Anche oggi il roast-beef è buonissimo.
Quando vengo a mangiare dalla mamma la domenica a pranzo, non importa chiedere il menu: le fettine di carne al sangue con contorno di patate arrosto, preceduti da deliziosi tortellini in un brodo fatti come solo una donna emiliana sa fare.
Ma avviene una volta la settimana, la cosa non mi annoia e mai lo farà.
Mi pulisco la bocca con un tovagliolo di carta e sorrido alla piccola Elisa.
“Sei stata brava, hai mangiato tutto”
“Grazie, babbo! Mi prendi in collo?”
Non so dire di no, anche se è solo il prezzo che mia figlia deve pagare perché io ceda alla sua richiesta di andare ai giardini pubblici a giocare.
“Non subito, però” le dico mentre me l’abbraccio tutta con malcelata soddisfazione.
Arriva il caffé e Elisa scende dalle mie ginocchia “Vai in soggiorno a disegnare, fra un po’ andiamo” le dico e lei con un bacio ruffiano mi obbedisce.
Il caffé della mamma, una vera schifezza, quasi peggio del mio, forse una delle poche cose certe per cui le assomiglio. Ma lo bevo, come sempre. Poi mi alzo dalla tavola, mi stiro con un movimento accettabile solo se fatto tra persone intime, che spesso mi rimproverano ugualmente.
Ma chi se ne importa, se non lo faccio con loro, con chi?
Vado in terrazzo, la giornata è splendida, primaverile direi se non fosse che è fine ottobre, ma ormai queste giornate strane per noi e soprattutto per gli anziani di lunga memoria, sembrano non meravigliare più nessuno. Io credo che più che sorprendere dovrebbero preoccupare. Mi affaccio a guardare i palazzi davanti, tutti uguali a quello dei miei genitori. Di base quadrata, gli appartamenti si sviluppano sui lati lasciando nel mezzo un vuoto di cinque metri di lato, uno spazio aperto dal quale si vede il cielo. Con gradini larghi un metro e venti e lunghi uno e mezzo, strane scale portano all’ingresso degli appartamenti situato negli angoli della costruzione. Hanno quarant’anni, questi palazzi di quattro piani, e col senno di ora mi viene da pensare che, per quanto popolare, fosse un’architettura con un minimo di personalità.
C’è silenzio.
Sono tutti a mangiare e questa calma non posso fare a meno di sentirla strana.
Il Villaggio non è mai stato un luogo magico, non c’è mai stata fantasia che lo abbia reso tale.
Il Villaggio è sempre stato rumore, sofferenza, indigenza, coraggio.
Una bruttura per l’uomo di passaggio, lo scheletro portante di una vita intera per i suoi condomini.
“Mamma, hai qualcosa di forte?”
Brontola, non vorrebbe che io bevessi ma sa che io lo faccio davvero raramente. Il babbo la chiama e le dice qualcosa. Dopo un po’ ecco la mamma con un bicchierino e due dita di un liquido strano.
“Cos’è?”
“Boh, te lo manda tuo padre.” Quando dice “padre” è contrariata anche con lui.
“Grazie”
“Dice che è un Cynar del 1967”
“Come, avete aperto una bottiglia della collezione?”
“Ma chi ti credi d’essere? L’aveva già aperta, il tu’ babbo ha detto che ora le apre tutte e le beve prima di morire”
“Beh, s’è allungato la vita, sai quanto tempo ci vuole per finirle…”
Guardo il bicchiere e guardo di nuovo fuori. Del 1967. L’avrà fatto apposta? E’ l’anno in cui traslocammo qui.
…
Alzai gli occhi.
Quel palazzo mi sembrò così enorme da non riuscire a respirare. Oggi sarebbe diverso ma quei quattro piani, allora, mi parvero il castello dell’orco cattivo ed io non ci volevo entrare.
Quando traslocammo dovettero portarmi via a forza dal vecchio terratetto che si trovava in centro storico, mi attaccai a forza alla ringhiera di ferro arrugginito delle scale che da quando ero nato portavano a quelle due stanze e mezzo in cui ero cresciuto. Piansi, come una vite tagliata, come tagliata sentii la mia vita, pur essendo un piccolo di otto anni. Mia madre cercò di tranquillizzarmi, mio padre usò mezzi diversi: mi prese per un braccio e a forza di strattoni mi fece salire quelle stranissime scale che portavano al nostro appartamento.
