Saggio sulla Mitologia Moderna, parte 1°

[MI piace scrivere racconti umoristici, polizieschi, mi diverto con quelli di fantascienza, divento serio con quelli d’amore, serissimo con il tema della morte, mi evolvo con saggi poco saggi, ritorno deficiente con le recensioni cinematografiche.

Insomma mi garba scrivere su un po’ di tutto, che alla fine, come mi disse la mi’ nonna, “ne fai mille e nessuna bene”.

Siccome dalle mi’ parti si dice che la ragione si dà ai bischeri, alla mia nonna non ho mai risposto e ho continuato a scrivere.

Per questo stasera vi ciucciate la prima parte del mio saggio sulla Mitologia Moderna.]

 

 

Comincia la mia personale rassegna dei nuovi dei, figure ormai mitologiche a tal punto da aver sostituito nell’immaginario umano quelle greche e romane.

Saranno descrizioni rapide e concise, daltr’onde, come lo scrisse il mio vicino di casa, c’è poco da raccontare su questi esseri sovrumani.

Stasera parlerò di un dio che ormai fa parte di noi, e se non di tutti , quasi: Paranoide.

Nacque durante un litigio tra Berlusio, dio tra gli dei, e Valium, dea della serenità artificiosa che quel giorno aveva finito le gocce.

Il piccolo Paranoide viveva su un nuvolone nero e carico di pioggia, ma da quanto gli giravano gli zebedei formava continuamente trombe d’aria e uragani, chissà perché sempre negli Stati Uniti.

Alto un metro e cinquantuno e dotato di poteri immensi, carbonizzava tutti quelli più alti di lui, rimanendo da solo nel raggio di quindici chilometri

Creò il mitico Complesso d’inferiorità, l’unica band di rock duro con un solo componente.

Come tutti gli dei crebbe in fretta, così come la sua rabbia.

Ce l’aveva con tutti: litigava sempre con Lardesio, dio del mangio e ingrasso, a cui aveva rubato i tredici panini celestiali.

Con Rocchenrò, dio della musica d’oggi che quella di ieri fa schifo, venne alle mani spesso e finiva che facevano quella danza tedesca in cui si pigliano a schiaffi.

S’innamorava due volte il giorno, più che altro perché s’incocciava quando qualcuno gli guardava la ragazza, fulminandoli, sia lei che lui, con lampi  azzurri che scaturivano dalle sue mani come l’imperatore di Starwars.

Per tre anni fu presidente del Milan, licenziando trentotto allenatori.

Paranoide criticava tutto e stava sul coso a tutti, ma con la protezione di Berlusio,  poté e può continuare a rompere le palle.

Per quanto?

Un’eternità.

Bilico

Lo chiamavano “Bilico”

Un omone di due metri con un fisico colossale, spalle larghe e cosce possenti, collo corto, faccia squadrata e camminata pesante.

Quando lo videro la prima volta in città, gli abitanti ne rimasero impressionati e non ebbero il coraggio di dirgli niente, il tutto favorito dal fatto che anche lui si mostrò molto introverso, parlando solo per chiedere una casa e un lavoro.

Fu il piccolo Giovanni a regalargli il nomignolo quando disse “babbo, quello è grosso e squadrato come il bilico che guida lo zio Roberto…”

Il lavoro lo trovò subito presso il più ricco del paese che cercava proprio uno delle sue dimensioni per tagliare la legna nei boschi delle sue proprietà.

Lavoro che svolgeva con grande rapidità e maestria.

Peccato che Bilico non parlasse mai e il suo sguardo fosse sempre serio. Questo provocò negli altri abitanti un profondo malumore.

Si cominciarono a fare tante, troppe domande.

Da dove veniva?

Qual’era il suo vero nome?

Qual’era il suo passato?

Perché si circondava di mistero?

E mille altre così.

Nei bar, nei circoli al teatro, al cinema, nelle case a pranzo, nei giardini, venne il momento in cui non parlavano altro che di lui.

Iniziarono le ipotesi.

Era un vagabondo.

Era un pazzo, fuggito dal manicomio.

Un ricercato.

Un violentatore.

Un assassino.

