cosa più preziosa del mondo… il fiore tienilo, non dividerti mai dalle cose belle che ti donano le ragazze… ok?”

Alessio era piccolo, ma comprese tutto al volo. Emozionato, mise la figurina in tasca e cominciò a guardarsi intorno sospettoso. La avrebbe protetta da chiunque.

“Marco, vieni!” Avere un dottore per amico porta a confidenze grezze e modi poco raffinati.

“Sì… Ciao Alessio, mi raccomando… Pizzaballa!”

“Si, si…”

“E anche l’Irene…”

“Sì, sì…”

Vado a letto

Osservo l’ombra lunga
dell’inquieto trascorrere.
Continuo a farmi domande,
continuo a non avere risposte.
Vado a letto e urlo
senza essere udito,
forse mi accade da sempre
e non lo so.
Resta il vento freddo
degli eventi che parlano
una lingua straniera
tanto mi sono incomprensibili.
Nonostante io sogni
mi sveglierò nel presente,
lo stesso che non so cambiare.
Verserò un’unica lacrima,
che la prima estate
asciugherà subito.

Comfort Zone

Sono passati cinque minuti da quando Luciano ha lasciato il suo bimbo a scuola. Gli viene da sorridere pensando a quale entusiasmo mostra il suo piccolo Marco nell’entrare a scuola. Davvero, in quello non gli somiglia per niente. Adesso, seduto a un tavolino esterno del solito bar, Luciano sta bevendo il solito cappuccino dopo aver mangiato la solita pasta. Pur essendo sempre gli stessi ingredienti, nel mangiarli e berli prova un piacere che gli arriva diretto al cervello e lo carica per la giornata che sta per affrontare.

Finito il liquido, nella tazza è rimasta la schiuma con cui il barman, un fenomeno, ricopre il caffellatte. D’un buono che non saprebbe davvero raccontare.

Alla fine posa la tazza sul tavolino e si ferma un attimo a pensare.

Si chiede perché se si trova un equilibrio, se si trova un ritmo di vita piacevole, se riusciamo a abbattere lo stress e a vivere serenamente gli impegni forzati della società in cui vivi, perché ci deve essere il bisogno di cambiare?

Luciano ripensa al suo bambino. Lo accompagna al mattino e lo riprende nel pomeriggio e non c’è molto altro che lo rend felice come quegli impegni. Pensa anche a sua madre e ai due pomeriggi al mese che può dedicarle. Al pranzare con sua moglie. Alla domenica con la famiglia. Tutte azioni che gli fanno svolgere i suoi obblighi di lavoro con la gioia dentro (e dovreste vedere quanto è bravo).

La sua azienda va proprio bene. Poi accade che vuole andare meglio, vuol fare di più, aggredire nuovi mercati.

Tutti dobbiamo essere pronti al cambiamento, gli hanno detto. Luciano sa che sarà costretto a sentire i suoceri per il piccolo Marco, vedrà il suo amore solo la sera tardi e dovrà sostituire la parola festività con giorno di riposo.

Guadagnerete di più e starete in una azienda florida e ricca.

Se imparate a uscire dalla vostra “Comfort Zone”, vivrete grandi soddisfazioni.

Grandi messaggi dell’Azienda per un grande futuro.

Senza tener di conto che la “Comfort Zone” è al contrario il più grande degli obiettivi che un essere umano può desiderare. Lo pensa Luciano, lo pensa per sé, lo pensa per tutti.

Ma sono solo discorsi se vuole continuare a lavorare, lui che non può permettersi di perdere quel posto.

Si alza, va alla cassa e paga il solito: “A domani, finché dura…” dice al barman che gli risponde “A domani!” senza aver capito bene il saluto, che non era il solito.