La chiave era magica, lo era certamente, apri un mondo a me sconosciuto: una cucina grande, un soggiorno, una zona notte, due camere da letto e un bellissimo bagno. E chi l’aveva mai vista un casa del genere, intendo nostra.
“Cosa sono questi cosi bianchi, mamma?” chiesi.
Sorrise, il sorriso della mia fata buona “ termosifoni, Sandro, termosifoni”.
“Icchè sono?”
“Servono per riscaldare le stanze, anche se non so esattamente come funzionino”.
Io conoscevo lo scaldino ma i termosif… come si chiamano, non credevo esistessero.
Profumava di nuovo, di fresco, un odore intenso, le mura erano di un bianco immacolato e mia madre già sapeva per quanto lo sarebbero state.
Otto, eravamo otto, io, tre fratelli, due nonni e i miei genitori. Troppi anche per quella casa. Smisi di piangere quando lo vidi fare alla mamma. Mi domandavo perché piangesse, se non piaceva neppure a lei, quella casa, perché ci aveva portato lì?
Allora mi arrabbiai. Ma Giorgio, mio fratello più grande, non solo di età, mi disse “Te sei proprio scemo, piange di gioia. Piange perché non ci crede ancora d’avere una casa tutta nostra.”
Ero proprio scemo perché ancora non capivo. Per me le lacrime nascevano solo dal dolore, per un balocco rotto, per un graffio a uno stinco. Ma di gioia io ridevo. La cosa continuava a non convincermi.
Mi venne da fare pipì. “Vai in bagno!” disse il babbo come fosse la cosa più normale del mondo. Ma funzionava come tutti gli altri? Entrai timidamente. Il water era nuovissimo ed ebbi un po’ di timore. Mi sbottonai la serratura dei pantaloni, tirai fuori il pisellino e cominciai a liberarmi.
Mi guardai attorno. C’era una vasca fissa e grande e un lavandino. Chissà la tinozza in ferro per fare il bagno dove si sarebbe messa. Boh. E quell’affare attaccato al muro cos’era? Nel mentre osservavo m’è arrivato uno scappellotto da dietro che ci manca poco mi ribalta.
“Guarda dove la fai, sciocco!”
Non avevo centrato il water e molta pipì era per terra.
“Vai, s’è rinnovato l’ambiente!” disse il babbo
I processi educativi devono seguire una strada logica. Mi fu messo in mano un cencio e uno spazzolone: “Ognuno riparerà i propri danni”
Da allora l’ho fatta seduto.
…
“Ehilà, guarda chi si vede!” L’anziano ometto, piccolo, ma robusto, alza lentamente il viso verso la terrazza.
Mi riconosce e sorride.
“Santro, cume va?”
Trent’anni che vive qua e non ha ancora abbandonato quell’inflessione dialettale che mi faceva schiantare dalle risate.
“Bene, Carminuzzo beddo” Mi viene ancora da ridere, poi rido un po’ meno quando la mamma arriva e mi da un calcio negli stinchi sussurrando “Smettila!”.
Ma il vecchio non mi sembra arrabbiato, anzi.
“Me fa piagere davetti visto”
“Anche a me”
…
Il Villaggio era un labirinto di stradelline che collegavano una serie di grandi corti da sembrare infinite. Mi ci sono perso due volte di fila e dalla paura non riuscivo neppure a piangere.
Fino ad allora, per strada, mi aveva sempre tenuto per mano mia madre. Ma nel palazzo avevo conosciuto Roberto, un quasi mio coetaneo di un anno più piccolo, e con lui avevo azzardato l’avventura. Scoprii d’essere impreparato e molto ingenuo. Ovvero non sapevo d’esserlo ma mi sentivo a disagio. Ancor di più quando mi resi conto che c’erano altri bambini molto più avvezzi di me alla vita di strada. Carmine arrivava dalla Sicilia. Lui sembrava tranquillo. Lui. I suoi otto figli un po’ meno. Tre sorelle e cinque maschi, uno dietro l’altro nel giro di nove anni. Ricordo ancora i nomi: Anna, Lucia, Maria, Gaetano, Salvo, Franco, Lillo, Giuseppe. Erano tremendi e usavano le mani solo per tirare schiaffi o sassate. Abituati a convivere per le strade, avevano deciso di essere i dominanti del luogo. Non giravano mai da soli, ma tutti insieme e le loro giovani ma già decise facce incutevano timore agli altri piccoli come me. Gli incrociai un paio di volte, mi fecero due urli e me la feci sotto scomparendo alla velocità della luce. E mi persi. Due volte, appunto. Fu l’inizio di una convivenza difficile per il mio carattere bonario e semplice.