In un crescendo di paura, come se fosse buio per un bambino.

Bilico non rispondeva a chi con coraggio, ma timidamente, gli faceva delle domande su di lui e questo rafforzò la convinzione di tutti che lui potesse essere un personaggio pericoloso.

Il cuore degli abitanti del paese cominciò a battere in maniera tumultuosa, il pensiero divenne terrore.

Fu deciso che Bilico doveva andarsene.

Tutti volevano che questo accadesse.

Il giorno del dolore arrivò durante un temporale spaventoso.

Il cielo oscuro e la pioggia triste rafforzò nei cittadini la volontà di cacciarlo.

Bilico si vide affrontato dal sindaco e dal capo della polizia e fu invitato a lasciare la città.

C’era anche il suo datore di lavoro che a malincuore gli dette il benservito.

Bilico aggrottò le sopraciglia in un modo che sembrava predire una reazione violenta.

Invece Bilico girò le spalle e senza dire una parola usci dal municipio, dove era stato convocato, per andarsene via proprio mentre una fitta grandine sembrava gridargli un odio incomprensibile.

Dalle finestre lo videro camminare lungo la strada principale che portava alla periferia.

Poi lo videro fermarsi.

“Ci ha ripensato”, si dissero tutti.

In effetti, si girò di scatto verso destra e iniziò a correre verso il fiume. Il capo della polizia col walkie talkie chiamò prontamente i suoi uomini, i quali, molto malvolentieri, uscirono dalla loro stazione per riprenderlo e portarlo fuori dalla città con la forza.

Lo videro dirigersi verso il ponte a grande velocità.

Gli agenti aumentarono il ritmo della loro corsa per raggiungerlo ma non ce la fecero.

Lo videro arrivare sul ponte e gettarsi nel fiume.

Allibiti, si bloccarono per un momento, poi ripresero la loro corsa. Arrivarono al ponte. Il corso d’acqua era tumultuoso causa del temporale, ma i poliziotti fecero in tempo a vedere Bilico raggiungere tra i flutti Ester, la figlia del giornalaio.

Come vi era caduta lo si venne a sapere solo dopo, mentre non si è mai saputo come Bilico avesse potuto sentire le urla disperate della ragazza.

Quell’omone grande e grosso la salvò da morte certa e senza pensare per un attimo a se stesso.

Ester piange ancora quando pensa a Bilico, al suo gesto, al suo rinunciare di restare in quella città nonostante le scuse ufficiali.

Bilico se ne andò senza sorridere a nessuno. Non lo aveva fatto prima, al suo arrivo, non lo aveva fatto dopo.

Ovvero, non è esatto dire così.

A qualcuno sorrise.

Ma questo lo sa solo Ester.

 

fantascema 1

(adoro da sempre la fantascienza, in particolare il cinema. Mi sono visti tutti i film fatti fino ad ora, credo, dai più mistici alle più grandi boiate che potessero essere prodotte e senza una pistola puntata alla tempia. No no, proprio fatto di spontanea volontà. Chiaro che se uno è scemo, non può che scrivere fantascema…)

Fantascema 1

In certi termini tecnici dovremmo dire che il propulsore presentava una difettosità irreparabile, in altri dovremmo dire che il tutto si fermò all’improvviso senza sapere perché.

Andammo alla deriva. Chissà cosa vuole dire quando si è nel vuoto… boh… insomma, si viaggiava  a centomila chilometri il secondo, visto che nello spazio la velocità si mantiene e quando s’è rotto il motore s’andava come le fucilate. Fucilate al laser, non a pallettoni, questi vanno più piano.

Eravamo preoccupati.

“Come cazzo si fa a frenare???” Urlò il comandante.

“Chissenefrega di farlo”, rispose il vicecomandante.

“Perché?” berciò il comandante.

“Perché prima di trovare un ostacolo… eccolo qui, il pianeta Mygrandmotherinwheelbarrow… ci vorranno trecentosettantadueanni.”

“Ah, allora ceniamo!” terminò il colloquio di lavoro il comandante.

E cenarono.

