Evanescenza

Mi verrebbe da dire che il tuo è stato un bacio assassino, ma è chiaro come il sole che non è così.

Rivederti dopo così tanti anni è stato un vero e proprio shock, una emozione che ha azzerato tutte le mie sicurezze e ha sciolto come un gelato al sole ogni mio muscolo facendone poltiglia informe. Ovviamente tu non te ne sei nemmeno accorta, non potevi non avendomi più visto da trent’anni, ma non ero più  me stesso.

Il bar, il nostro bar (ma questo probabilmente non lo sentivi come me) era particolarmente affollato e rumoroso, ma come sempre accade in momenti come questi, non sentivo assolutamente niente se non la tua voce.

Il cappuccino col cuore di schiuma mi costava 50 centesimi in più, ma avrei dato dieci euro al barman se riusciva a scriverci “Dio, quanto sei bella!”

Abbiamo cominciato a raccontarci di noi, di tutti questi anni passati lontani, delle nostre esperienze e di quello che era il nostro presente.

Io parlavo come un demente, con respiro affannoso tartagliando come un motore a due cilindri; lei invece muoveva quella sua bocca scrivendo nell’aria le parole con la grafia divina della perfezione e ascoltavo la melodia dolce dei suoi racconti con l’espressione ebete del mancamentato mentale.

Siamo stati tre quarti d’ora a parlarsi, seduti a un tavolino all’esterno del bar, proprio di fronte alla piazza. Ogni frase mi allontanava da lei, gli impegni, la famiglia, il lavoro, ma non c’era niente di nuovo, niente di diverso da quello che era stato fino a quel momento. Io ingenuamente innamorato di chi non potevo avere, ma che avrei difeso con la vita se ce ne fosse stato bisogno.

Solo che a un certo punto lei ha smesso di parlare e mi ha guardato negli occhi. “I tuoi sono bellissimi – mi ha detto – mi sono sempre entrati dentro e ci sono rimasti.”

Ho avuto uno sbandamento come a uno che gli si rompe i freni in curva alla 24 ore di Le Mans. Non sapevo cosa ribattere.

“Non dire niente – mi aiutò lei così – dammi solo un bacio. Il bacio che non mi hai dato quando avresti dovuto.”

Mi ha dato un bacio, anzi IL BACIO. Poi si è alzata con una leggiadria che ancora fa tremare le mie gambe, mi ha sorriso (e che sorriso!) e se n’è andata. Per sempre.

È passato qualche giorno e comincio a comprendere quello che mi sta accadendo.

È evanescenza quella di cui sono vittima, sto scomparendo lentamente.

Sto svanendo.

Vittima felice di un bacio che ha reso inutile tutto il resto.

 

 

senza titolo

D’improvviso le piccole attenzioni
quelle che non so altrimenti darti
mi svelano il niente d’intorno a me
Tu che m’hai procreato mi guardi silente
in quell’impossibile comunicare
i tuoi pensieri fermi alla porta del cuore
Ma non importa che dalla tua bocca
escano suoni che parlino di te
senza saperlo mi racconti la vita
ed io imparo ciò che conta davvero
Addolcisci i tuoi occhi stanchi e impotenti
come faccio io guardando te

Quattro mesi (racconto breve)

L’articolazione mandibolare si apriva in uno sbadiglio che riassumeva la trance del momento.

Da tempo, ogni mattina, si svolgeva questo rito che aveva ormai il sapore ancestrale di un evento che si perdeva nella notte dei tempi.

Ero certo che tu non mi vedevi, altrimenti avrei messo la mia mano davanti alla bocca, in quella reminescenza educativa che faticosamente cercava spazio in una famiglia operaia e di sinistra (quella vera, rossa) cui appartenevo.

Appena le due arcate dentali si riunivano alla fine del gesto di dispersione di sonno, sorridevo. Era l’espressione di un pazzo, di un maniaco che si fermava sotto una finestra, neanche tanto vicina a dire il vero, e ascoltava (credeva di ascoltare) il respiro leggero di una ragazza addormentata e ignara.

Sorridevo perché sapevo che avevi il viso rilassato (o forse no, chissà cosa ti riservava la vita), sorridevo perché, vittima di una timidezza da record del mondo e nella mia incapacità totale, era il regalo più grande che potessi farti. Sorridevo perché ero certo che fosse l’unica cosa che poteva rallegrarti i sogni.