Mi è rimasto impresso nella memoria il volto di Giuseppe, il più grande. Lunghi capelli neri tutti arruffati, vistose ciglia nere e la pelle scura da farmi sembrare un latticino. E che mani! Il doppio delle mie, aveva tredici anni, e quando me le stringeva sentivo un dolore mostruoso, scricchiolavano le mie ossa fino a che non mi mettevo in ginocchio a chiedere pietà.
Il loro potere assoluto durò molto poco. Il Villaggio, con una progressione costante, si vestì di gente che arrivavano da ogni dove, dall’alluvione del Po a Rovigo, da quella fiorentina dell’Arno, da varie zone depresse del sud. Una variegata accozzaglia di persone di culture così diverse da domandarsi come avrebbero potuto convivere assieme senza che si creassero problematiche. Infatti nessuno se lo chiese. Intanto diamogli la casa, poi vedremo.
Il piccolo Sandro, cioè io, mi trovai a parlare con ragazzi di pelle scurissima del cui dialetto non capivo assolutamente nulla ma indifeso di fronte alla loro esperienza di vita. Mi prendevano in giro, si divertivano contando sulla mia ingenuità. Me la davano a bere continuamente. Se sbagliando si impara, devo ammettere che quei ragazzi sono stati dei gran maestri, ma anche dei violenti, una violenza che proveniva dalla cultura della sopravvivenza.
Legai solo con Roberto, ragazzo intelligente,bravo, disponibile e gentile che per fortunata coincidenza viveva nel mio stesso palazzo.
Nel Villaggio col tempo cominciarono a formarsi le bande. Gruppi di ragazzi che lievitavano nel numero grazie ai continui arrivi.
Avevo due gambine secche e d’estate si vedevano fuori dai pantaloni corti. Certo non potevo far paura ad alcuno di loro. Io e Roberto decidemmo fosse meglio non legarsi troppo a qualcuno, a nessuno di questi gruppi, più perché non ne avevamo voglia che per altre ragioni. Ma poi si scoprì essere forse stata la soluzione (per altri motivi) più saggia.
Quando uno di questi gruppi ci trovava, ci riteneva innocui, ci irridevano un po’ e poi se ne andavano. A picchiarsi con gli altri.
…
“Sandro, vieni a vedere!”
La mamma sussurra le parole, non so per quale motivo.
Ah, eccolo il motivo: Elisa si è addormentata in collo al nonno. Che piange, di gioia.
Eh, il babbo da quando si è ammalato è diventato estremamente sensibile a certe manifestazioni d’affetto. Avere Elisa distesa su di lui, tutta accoccolata tra le sue braccia, lo fa sentire così importante. Invece a me preoccupa perché la bambina lo è sempre meno, bambina, e trenta chili sono troppi addosso al babbo.
Con delicatezza la prendo sotto le braccia e la porto nel letto.
Meno male, perché non ne avevo proprio voglia di andare a quei giardini. Lei si diverte, ma io mi faccio due zebedei gonfi così.
Le levo i pantaloni e la maglietta e la metto sotto una coperta leggera.
Osservo il suo viso, di una bellezza indescrivibile.
Almeno per me.
Il problema è che in questi momenti non posso non pensare al maschio che la profanerà.
È una sensazione che mi disturba alquanto.
Meglio dirigere l’attenzione ad altro e torno in terrazza. Cambio idea.
“Mamma, vado qui sotto, sul muretto.”
Il muretto. La terrazza della mamma è a un piano ammezzato, quasi al pianoterra e proprio lì sotto c’è una striscia ricurva di cemento armato alta circa 40 centimetri, il mitico “muretto”
Nel sedermi c’è un attimo di emozione che mi sfiora i sensi.
Forse è il freddo del cemento, ma non credo. Il Villaggio era percorso da due sole vie, Via delle Camelie e Via dei Ciclamini, che con i fiori avevano poco a vedere.
A dire il vero nelle grandi corti quadrate che si formavano tra i palazzi v’erano degli spazi, anch’essi quadrati, con del verde dove poter piantare arbusti o alberi da fiore. Ma la gente era troppo occupata a trovare il modo di sbarcare il lunario per curare l’aspetto floreale di quell’ammasso di cemento.
