Lo chiamavano “Bilico”
Un omone di due metri con un fisico colossale, spalle larghe e cosce possenti, collo corto, faccia squadrata e camminata pesante.
Quando lo videro la prima volta in città, gli abitanti ne rimasero impressionati e non ebbero il coraggio di dirgli niente, il tutto favorito dal fatto che anche lui si mostrò molto introverso, parlando solo per chiedere una casa e un lavoro.
Fu il piccolo Giovanni a regalargli il nomignolo quando disse “babbo, quello è grosso e squadrato come il bilico che guida lo zio Roberto…”
Il lavoro lo trovò subito presso il più ricco del paese che cercava proprio uno delle sue dimensioni per tagliare la legna nei boschi delle sue proprietà.
Lavoro che svolgeva con grande rapidità e maestria.
Peccato che Bilico non parlasse mai e il suo sguardo fosse sempre serio. Questo provocò negli altri abitanti un profondo malumore.
Si cominciarono a fare tante, troppe domande.
Da dove veniva?
Qual’era il suo vero nome?
Qual’era il suo passato?
Perché si circondava di mistero?
E mille altre così.
Nei bar, nei circoli al teatro, al cinema, nelle case a pranzo, nei giardini, venne il momento in cui non parlavano altro che di lui.
Iniziarono le ipotesi.
Era un vagabondo.
Era un pazzo, fuggito dal manicomio.
Un ricercato.
Un violentatore.
Un assassino.
In un crescendo di paura, come se fosse buio per un bambino.
Bilico non rispondeva a chi con coraggio, ma timidamente, gli faceva delle domande su di lui e questo rafforzò la convinzione di tutti che lui potesse essere un personaggio pericoloso.
Il cuore degli abitanti del paese cominciò a battere in maniera tumultuosa, il pensiero divenne terrore.
Fu deciso che Bilico doveva andarsene.
Tutti volevano che questo accadesse.
Il giorno del dolore arrivò durante un temporale spaventoso.
Il cielo oscuro e la pioggia triste rafforzò nei cittadini la volontà di cacciarlo.
Bilico si vide affrontato dal sindaco e dal capo della polizia e fu invitato a lasciare la città.
C’era anche il suo datore di lavoro che a malincuore gli dette il benservito.
Bilico aggrottò le sopraciglia in un modo che sembrava predire una reazione violenta.
Invece Bilico girò le spalle e senza dire una parola usci dal municipio, dove era stato convocato, per andarsene via proprio mentre una fitta grandine sembrava gridargli un odio incomprensibile.
Dalle finestre lo videro camminare lungo la strada principale che portava alla periferia.
Poi lo videro fermarsi.
“Ci ha ripensato”, si dissero tutti.
In effetti, si girò di scatto verso destra e iniziò a correre verso il fiume. Il capo della polizia col walkie talkie chiamò prontamente i suoi uomini, i quali, molto malvolentieri, uscirono dalla loro stazione per riprenderlo e portarlo fuori dalla città con la forza.
Lo videro dirigersi verso il ponte a grande velocità.
Gli agenti aumentarono il ritmo della loro corsa per raggiungerlo ma non ce la fecero.
Lo videro arrivare sul ponte e gettarsi nel fiume.
Allibiti, si bloccarono per un momento, poi ripresero la loro corsa. Arrivarono al ponte. Il corso d’acqua era tumultuoso causa del temporale, ma i poliziotti fecero in tempo a vedere Bilico raggiungere tra i flutti Ester, la figlia del giornalaio.
Come vi era caduta lo si venne a sapere solo dopo, mentre non si è mai saputo come Bilico avesse potuto sentire le urla disperate della ragazza.
Quell’omone grande e grosso la salvò da morte certa e senza pensare per un attimo a se stesso.
Ester piange ancora quando pensa a Bilico, al suo gesto, al suo rinunciare di restare in quella città nonostante le scuse ufficiali.
Bilico se ne andò senza sorridere a nessuno. Non lo aveva fatto prima, al suo arrivo, non lo aveva fatto dopo.
Ovvero, non è esatto dire così.
A qualcuno sorrise.
Ma questo lo sa solo Ester.
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