L’astronave in realtà, poco tempo dopo, passò a quella velocità a 48  metri da un asteroide di dimensioni mitologiche, un paio di centinaia di chilometri di diametro, che dallo spostamento d’aria cominciò a girare come una trottola. Tale movimento creò linee di luci così belline che tutti i componenti dell’equipaggio guardando dall’oblò fecero: “ooohhhhh!”

Eh, meraviglie dell’universo, che per il resto fa due palle come quelle d’un cammello da come è buio, vuoto e silenzioso. Tipo Giacomo. Sì, lo so che non lo conoscete, ma ve lo darei per un paio di giorni per vedere se non la pensate come me.

Un marinaio dell’astronave, saputo dell’impossibilità di riparare il motore fu preso da crisi mistica e cominciò a urlare di pentirsi. Molti lo seguirono urlando “ma chi cazzo ce l’ha fatto fare di montare su questo catorcio”. Poi smisero di farlo quando alla trasmissione “fatti una striscia e poi dai la notizia” della tv Teletrasporto 5 rivelarono che il marinaio era un androide della “Compagnia delle estrazioni di diamanti sui pianeti sconosciuti, speriamo d’avere culo di trovarli” messo lì per controllare che gli uomini facessero l’interesse dell’azienda nonostante il contratto “a tempo determinato tre mesi forse si rinnova forse no al che vi si schizza fuori da un oblò”…

Alejandra, una splendida portoricana con compiti di raffreddare i tubi dei cessi che si trovavano intelligentemente tra i due reattori multiatomici ( compito assegnatole dopo che erano esplosi già sei volte smerdando le cellule di uranio e rendendole peggio che radioattive), Alejandra, dicevo, faceva parecchio i cazzi suoi. Mi direte e allora? e io: come allora??? Che ne trovate tante?

l’astronave di fabbricazione cinese (e questo la dice lunga sul motore) aveva un equipaggio composto da seimila persone di cui 50  che comandavano, dormivano e mangiavano come maiali all’ingrasso e gli altri  facevano turni di 16 ore dopo che i giorni per convenienza eco-sociale erano stati portati a 32 ore, tanto non c’erano nè albe nè tramonti. Nessuno da quanto aveva da fare ebbe tempo di preoccuparsi della rottura del motore e questo fu un gran bene per il proseguo del viaggio.

Per trecentosettantadue anni.

Poi l’astronave si schiantò contro il pianeta Mygrandmotherinwheelbarrow.

Perché è inutile: certe organizzazioni sociali, specie in un vuoto così vuoto, prima o poi si disintegrano…

Un lavoro come un altro

 

Svuotare i pozzi neri non è mai stato il mio obiettivo, ma avete provato ad avere tre figli, una moglie, un mutuo e un licenziamento tutto in una volta a 55 anni?

Hai voglia ad essere un uomo di grandi competenze, costo troppo.

Dopo tre esperienze di contratto a progetto, senza ferie e contributi, durati non più di sei mesi l’uno, ho dovuto accettare questo lavoro.

Ero in alternativa come guardia giurata, ma appena mi misero in mano la pistola me la feci sotto e scelsi l’opzione tubo aspiratore.

Contratto a tempo indeterminato.

Ma capii subito che a termine, molto a breve, stava per diventare la mia vita.

Io che mi dilettavo in poesia mi trovai a gestire il peggio di noi stessi, a odorarlo, aspirarlo e vomitarlo in serbatoi così paradossalmente lucidi da farmi dubitare su ogni attimo del mio passato.

Questo all’inizio.

Poi come affondando in un mulinello di ignavia, il mio corpo e soprattutto la mia anima si sono assuefatti a questo trascorrere il tempo in compagnia dei più grossi stronzi mai visti.

Voi non potete immaginare quali dimensioni e  quali fantasiose forme possano avere.

A forma di S di una durezza marmorea (fateli voi se riuscite), bitorzoluti di nove centimetri di diametro, piramidali oppure finissimi e lunghissimi (il record è 37 cm).

Mi domando che parti anatomiche sgangherate avessero i produttori di tali meraviglie della natura.

A forza di scoprirne di nuovi il mio lavoro ha preso un aspetto diverso, più interessante, più curioso, persino ne ho scoperto, con grande soddisfazione, i lati psicologici.