Per quattro mesi, ogni mattina alle cinque e mezza, accadde questo. Nessun sole all’orizzonte, in quei mesi di inverno pieno. Il buio a accompagnare me che accompagnavo a lavoro mio fratello, prossimo alla patente, ma non ancora automunito. E prima di tornare a casa, passare da te.

A casa si chiedevano come mai fossi felice di farlo e non mostrassi mai disagio.

Se avessero visto quanto eri bella, non si sarebbero mai fatto domande del genere.

Il blocco appunti e il disco

–        Ma te chi sei?

–        Perché? Che te ne frega?

–        Si fa per ragionare! Mamma mia che scorbutico… certo tutto nero in codesto modo come potevi essere altrimenti.

–        Ascoltami bene, ciccino, se tu avessi la storia che è dentro di me t’avresti più rispetto!

–        Eccolo, Nembo kid! Ma chi ti credi d’essere? E poi scusa, io non t’ho certo offeso. Ho chiesto solo chi sei.

–        …

–        …

–        Sono un disco in vinile

–        Ah… e cioè?

–        Caspita ma sei proprio ignorante! Non sai cos’è un disco in vinile?

–        No.

–        Siamo musica, caro, siamo suoni, melodie, aria colorata, baci ballati, battito del cuore. Siamo il trascorrere ritmico di una esistenza. Capisci? Puoi comprendere il senso?

–        Perché non dovrei? E ti dico, bello! Accidenti!

–        Ah, ecco… appunto! Ma tu invece chi sei?

–        Io non sono tutte codeste cose, sono molto più semplice.

–        Ognuno è quello che è. Ma tu cosa sei, esattamente

–        T’importa davvero saperlo?

–        Sì!

–        Beh, se proprio ci tieni sono quello che ti ha permesso di essere qui, quello che ha fatto si che tutti noi ci trovassimo ancora tutti insieme in questo posto.

–        Sai, mi stai proprio sulle palle! Presuntuoso alla millesima potenza.

–        Tu sarai tutto quello che dici, ma sei anche uno che giudica senza sapere.

–        E cosa ti fa pensare di essere quello che dici? E comunque, cosa sei?

–        Beh, anche tu vedo che non hai conoscenze particolarmente profonde. Sono un blocco appunti dalla copertina lavorata e con fogli bianchi di carta riciclata.

–        E quindi?

–        Quindi cosa?

–        Quindi a cosa servi?

–        Mamma mia, qui i ruoli si invertono. Ma davvero non sai a cosa servo? Vabbè, appartengo a lui e fui un regalo di lei, uno dei primi se non il primo in assoluto. Gli garbai subito, adorava scrivere e decise di coprire le mie pagine coi suoi pensieri, di farne lo scrigno segreto agli occhi di tutti, compresi a quelli di lei. Poi mi donò le sue poesie e sopra di me lasciò tutte le emozioni che lei faceva germogliare nel suo cuore.

–        Carino, davvero.

–        Grazie.

–        Ma mi domando perché tu dovresti essere il nostro salvatore…

–        Non ho salvato nessuno, ho solo detto che se siamo tutti insieme qui è solo per merito mio.

–        E in che modo lo avresti fatto

–        Hai tempo?

–        Perché? Secondo te dove dovrei andare?

–        In effetti… allora, non sempre tra loro sono stati momenti felici. Ci fu un periodo estremamente nero, dove gli scambi di sguardi parlavano una lingua dura e dove la gelosia la faceva da padrona. Triste storia la gelosia, erode e corrode il desiderio e la fiducia e spinge a decisioni irresponsabili. Un giorno lui mi prese e con le lacrime agli occhi iniziò a scrivere usando quella schifezza di penna bic da due lire. Ma mi ascolti?

–        Di solito lo fanno gli altri con me, ma ti seguo, sì, vai tranquillo.

–        Insomma scrisse queste parole

 

 

 

Un mio pensiero

Per te

 

 

 

Ti lascio per sempre

 

 

 

Poiché amore

S’è perso

In questo nulla

 

 

 

Ma

Di me

Avrai

Solo il ricordo

 

 

 

–        Comprendi?

–        Cosa dovrei comprendere?

–        Le stava dicendo che era tutto finito! Ma certo tu sei un capoccione terrificante!

–        Ah, sì, credo di aver capito.