La Tradizione (per il 1° Maggio)

La tradizione, in casa nostra, è importante.
Il padre del mio trisnonno, che lavorava come una bestia in un podere qui di zona, disse a suo figlio “devi studiare, non voglio che tu faccia questa vita!”
Mio trisnonno, grazie ai grandi sacrifici del babbo, riuscì a fare la prima elementare e fu il primo alfabeta dell’intero nostro albero genealogico.
Il fatto di saper leggere gli evitò di custodire i maiali e relative porcilaie come suo padre, ma non altri duri, sebben più dignitosi, lavori. Allora a suo figlio promise che non avrebbe avuto il suo stesso destino e con altri grandi sacrifici lo fece studiare fino alla quinta elementare.
Un grado d’istruzione straordinario a quei tempi che permetteva al mio bisnonno di svolgere compiti più complicati intellettualmente ma sempre molto faticosi. Allora pure lui decise di far studiare il suo pargolo che si diplomò alla media inferiore. Fu così che mio nonno fu il primo a lasciare l’agricoltura per lavorare in altro ramo, esattamente il tessile, come magazziniere.
Come sempre succede, ognuno vede il suo, e a mio nonno anche questo lavoro sembrava durissimo e decise che suo figlio doveva avere un futuro migliore.
Mio padre si è così diplomato all’istituto professionale come ragioniere. Mai lavorato come ragioniere? Durissimo.
Ed allora, eccomi qui, laureato in scienze politiche. Solo che il lavoro non l’ho ancora trovato.
Almeno quello che vorrei. Attualmente lavoro in un allevamento di suini, tanto per sopravvivere. Come il padre del mio trisnonno.
Appunto, la tradizione.

Riscrivere la Storia

(Racconto nato dalla conversazione odierna basata sulla sfortuna di certi personaggi, letterari o cinematografici)

.

Guardo le ombre corte dei palazzi esposti al sole di questa caldissima giornata estiva. Sono seduto a uno dei tavolini sotto il grande tendone del Bar Giulio e agito nervosamente il piede destro. Mi guardo intorno, cerco di capire da che parte possa arrivare Lara. Prendo in mano il bicchiere con lo spritz che di solito non bevo, ma che stavolta credo ci stia proprio bene, e porto la cannuccia alla bocca. Aspiro un po’ di liquido fresco e me lo gusto senza entusiasmo. Manca ancora 10 minuti all’ora fissata, non posso certo stare così agitato per tutto questo tempo, allora faccio un bel respiro profondo, chiudo gli occhi e alleggerisco la mia anima.

“Ciao, Riccardo”

Eccola già arrivata, in anticipo, ma precisa per farmi fare una brutta figura. Chissà cosa ha pensato di me nel vedermi col bicchiere in mano e in posa yoga e occhi chiusi. Smetto di pensarci e ricambio il saluto.

“Ciao, Lara”

Ha degli occhi bellissimi, un viso perfetto e un corpo desiderabile.

“Come stai?” mi chiede.

“Un po’ inquieto, ma fisicamente bene.”

“Lo comprendo, lo siamo tutti. Intendo nervosi.”

“Posso offrirti qualcosa da bere?”
“Si grazie, una birra rossa fresca.”

L’ordino al cameriere e poi torno a guardarla. Ha un elegante tailleur di colore blu, scarpe con tacco 10 e i capelli raccolti dietro da un nastro nero lucido.

Quando arriva la birra, facciamo un brindisi: “Alla nostra!”
“Lara, sono impaziente. Raccontami tutto.”

“Non c’è molto da raccontare, ma molto da svelare. Io conosco la storia…”

“Allora è vero quello che dicono! Da qualche giorno mi dico che se fosse questa la verità, devo in tutti i modi conoscere lo svolgersi degli eventi.”

“E’ giusto e io sono qui per soddisfare questo tuo bisogno.”

“Ti prego, dimmi tutto quello che sai…”

Lara per un attimo non parla e con gli occhi mi squadra attentamente.

“Sei proprio bello, più di quanto sei descritto…”

Imbarazzato, divento rosso in viso e lei ride. “Non mi risulta che tu sia un timido.”

“Non lo sono, non è timidezza, ma reazione alle lusinghe… ma ti prego, dimmi quello che devo sapere.”

Lara torna silente, sembra non riuscire a parlare e io mi agito ancor di più.