Come oggi, quando Carmela ha perso la fede nel cesso.

Sentivo le urla disperate dal tombino del suo condominio che avevo appena aperto per svuotare il pozzo nero.

Nonostante il terrificante rumore del mio camion, le grida di Carmela lo superavano di diversi decibel.

È successa una disgrazia, ho pensato.

Beh, quasi, se non che Carmela ha avuto la fortuna che io fossi lì proprio in quel momento.

Me la sono vista apparire improvvisamente e prendendomi per il bavero ha cominciato a strattonarmi sbarellando parole incomprensibili dietro lacrimoni  impressionanti.

Stavo cercando di capire cosa diceva quando è arrivata una sua vicina a dirmi cosa era successo.

L’ho guardata.

“Ci penso io!” le ho detto per rassicurala.

Era l’ultima tirata di sciacquone, non poteva essere in fondo.

Mi sono chinato sul tombino, lentamente ho infilato il braccio negli escrementi e con fare sagace ho cominciato a frugare.

La mia mano girava con delicatezza nella poltiglia, poi l’ho sentito.

Ho preso l’anello e, tenendolo tra due dita, l’ho mostrato a Carmela.

Niente ha potuto trattenere la gioia della giovane donna, neppure la mia mano merdosa.

Mi ha abbracciato fortissimo gridando “Grazie, grazie, grazie…” per non so quante volte.

“Di niente” le ho detto vedendola allontanarsi con l’orma marrone delle mie dita sulla sua camicetta rosa.

Ho pensato che niente può fermarci davanti alla felicità.

L’ho pensato anche adesso che sono sul divano con in braccio Katia, la mia piccola di sei anni.

E’ bellissima e anche oggi ha trovato una scusa ( “sono due mesi dal terzo tagliando della Punto, babbo!”) per regalarmi un sapone deodorante nuovo.

 

 

 

 

 

Vorrei donarti tutte le parole del mondo

vorrei donarti tutte le parole del mondo

quelle che ti fanno felice di esistere

di sentire la terra scorrere sotto i tuoi piedi

e di respirare con occhi chiusi e il petto al cielo

le sceglierei nei colori, nei toni e nei sensi

e te ne vestiresti come un tailleur elegante

 

Vorrei donarti tutte le parole del mondo

perché cosa mi resta d’altronde?

Se ti dicessi che darei luce alla notte

nel guardare il sonno arrivare ai tuoi occhi

o che ogni mio ritorno verso casa

sarebbe il vero inizio dei miei giorni

cosa potresti pensare

se non che fa male giocare coi desideri?

Così come quando ti chiedo un bacio

di quelli che non hanno niente d’immaginato

ma il sapore di una magia realizzata

davvero cosa mi resta, se non le parole?

scritte o dette

che differenza fa

sono quelle che il mio cuore spreme nella tua mancanza

ti prego

cancella quel egocentrico che fa male dentro

che m’è così distante

poiché non sono al centro di niente

e niente si fa mio satellite

in questo universo che non ha misure

sono laggiù, ai confini dell’infinito

a tendere la mano a una mano che non c’è

o meglio che non posso toccare

così lontana e irraggiungibile

per questo vorrei donarti tutte le parole del mondo

e lo farò finché tu lo vorrai

finché la tua sete non sarà saziata

e io dovrò tornare muto

IN MORTE DI DUE NERI (Dramma d’amore)

Dopo l’ultimo massacro erano rimasti solo loro due.

Fu in quel frangente di dolore che si conobbero. Sì, qualche volta si erano intravisti ma non erano mai venuti veramente a contatto.

Da quel momento ogni passo, ogni decisione, ogni pasto, ogni riposo fu fatto in comune.

Soli, continuamente braccati, in pericolo, costretti a vivere nei luoghi più bui, sporchi, negli anfratti più scomodi e freddi, arrampicandosi fino ai nascondigli più impensabili.

Ma come spesso accade è nei momenti più difficili che nascono e crescono  quei sentimenti fatti di sostegno, comprensione, complicità che portano alla nascita del grande Amore, quello con la A maiuscola.