–        Insomma, lui non lo sapeva, ma lei di nascosto ogni tanto mi prendeva e mi leggeva. Avresti dovuto vedere le sue lacrime di gioia! Uno spettacolo!

–        Quindi?

–        Quindi cosa?

–        No, dicevo: e se lei leggeva che importanza ha?

–        Tu suonerai anche bene, ma hai la sensibilità di uno scoglio di Viareggio.

–        Spiegati.

–        Ma caspita, se lei avesse letto l’ultima poesia, le sarebbe preso un coccolone. Lei lo amava alla follia!

–        Quindi?

–        Ancora? Ma come disco tu sei incantato, vero?

–        Cerca di finire veloce, va!

–        Non potevo tenere quella poesia.

–        E cosa è successo?

–        Beh, non potevo cancellarla, non avevo i mezzi necessari.

–        E come hai fatto? Ti sei buttato nel fuoco?

–        Davvero spiritoso… no, ho fatto l’unica cosa possibile sperando in un bel colpo di culo.

–        Hai giocato al superenalotto?

–        Te sei proprio un deficiente. No, ho cominciato a agitarmi.

–        Perché?

–        Per mescolare le parole.

–        ???

–        Sembravo un contenitore per fare i cocktail, sciabordavo quella poesia sul mio foglio con tutta la forza che avevo.

–        E cosa è successo?

–        È venuto fuori questo

 

 

 

ti lascio

il ricordo di me

ma avrai

per sempre

un mio pensiero

solo per te

 

poiché nulla

s’è perso

in questo amore

 

 

 

–        Mi sembra un po’ diversa.

–        Abbastanza perché lei, leggendola, rimanesse ancora una volta contenta  e lui avesse il tempo di capire quanto fosse sciocca la sua gelosia.

–        Com’è finita.

–        È finita che è trent’anni che siamo in questa scatola…

–        Ah, ecco perché! Se tu non cambiavi il senso dei versi…

–        Sei davvero perspicace.

–        Grazie.

–        Di niente. Dimmi, quelle le conosci?

–        No.

–        Gli va chiesto, no? Scusate, ma voi chi siete?

–        Fotografie…

–        Cosa?

–        Fotografie.

–        E cioè?

–        Siamo gli attimi della vita, le immagini della memoria, i colori del tempo, la visione lucida dell’esistere…

–        Ti pareva? Tutti fenomeni come te, in questa scatola, mio caro vecchio vinile…

 

Anzi

Davvero vorrei sorridere

sorriderti anzi

ma a cosa servirebbe?

Qui in riva al mare

l’acqua mi carezza i piedi

e il vento suona nel silenzio

sto bene

benissimo anzi

ma che senso ha se non te lo racconto?

Passano i giorni

senza particolari scossoni

il sole sorge e non lo vedo

ma lo guardo sempre tramontare

nel mezzo e subito dopo

una vita normale scorre

e sono fortunato

fortunatissimo anzi

ma come può essere vero senza di te?

Il lago e il mare

Il  lago non gli piaceva, non gli era mai piaciuto. Quando tutti dicevano “andiamo al lago!” lui scuoteva la testa, ma per non essere quello che rompeva le palle stava zitto e ci andava.

Adesso era lì da solo e comprendeva ancor di più perché non amasse quel luogo. Non quel lago, ma tutti i laghi.

Acqua ferma, immobile, silente e triste. E putrida, li sulla riva, con quelle alghe, con quei sassi scivolosi e verdi dalla superficie schifosa. Si domandava che cosa ci avessero da scrivere poeti e scrittori su una parte così morta della Natura.

Prese un sasso piatto, adatto per ciò che voleva fare. Lo lanciò parallelo alla superficie, lo fece in maniera perfetta. Avrebbe dovuto fare tre quattro cinque saltelli sull’acqua. Affondò impietoso al primo impatto.

Non ci siamo, pensò tra sé.

Si alzò in piedi e senza nessuno intorno si sentì alto. Da quella altezza imprecò contro quell’immenso circolo d’acqua e urlò “bel troiaio di posto, sì!” Si guardò attorno e sospirò vedendo che non c’era alcuno che lo potesse prendere per un paranoico.

Ciao. Gli venne di salutarlo, il lago, senza astio e, montando in macchina, non comprese questa alternanza di emozioni.