I palazzi avevano un numero civico e noi, piccoli frequentatori delle corti, avevamo chiamato quest’ultime col numero del palazzo che conoscevamo meglio.
“Ragazzi, troviamoci alla corte del 25, fra dieci minuti…”
“Nella corte del 6 si stanno dando!”
Continuava ad arrivare gente nuova ed io crescevo con loro.
Il muretto era un luogo sacro per me e Roberto. Ogni giorno che Dio metteva in terra, dopo la scuola ci ritrovavamo a sedere lì cercando di trovare qualcosa per divertirsi.
Figurine Panini, che compagne straordinarie! Eravamo poveri, eppure riuscivamo ad acquistare tonnellate di quelle immagini cartacee. Per finire un album ci voleva una vita, ma noi mica le comperavano per completarlo. Noi ci sfidavamo giornalmente a giochi d’azzardo, sì d’azzardo per noi, perché riuscivamo in poco tempo a dilapidare fortune in figurine.
La muriella , piastra levigata di pietra o in granito, era lo sport locale. Mettevamo decine di figurine sotto un sasso e da 10/15 metri dovevamo colpirli. Vincevamo quelle che non rimanevano sotto il sasso. Uno spettacolo vedere decine di foto svolazzare verso l’alto colpite con violenza dalle nostre murielle. Nostre… loro, perché io perdevo sempre, ero il rifornitore ufficiale di figurine Panini del Villaggio. Ma mi divertivo tanto e mi andava bene così.
…
Alzo lo sguardo e vedo la piccola finestra ornata di bianco che da sul bagno dell’appartamento di Violetta. Adesso la malinconia diventa corposa. E perché la cosa sia ancor più vistosa, il cielo sopra il palazzo si sta coprendo di nuvole grigie. Non vedo sua madre da molto tempo ma ogni volta che capita il mio cuore accompagna i suoi passi piegati dal dolore.
“Mamma, secondo me è meglio che tu tolga i panni stesi perché questo tempo stupido mi sembra vada all’acqua.”
“O se c’è un sole che porta via?”
“Vieni te a sincerarti, malfidata non sei altra!”
La mamma s’affaccia e non può fare a meno di darmi ragione e imprecare.
…
Violetta arrivò nel palazzo alcuni anni dopo. La sua famiglia prese il posto di un’altra che riteneva le nostre case “troppo” popolari. Tutti eravamo ansiosi di conoscere i nuovi coinquilini e ogni mattina ci svegliavamo affacciandoci alla finestra nella speranza di vedere qualche auto o camion carico di suppellettili o scatoloni, tipici di un trasloco.
Finalmente arrivarono.
Siciliani, erano siciliani, e visto le discussioni che già si erano create all’interno del nostro palazzo tra polentoni, noi, e terroni, gli altri, non fu che la cosa ci entusiasmò.
Un uomo robusto, una piccola donna e tre figli. Per l’esattezza un maschio e due femmine. Una era Violetta. Il suo nome ricordava molto ciò che lei sembrava essere, un fiore di bosco il cui colore spiccava nello scuro dei suoi occhi.
Sì, in effetti mi colpì molto il suo viso.
La loro fu un’integrazione difficile, il loro comportamento era sempre sulla difensiva, pochissima confidenza, poca cultura dovuta sicuramente ad una esistenza fino ad allora troppo ricca di difficoltà.
Oggi, col senno di poi, avrei agito diversamente da come si comportarono gli adulti allora. Avrei cercato di capire la loro provenienza e la loro cultura, avrei usato maggior delicatezza nel propormi, nel cercare un colloquio diretto ad una migliore convivenza senza essere invadente.
Ma allora non fu così. Non si ammetteva il non saper leggere o scrivere, gli obblighi erano per tutti e da rispettare e chi se ne frega se non li comprendi.
Ma il padre di Violetta si chiuse insieme alla famiglia in uno spazio solo suo e ciò che si poteva concordare amichevolmente fu reso difficile, anzi impossibile.
Non è stata la sola esperienza di contrasto all’interno del palazzo. Ogni appartamento era numerato e con i numeri volavano nello spazio vuoto della tromba delle scale parole e gesti d’odio.
“Quella del sette è una rimbambita…”
Quella del cinque non ha pulito le scale…”
“Quella del tredici deve smettere di rompere i coglioni, lei e i suoi bambini…”
Si fendeva l’aria da come era spessa.