I due non sfuggirono alla regola.

Lui era il più forte fisicamente e non mancava mai di aiutarla, lei lo sosteneva con le sue parole e se all’inizio si limitarono a solo a guardarsi nei loro profondi occhi scuri fu naturale quella esplosiva attrazione che li portò ad accoppiarsi.

Decisero che sarebbero stati i progenitori delle future generazioni e che avrebbero avuto quanti più figli fosse per loro possibile.

I loro spietati cacciatori, quei maledetti killer, non l’avrebbero avuta vinta.

Rimase quasi subito in stato interessante ma il cibo scarseggiava e lei non stava molto bene.

Erano in un luogo nuovo, mai ispezionato prima, quando lei vide quel cumulo bianco. Si avvicinò e capì che si trattava di zucchero. Forte fu il desiderio e il bisogno da doverne ingerire subito un po’. Lui non fece a tempo: “Aspetta!!”.

I fortissimi dolori al ventre non tardarono ad arrivare. Lui la soccorse ma capì subito che non c’era più niente da fare. Preso da un indicibile furore uscì all’aperto ad urlare tutta la sua disperazione: “Me l’avete avvelenata, me l’avete uccisa, maledetti… maledetti voi e il vostro veleno…” e fu in quel momento che una pesantissima rete metallica calò su di lui uccidendolo.

Il bambino con lo schiacciamosche in mano corse da sua madre urlando”Mamma, mamma, vieni a vedere, ho spiattellato una piattola! Vedessi che schifo, tutto giallo, bleah…”.

Guardando i resti del suo grande amore la piccola scarafaggio, ormai alla fine per i terribili spasmi, versò dagli occhi  una piccola lacrima.

 

Chitarra (racconto breve, dei miei)

Era come se avesse cancellato tutte le regole del mondo, a parte quella che per mangiare serviva un minimo di soldi. Per questo accettava gli spiccioli che si trovava ogni tanto davanti ai suoi piedi. Un tozzo di pane e un po’ d’acqua gli bastavano a sopravvivere e superare il morso della fame.

Sei anni prima aveva rotto col passato e col presente e, in fin dei conti, anche col futuro. Aveva mandato tutto e tutti a quel paese.  Lasciò il lavoro, salutò chi gli era stato vicino fino ad allora e che ritenne non avesse più bisogno di lui e per mesi non fece altro che prendere lezioni di chitarra. La predisposizione naturale lo aiutò nell’apprendere in tempi brevissimi.

Quando si sentì pronto iniziò.

 

 

Ormai si è sparsa la voce. Lungo la ciclabile che gira intorno alla città non c’è giorno che non si incontri. Cammina a passo svelto con la chitarra in mano e suona. Lo fa in maniera straordinaria e ascoltarlo è un dono inaspettato, ma ciò che sorprende è questo fatto che faccia footing suonando  pezzi bellissimi senza fermarsi se non per pochi minuti in alcune oasi di sosta. Per poi riprendere all’improvviso il cammino. Senza mai smettere di suonare. Lo fa senza parlare, senza salutare o dare altro segno di contatto con la gente. Forse è proprio questa la magia che lo pervade e che lo rende occasione di meraviglia e di inatteso.

E se alla sua prima apparizione non  furono che pochi i curiosi a sorridere a questa stravaganza, adesso sono a decine a seguirlo e persino alcuni cercano di accompagnarlo con altri strumenti. C’è un’aria nuova, in città: si sente musica ovunque, nei vicoli, nelle strade maestre, nei negozi, nei locali di ritrovo. La gente fischietta, sussurra motivetti, si muove a passo di danza.

Mi viene da pensare che solo la pazzia riesce a farci stare bene insieme.

Adesso perdonatemi, ma si è fermato sotto il ponte della ferrovia. Ha iniziato uno dei suoi brani, almeno si crede sia suo, non avendolo mai sentito prima, e voglio gustarmelo bene prima di continuare la passeggiata.

Panna (racconto cortissimo, dei miei…)

Le tue potenzialità, mia cara, mi sono apparse subito evidenti e notevoli.