Poi lei prende coraggio e mi racconta.

“Sono dieci capitoli e tu al sesto… muori. A me non va meglio: all’ottavo capitolo me ne vado anche io.”

Non posso credere a quello che ho sentito.”Ripeti!”

“Al sesto capitolo tua moglie e il suo amante organizzano un incidente d’auto in cui tu muori sul colpo. A me invece tocca un tumore al seno.”

Non ho parole, vorrei dire tante cose, ma non riesco.

“Una coppia di psicopatici che non aveva davvero motivo per farlo, ma volevano liberarsi di te prima possibile.”

Alessandra, non posso crederci, così apparentemente innamorata. Così piena di attenzioni e di sguardi languidi. Cosa passa per la testa della gente, o almeno cosa facciamo passare per la testa della gente?

Ed io morirò.

Giovane e bello.

“Mi spiace…”

“Lara non dispiacerti. Anzi ti ringrazio per queste informazioni e per quelle altre che adesso ti chiederò per capire cosa posso fare…”

“Sono completamente a tua disposizione…” e me lo dice con una espressione che si potrebbe fraintendere. O forse non c’è proprio frainteso.

Sorrido. “Hai mai sentito l’espressione <riscrivere la storia>?” le ho detto. “Sarà quello che farò!”

.

Milena e Giuseppe sono due giovani amici che adorano l’autore di “Storie parallele”, ma in questo momento discutono animatamente.

Diciamo pure che la signorina ha acquistato una buona dose di antipatia da parte del ragazzo, essendo stata alla presentazione del libro e per aver acquistato un mese fa una delle trecento copie della prima tiratura speciale firmata dall’autore.

Giuseppe invece ha comprato la sua copia alla Libreria Centrale quattro giorni fa. L’ha letta tutta d’un fiato da quanto gli piaceva il romanzo. In particolar modo il rapporto che si era creato tra due dei personaggi, Lara e Riccardo, che sembravano segnati da un destino avverso, ma che alla fine tutto prendeva una piega inaspettata, fatta d’amore, di speranza e di silenzi.

Però a Milena risultava una tragica fine dei due e contestava a Giuseppe che non avesse neppure letto il romanzo. Il ragazzo pensava lo stesso di lei.

.

Mi dondolo sull’amaca e mi godo il rilassante rumore del mare corallino. Lara, seduta su una sedia da regista, sta leggendo un romanzo.

“Riccardo, sto leggendo <Pazzia e sentimento> della Fursin.”

“Sì, lo so…”

“Nel libro, Robert perde sua figlia in un incidente di mare. Pensì che dovremmo dirglielo?”

“Se ritieni che sia stato giusto per noi, non vedo perché non dovrebbe essere così per Robert.”

Lara mi guarda con due occhi che giustificano il mio cambio arbitrario di <Storie parallele>, poi si alza dalla sedia, si distende sull’amaca di fianco a me e ci culliamo abbracciati.

Scrivo versi invece di contare pecore (25/04)

Vorrei dormire, ma non so,

scuoto la testa e

miei pensieri

rotolano nel cuore.

Conto le emozioni

di questa giornata,

il tempo inquieto, uno,

lo stirare incerto, due,

corone di fiori, tre,

prendere l’auto, quattro,

Ponte Vecchio, cinque.

Scrivo versi invece

di contar pecore,

dentro la libreria, sei,

aprire l’ombrello, sette,

tornare a casa, otto,

accendere la televisione, nove,

ma questo anniversario

toglie il fiato e il bisogno

di contare.

Mi addormenta soltanto

lo zero del non pensare.