Io non riuscivo a capire quei comportamenti, mi sembravano sciocchi, mi facevano stare male e forse è da allora che evito discussioni superficiali.
Ma c’era una cosa che mi distraeva da quello squallore: la bellezza meridionale di Violetta.
Capelli e occhi scurissimi, naso leggermente aquilino, aveva la dolcezza di una timida adolescente.
Ero poco più grande di lei e ebbi subito occhi solo per lei. Ma mica era facile avvicinarla con genitori come i suoi, nell’immaginario che si creò mi vedevo già il fucile a canne mozze che a sua volta rendevano mozza la mia testa.
Fu lei ad avvicinarmi, a chiedere come mi chiamavo. Era la prima volta che sentivo battere il cuore forte come allora e credo di averlo balbettato, il mio nome. Cominciammo ad incontrarci, ci rivelammo i nostri sentimenti. Ragazzini, eravamo ragazzini. Lo fui anche quando una sera, salendo le scale per andare a casa, all’improvviso sua madre aprì la porta e fermandomi mi minacciò se avessi continuato a vedere sua figlia. Mi terrorizzò e feci quello che mi aveva ordinato.
I primi ed unici rimorsi e rimpianti della mia vita.
Evitai di incontrarla e lei che non capì. Di tutte ho ancora impressa l’immagine di Violetta sull’autobus per andare a scuola che mi guardava senza fare parola e io pure.
Il giorno prima che ci fosse la fuga di gas nel bagno.
E’ strano, ma credo di aver imparato ad amare in quel giorno di morte.
…
Un tuono fortissimo mi scuote.
“ Tu ti devi fidare del tu’ figliolo!” dico all’indirizzo della mamma.
“Bella soddisfazione! Lo vuoi un po’ di Vin Santo con due biscottini di Prato?”
“Grazie, li prendo proprio volentieri.”
Vado nel salotto buono della mamma. Ha poltrone estremamente comode, che dormite ci abbiamo fatto io e i miei fratelli. La finestra che dà sulla nostra corte è aperta.
Le vecchie panchine di legno sono tutte scolorite, scheggiate, in parte divelte.
…
Ci fu un tempo, raccontato da Roberto, che accompagnò il passaggio ad adulto dei molti ragazzi del Villaggio. Mio padre trovò lavoro a una decina di chilometri con casa annessa e persi contatti con quel luogo, pur rimanendo lì come residenza.
Fortunato, mi disse Roberto, sei stato fortunato. Dai quindici ai vent’anni, gruppi di ragazzi che avevano vissuto le strade molto presto organizzarono il loro passaggio alla maturità nel più totale abbandono. Quando accade, l’unico linguaggio è la violenza e la sopraffazione del debole. Teste calde brandivano lo scettro del comando e quando lo spazio divenne troppo stretto, si spostarono verso l’esterno.
Roberto, senza me e pena l’esclusione dal gruppo e quindi solitudine, si aggregò ma cercò, con molta intelligenza, di evitare situazioni pericolose. Ha sempre saputo gestire al meglio la sua vita, fin da piccolo e io l’ammiravo.
Le risse erano all’ordine del giorno, i furti.
Poi però arrivò la droga.
Il Villaggio non era mai stato un luogo favorevole per crescere. Famiglie povere erano state aiutate a avere una casa, ma non doveva finire lì.
Ho fatto la seconda elementare in un garage, la terza in un appartamento senza muri interni, la quarta in un altro garage. Una specie di ghetto dove i bambini hanno subito perso la loro innocenza senza possibilità di assaporare speranze. Non bastava una casa, non bastava. Quando si cresce abbandonati a noi stessi perché i nostri genitori o lavorano o si muore di fame, la visione del mondo è un po’ diversa dal bello.
La droga arrivò come una tempesta e uccise. Stavolta non piansi ma rimasi scosso. A quell’età già riuscivo a riflettere e convenni con Roberto che ero stato fortunato.
…
“Sai mamma, stasera vado a mangiare la pizza con Roberto e i suoi bambini.”
“Bene, mi fa piacere, sono così belli i suoi bambini. E bravi.”
“Come il loro padre.”
“ E’ vero. E togli i piedi dal tavolino, maleducato.”
“Scusa…”
E’ da quando avevo due giorni di vita che mi fa due scatole così per educarmi.
E’ proprio vero, sono stato fortunato.