Quando ti dissi che il tuo esprimerti mi affascinava e che il mondo ti sarebbe stato riconoscente se tu avessi fermato le tue parole in maniera leggibile a tutti, tu mi guardasti con un sorriso di scherno.

Verso te stessa e non verso di me.

Eri dolcissima in quel tuo atteggiarti, in quella tenera insicurezza dei propri mezzi che rende luminosamente ingenua e vera una donna come te.

Non volevo forzarti e ho smesso di pregarti di scrivere.

Quando fosse stato il momento sarebbe accaduto.

E il momento è arrivato.

Qui, disteso nudo sul letto, mi sono offerto a te e ai tuoi occhi dallo sguardo ipnotico.

Quando prima di arrivare in quella camera hai chiesto di comprare un po’ di panna, ho sorriso col cuore alla tua golosità bambina.

Poi, però, quando ti sei seduta su di me, è accaduto un fatto straordinario.

Con le dita coperte di panna, in uno sfiorare che portava i sensi verso un paradiso sconosciuto, mi hai scritto sul petto:

 

Ti amo

Nient’altro che questo

 

Ti amo

 

Sto piangendo, perché mentre con la bocca ti gusti la panna percorrendo il mio corpo, stai cancellando l’unica cosa che hai scritto per me… ma tu continua, va!

Non posso costringerti a non fare le cose che vuoi…

chiavi

Ogni tanto la guardo come adesso, con tutta la tenerezza che posso.

Non è facile passare un momento come il suo. Era quella che apriva il giorno e quella che lo chiudeva per giungere alla notte di riposo. Non che si sentisse migliore delle altre o più importante, solo credeva di essere indispensabile per il suo compito. Poi ti svegli un mattino e ti accorgi di non essere poi così necessaria, anzi tutto di un tratto ti rendi conto che non vali niente e a niente servi. Come in un destino scritto per un film eccola lì, messa vicina al suo carnefice. Non riesce neppure a fargli un gesto, a degnarlo di uno sguardo.

Lei è la piccola chiave standard del garage, marca Silca. Serena e tranquilla mai avrebbe sospettato l’arrivo del telecomando a distanza. Marta sorride premendo il tasto per aprire il bandone del garage col meccanismo elettronico, lei invece piange alla certezza dell’inutilità della sua presenza.

È così da un po’ di tempo e fra tutte non riusciamo a consolarla, neppure dicendole che se si scaricano  le pile del telecomando allora lei avrà la sua bella rivincita.

Ciò che conta è l’adesso.

È un bel mazzo di chiavi, quello a cui sono attaccata. Tutte molto simpatiche, ci si parla volentieri, soprattutto per il fatto che quando si ha un compito specifico e lo si svolge in maniera elegante e precisa, ci sentiamo sempre bene. Così accade per me e le mie colleghe. Solo la piccola Silca ha reazioni contrastanti, ma comprensibili.

Marta ci ha posate su di un tavolo. Siamo davvero tante, almeno una ventina. E pesiamo molto, ma lei ha una borsa che sembra un container.

Ho fatto amicizia stretta con Mottura, una enorme chiave a doppia mappa. È la più usata di tutte essendo quella del portone blindato con l’impugnatura di plastica blu, quasi del tutto consumata.

È che con lei mi sento sicura, protetta.

Ma poi in fin dei conti parlo un po’ con tutte le altre.

Molte sono chiavi standard, di media grandezza. Wally, Cisa, Mg, tutte molto allegre, sagaci, piene di voglia di fare. Aprono cantine, porte esterne del condominio, lucchetti. Ce n’è una invece molto circospetta, sempre sospettosa e poco confidenziale. Non ha nome né marca e apre la cassaforte di Marta. Ma non è una chiave cattiva, è il compito assegnatole che la rende così introversa.

Io sono la più piccola di tutte.

Una Skeleton, una minuscola e semplicissima skeleton a cui Marta tiene tantissimo.

Ne sono certa perché quando mi usa per aprire la segreta nel cassettone di camera sua, si emoziona tantissimo.

Ne estrae sempre dei fogli scritti a mano, pieni di poesie e di pensieri.