Il tragitto seguente si fece breve, tutto si fa veloce quando i pensieri ti occupano la mente e non ti lasciano vivere  il vero. Attraversando delle splendide pinete che ai suoi occhi erano solo strisce verde-marroni, si trovò a una rotonda d’asfalto circondata di sabbia. Con l’auto era nel mezzo di una spiaggia e lì la lasciò parcheggiata senza chiuderla. Si tolse le scarpe e i calzini. Quando poggiò le piante dei piedi sui granelli umidi di un’aria bagnata d’acqua salata, sentì un brivido lungo la schiena per giungergli ai gangli nervosi di un cervello confuso e fuso.

Sospirò forte e si incamminò verso il tramonto. Una cinquantina di metri per trasformare l’affondare i piedi dentro sabbia fredda in un infrangere onde morenti su bagnasciuga.

Guardò il mare. Mosso. Agitato. Imprevedibile. Il sole, lontano nel vento, sembra spettinarsi nell’affogare nell’ultima riga di mare.

Ecco, è così mi piace il mondo, si disse.

Immerse la mano nell’acqua e ne sentì la forza vitale. Si guardò attorno. Non vide niente. Camminò lungo la riva per qualche metro fino a che non lo trovò. Un sasso perfettamente piatto. Lo prese tra il pollice e indice, arcuò il braccio e a seguire la schiena, si fece arco e lo lanciò. Nonostante le onde contò sette rimbalzi sulla superficie.

Un gioco da bambini. Una spiegazione da grandi.

Lentamente tornò verso l’auto e a piedi scalzi guidò per cento chilometri.

The End

Abbiamo occhi diversi

sguardi diversi

i colori, i rilievi, le forme

rendono il nostro mondo diverso

inutile cercare un altro senso delle cose

 

Io chiaramente osservo il tutto

in una maniera che non t’appartiene

poiché lo scivolare tra le mani

di un amore come sabbia

incupisce e impedisce

il vivere gli eventi come dovremmo

o meglio, com’io penso che dovremmo

ma solo perché, che tu lo voglia o meno,

le mille forme dell’amore

sono una condanna alla scelta

 

e tu mi hai giudicato colpevole

Maglietta bianca

Quando l’ennesima ventata mi sgangherò l’ombrello, non rimase che mettermi il cuore in pace.

Iniziai a correre come un grullo, visto che comunque, in quella specie di improvvisa tempesta, non mi sarei evitato una inzuppata da record del mondo. Cadevano da nubi d’un grigio intenso enormi goccioloni d’acqua, con traiettorie oblique a causa del forte vento e che mi colpivano in ogni parte del corpo quasi fossi il bersaglio di un video game, il più facile da prendere.

Ad un certo punto, lo scheletro dell’ombrello, quel poco che ne era rimasto, mi entrò tra le gambe e mi fece fare un capitombolo roba da romanzi.

Imprecando come un comunista che ha perso il ballottaggio a Livorno, sia per il vento che per la strada viscida non riuscivo ad alzarmi. Probabilmente anche per un ginocchio spappolato.

Fu allora che mi sentii afferrare da una mano più propensa allo stritolamento che all’aiutare ad alzarmi come in effetti fece. In quelle dita, secche e dure come chiodi, c’era una forza straordinaria che si regalò inattesa ai miei bisogni. Era lui, il mitico “Maglietta Bianca”, il mistero della circoscrizione, il nonsense della borgata, il giallo di Via Krakatoa. Mi guardò senza dire una parola e mi sollevò con una facilità che mi fece decidere sul momento che era meglio farselo amico piuttosto del contrario. Sentii un dolore lancinante al ginocchio destro ma non dissi nulla temendo chissà quale reazione da Maglietta Bianca. Lui sorrise e “ti sei disfatto il ginocchio…” disse.

Rimasi impietrito.

Parlava.

“Non è niente” risposi stupidamente e cominciai a camminare zoppicando vistosamente. Caddi di nuovo. Lui mi rialzò, ma stavolta mi prese pure in braccio chiedendomi “dove abiti?”.

La pioggia rinforzò. Dalle sue folte sopracciglia l’acqua piovana sembrava aver deciso di creare un piccolo torrente che scendeva verso il collo di quell’uomo. Io alzai il braccio segaligno e, tremante, indicai casa mia. Venti metri più avanti. Lui in un attimo mi ci portò, presi le chiavi, aprii prima il portone esterno e, dopo per lui tre facilissime rampe di scale, aprii anche la porta del mio appartamento. Entrammo. Mi posò sul divano e fece per andarsene.