Storia della nascita di un moderno Apostolo

Guardava il bicchiere mezzo pieno. Un segno chiaro del suo interpretare la vita. Con la mano destra lo prese e se lo portò alla bocca. Bevve un sorso di acqua fresca e, in quella estate torrida, fu come una botta di vita. La bevanda più semplice, il benessere più intenso. La sedia in legno con la spalliera alta era comodissima e si adagiò all’indietro con la testa rivolta verso l’alto: il suo sguardo ornato di rughe si riempì di un cielo azzurrissimo, qua e là disegnato da bianche traiettorie aeree, linee leggere del miracoloso spostarsi da un luogo all’altro, simbolo della possibilità di cambiare la propria vita. Era tutto così semplice, grandi potenzialità facili da mettere in atto. Doveva capire come fare a trasmettere queste sue emozioni. Doveva riuscirci. Era stanco e arrabbiato nel vedere le nuove generazioni consumarsi in pratiche illusorie o, chi non riusciva nemmeno in questo, a cancellare la propria esistenza e perdersi nell’oblio della signora in nero.

Ero troppo curioso e non solo io, credo. Lo avevano visto alla Multisala e ci andai di corsa. Quando arrivai lo vidi subito. Uno straccione, tutto trasandato, barba incolta, scarpe consunte era in piedi davanti a dei ragazzi che lo stavano chiaramente prendendo in giro. Lui parlava, lentamente, con gesti misurati, tono basso, ma deciso. “Non guardate il mio esterno, non ho tempo per curare il mio aspetto. Devo parlare con più ragazzi possibile, con il maggior numero di voi per raccontarvi la vita”. E ci parlava davvero, raccontava la gioia dei più fortunati e delle difficolta dei meno fortunati e di come si potevano cambiare le negatività. Lo faceva ogni giorno, in ogni momento, si prendeva solo il tempo di mangiare e di dormire (entrambe le cose poco). Sentiva dentro di sé il compito di portare non solo speranza, ma anche la capacità di vedere la propria esistenza in modo diverso, svelare la semplicità che accompagnava una vita degna di essere trascorsa. Ovunque trovasse ragazzi con negli occhi rassegnazione e sfiducia, si fermava a parlare con loro. Le prime volte fu davvero complicato, trovò persino chi lo picchiò, ma non si arrese. Piano piano divenne un personaggio conosciuto nel mondo dei giovani, per molti di loro un punto riferimento, una àncora di salvataggio. Portò la buona parola a chi ne aveva bisogno, perso in una realtà che non era più tale, ma solo una finzione manovrata da chi aveva interesse di comandare questo mondo. Così diceva lui e i giovani che lo ascoltavano erano sempre di più. Anche io, che non sono più un ragazzino, ero venuto a conoscenza di questo soggettino niente male e ero curiosissimo di vederlo in azione. Quella sera dopo qualche minuto che parlava, i giovani smisero di prenderlo in giro e iniziarono a ascoltarlo silenziosi. Raccontò, senza timore di essere contraddetto, della semplicità di essere felici.Guardai i visi di quei ragazzi e compresi il miracolo che stava avverandosi.

Oggi la chiesa è piena. La piazza esterna alla chiesa è stracolma. Centinaia di ragazzi in lacrime lo salutano per l’ultima volta. Se n’è andato per un male impietoso che aveva avuto facile vittoria sul suo corpo consumato. Non meritava questo, eppure ha lasciato scritto: “ciò che mi accade è per ricordarvi di vivere sempre il presente, con tutta la gioia possibile. Perché, ricordatelo sempre, è facile farlo. Come è capitato a me, felice di aver passato i miei giorni vicino a voi.”.

Un pazzo scatenato per la gente normale, quella che non avrebbe mai fatto ciò che aveva fatto lui.

Osservo coloro che stanno pregando per lui e un piccolo pensiero mi sta prendendo: qualcuno deve continuare la sua opera…

Ho aperto la mia dimora

Ho aperto la mia dimora

al tuo bussare,

avevo le finestre del soggiorno aperte,

imbuto invisibile

riversava dentro i raggi del sole

in questa giornata di primavera.

Io amo la stagione della rinascita e dei colori.

Accomodati, ti ho detto,

mentre il divano aspettava ansioso.

Le parole hanno poi colmato il tempo

raccontando spesso del niente

perché anche il niente con te ha un senso.

Alzandoti

hai letto i miei occhi

libro aperto tra rughe e zigomi.

Un saluto si è fatto carezza

in attesa di un tuo bussare ancora