Sta un po’ a leggerli con un sorriso bagnato da lacrimoni innamorati. Mi fa davvero tenerezza e sono orgogliosa di essere custode di quei fogli contenitori di chissà quali segreti. Poi, li bacia e ripiegandoli accuratamente li ripone nella segreta.

Mi usa per chiuderla e, anche se lo fa raramente, ne sono davvero orgogliosa.

Tutto il resto del tempo cosa faccio?

Chiacchiero con le altre legate a me da un immenso portachiavi e mi accoccolo di fianco alla grossa  Mottura.

Benessere e protezione.

Cosa posso chiedere di più.

Breve di fantascienza

 

 

(nato da tre parole date: Sdraio/clessidra/spiccioli)

 

La colonizzazione dei mondi si rese necessaria quando la razza umana raggiunse il numero di 108 miliardi di individui, di cui 100 tutti cinesi. Si deve considerare che se gli occhi a mandorla riescono a abitare in trenta in 4 metri quadri, agli altri garba stare single in 200 metri. Per questo motivo non ci fu altra strada da percorrere se non trovare altri pianeti abitabili.

Fu così costruita la prima astronave interstellare fu battezzata SDRAIO. Forse perché fu ideata da uno di Viareggio o forse perché si apriva a sdraio quando dopo il decollo i cinquemila dell’equipaggio dovevano entrare in crio-sonno (“più comodi di così un c’è verso!” disse uno di Firenze con a fianco un ombrellone e una Coca Cola con la ‘annuccia ‘orta).

Solo uno, tal Rocco, non poté entrare nel sonno indotto. Infatti, per l’urgenza di partire, nessuno dell’equipaggio si era portato un orologio e il capitano, un paranoico che diceva di chiamarsi Kirk, non trovò altra soluzione che fregare al piccolo Giannino Stoppani (un ragazzino rompiballe che stava antipatico a tutto l’equipaggio) la clessidra da trenta secondi del suo Monopoli e obbligare Rocco a tenere conto del tempo trascorso  contando i giri della clessidra.

Erano passati 29 anni, 7 mesi, 3 settimane, due giorni, 7 ore, 21 minuti e mezza clessidra senza mai addormentarsi per non perdere il conto, quando Rocco, con gli occhi gonfi e il pisello rinsecchito, osservò il  risveglio dell’equipaggio dal criosonno. Il capitano Kirk lo guardò e senza nemmeno salutarlo gli chiese che giorno era. Rocco rispose sulla data, ma il capitano dubbioso disse “Ma sei sicuro? T’hai una faccia a bischero che a fidarsi… non so… EHI!!! Gira la clessidra!!! Vedi? Come faccio a non dubitare?”. Kirk poi guardò lo schermo e vide il pianeta. “Domani atterriamo! Rocco, contento?”

Il giorno dopo, fatti i dovuti controlli sulla composizione chimica dell’aria e uno studio del territorio, fu dato l’ok per l’atterraggio. Terminata la manovra, davanti allo schermo gigante proprio mentre davano la finale della Champions, apparvero tre esseri strani, molto strani, che grazie al traduttore universale fecero alcune domande in lingua umana:” Chi cazzo siete? Che cazzo volete? Che cazzo cercate?” al che gli spettatori della partita risposero: “ LEVATEVI DA’ COGLIONI!!” “MOSTRI SCHIFOSI, PROPRIO MENTRE BATTEVANO IL RIGORE!!” “LA MAIALA DELLE VOSTRE MAMME!!!”

Il traduttore universale, purtroppo, funzionava nei due sensi, peraltro benissimo.

Uno degli alieni (che poi alieni, a seconda dei punti di vista, sarebbero stati gli umani), chiese al collega se aveva degli spiccioli. Ce li aveva e glieli prestò. “Grazie, ma lo sai anche te, su questo pianeta si paga proprio tutto…” e infilò le monetine in un attrezzo a bischero, una specie di fine e lunga canna con dei palloncini a metà lunghezza. Mirò verso l’astronave e con un raggio blu del diametro di mezzo centimetro disintegrò l’astronave di 800 metri di lunghezza.

Gli alieni tornarono a giocare a sgrhjujsuyd. E come si divertivano!