Non so perché, non me lo chiedete, ma lo fermai. “Aspetta, devo sdebitarmi…”.

“Non sei in debito… tu per me lo avresti fatto…”. “Sì, sì…” avrei voluto dirlo più convinto.

“…Ma ti prego, fa che ti offra almeno da bere!”

Gli occhi gli si illuminarono. A me, dopo aver finito assieme a lui sia il Chivas che il Ballantine’s, si illuminarono meno. Ma quanto beveva???

Lo guardavo. Indossava da sempre, fin dalla prima volta che lo vidi nel quartiere, solo quella maglietta bianca, larga e lunga, senza pantaloni o altro, estati o inverni che fossero. Era divenuto un po’ la macchietta della zona, senza che però nessuno si azzardasse a chiedere come mai si fosse ridotto a quel modo.

“Perché mi guardi così?”

Mi scossi alla sua domanda. Scioccamente mi ero messo a fissarlo senza rendermene conto. Ma l’aver bevuto assieme a lui mi rese anche aperto. Lo feci partecipe della mia curiosità e gli chiesi della maglietta bianca.

In quel momento fu lui a guardare me.

“Tu potresti vivere senza il tuo cuore?” mi domandò e si rispose da solo: “Questo è il mio cuore. Batte lungo gli argini del tempo, è di un tessuto che resiste alle intemperie e si fonde alla mia pelle. Porta il profumo dell’amore e per quanto la lavi, per quanto la porti, per quanto la maltratti, c’è sempre l’aroma fresco del sudore, frutto di una notte bagnata dalla luna e musicata dalle stelle.”

Io ero imbambolato, come un deficiente. Non riuscivo a dire niente e meno male, avrei detto una scemenza di sicuro.

“Toccala!” Mi chiese.

La pazzia nasce in luoghi a noi ancora sconosciuti, la mia temo che nacque lì perché toccai la maglia e vidi casa mia fiorire in colori pastello. Lasciai d’istinto la maglietta bianca e tutto tornò com’era.

Grigio com’era.

Maglietta bianca mi ripose dolcemente sul divano, mi salutò e se ne andò.

 

Ogni tanto passa sotto casa mia. Io lo guardo e lo saluto. Lui ride e prendendo con le mani il bordo della maglietta mi fa segno come a dire “vuoi toccarla?” e io “No davvero!!!”.

Perché non capisco una sega della vita.

Ecco perché!

Mondomigliore

Si faceva chiamare Mondomigliore.

A uno sguardo superficiale poteva sembrare una prostituta di Alto Bordo, ma non era così.

È vero, concedeva il proprio corpo senza amore e sempre in cambio di qualcosa, ma la definizione Alto Bordo era una nota troppo limitata per quelli che erano i suoi obiettivi.

Alta giusta, viso bellissimo, occhi ipnotizzanti, corpo perfetto, vestita sempre in tono, era di una bellezza irresistibile e ciò che cercava erano solo uomini potenti, i più  potenti di tutti.

Sapeva bene che il suo era un compito, come dire?, divino, essendo nata per quello. Non aveva nemmeno da sforzarsi molto nel cercare di avvicinare le sue prede. Bastava farsi vedere un attimo per creare nella persona il desiderio.

Mondomigliore, si presentava così e ogni uomo che se la trovava nella propria alcova sorrideva al suo nome, ma in fondo lo apprezzava.

È successo ai vari presidenti dei più potenti paesi al mondo: Stati Uniti, Russia, Cina. Anche ai più potenti uomini religiosi, anche a loro sì.

Non c’è stato maschio che avesse potere di decidere sia politicamente che economicamente che non fosse stato attratto da lei e avesse in tutti i modi cercato di avere un rapporto amoroso con Mondomigliore.

Mondomigliore amava il suo lavoro, ma lei preferiva chiamarlo compito.

Ogni volta che giaceva con il russo o il leader iraniano o qualunque altro, sussurrava le parole d’amore più intense che potessero essere mai dette. Trasmetteva il senso del bene e del buono in maniera così profonda che ognuno dei suoi compagni, uscito dalla camera da letto, se ne portava dietro il significato anche nella vita politica e degli affari in attesa di tornare a godersi di lei.

Il mondo, senza un apparente perché, prese a cambiare grazie all’impegno umanitario, tanto forte quanto inaspettato, di capi di stato, religiosi e ricchi che avevano operato fino ad allora in maniera molto diversa. Ogni atto, ogni decisione era indirizzata verso la pace e l’amore tra i popoli.

 

Dall’alto dei cieli c’era chi guardava con curiosità Mondomigliore. Dopo l’esperienza del Figlio e visto i risultati, aveva pensato a cosa fare prima che l’umanità si autodistruggesse. Si vergognò un attimo pensando che aveva un po’ copiato il buon Satana, ma Mondomigliore faceva per esseri umani maschili miracoli assai più potenti di quelli mostrati qualche migliaio di anni prima. Bastava concederle di apparire agli uomini nella forma più desiderabile per ognuno di essi e gli stessi avrebbero perso la testa per lei facendo tutto quello che lei chiedeva. Che in definitiva era solo Amore.

Adesso Mondomigliore, mentre lui al telefono ordina ai suoi collaboratori di disarmare i missili, sta giocando col pisellino del Nord Coreano, a cui lei appare come una bellissima mora venti centimetri più alta di lui, occhi verdi a mandorla, seno prosperoso e sodo, completamente nuda e desiderabile. Lei sorride e lui si sente un vero uomo.

Buca 15

 

Stavo per infilare la palla nella buca numero 14 quando un fulmine cadde a sedici chilometri da me su un abete incendiandolo. Io ero al Minigolf di Cerbottara, l’abete invece era sul fianco sinistro del Massiccio di Sendera alla quota di 1.188 metri e 30 centimetri.

La palla centrò la buca 14. L’abete in dodici minuti si carbonizzò.

Raccolsi la palla nella buca e mi avviai alla 15. Aveva un percorso arzigogolato con tre salite e relative discese, una specie di laghetto e una strettoia che portava al green di cemento dove si trovava la buca 15.

 

L’abete non era solo. L’Abetaia del Massiccio era una delle cose più belle che Madre Natura aveva regalato agli Uomini seppur non lo meritassero. Aveva la forma di un cuore verde di 338 ettari e chi usciva dal mare  vedeva quell’opera divina svettare a una ventina di chilometri riservando allo sguardo meravigliato il simbolo dell’amore e un fremito di benessere. In quella sera d’estate, i più attenti avrebbero visto il rossore di un fuoco lontano ferire quel cuore nel punto più a centrale.

 

Mia figlia rideva. Era  già alla buca 17, a meno 1 dalla vittoria. Mi guardava mentre rincoglionito ero al terzo tentativo di superare quelle cazzo di montagnole della buca 15 senza nemmeno avvicinarmi al riuscire, lei che in un tiro ce l’aveva fatta. Stavo per farle comprende che il ruolo padre/figlia non impedisce di dare mazzate educative nella capoccia, quando mi suonò il telefono. “Uai-em-si-eiiiii, lalalalala, uai-em-si-eiiiii…” gracchiava la suoneria con mia figlia che mi guardava di traverso mimando il rintronato che sono. Due minuti dopo, l’ho lasciata col suo fidanzatino a sega per andare rapido in caserma. Sei minuti per arrivare, quattro per vestirmi, ventiquattro per giungere all’incendio.

La luna si era rifatta viva e, liberata dalle nubi di quel temporale estivo,  illuminava il cuore verde che bruciava. Con solo quattro autobotti, però, tutto risultò inutile. Del cuore restò solo la macchia scura di cenere a marchiare la superficie del Massiccio.

Sono passati sette giorni e sto tentando nuovamente la buca 15. Alzo la testa e vedo la mia più grande e dolorosa sconfitta da pompiere. Tiro e manco la pallina. Dal mare si ha l’impressione che dell’amore non sia rimasto che un ricordo e sono ancora circondato dalle lacrime degli adolescenti innamorati sconvolti dall’incendio. Allora mi concentro, tento ancora il tiro e stavolta la pallina acquista una traiettoria anomala. Anomala per me, s’intende. Infatti finisce in buca con un solo colpo. Mia figlia sgrana gli occhi.

Io la guardo e le sorrido: “Mia cara, la vita è fatta così: quando tutto sembra più brutto, comprendi che devi solo continuare a crederci.”