La rete

Carla siede davanti alla porta di una casa antica, la sua. Il giorno si è appena colorato di luce, ma i suoi occhi sono svegli già da molto prima che la notte desse il suo saluto. Il corpo di Carla, plasmato dal tempo, ha preso forme  che si incastrano alla perfezione nell’aria spessa della solitudine: profuma di lavanda ed è liscia in maniera innaturale per la sua età.

Le sue mani che conoscono il linguaggio della poesia, non sanno scrivere. Carla non ha mai imparato e non ne ha mai sentito il bisogno poiché ogni verso che nasceva dalle sue dita lo lasciava nei vuoti della rete. Tutti coloro che la conoscono si chiedono il segreto della rete di Carla, perché non esiste attimo della vita di quella donna che non sia legata a quella rete. Le mani di Carla intrecciano con sapienza i fili di nylon, orlano quadrati perfetti dai lati corti, si muovono con calma e in ogni vuoto lasciano i suoi pensieri per lui. Nessuno lo sa questo e nessuno lo saprà mai. Resterà per tutti Carla la pazza e questo, invece, è Carla che non lo sa. La pazzia è sostantivo che appartiene a chi lo usa per gli altri. Carla non sa di essere pazza e non le passa nemmeno per la testa di esserlo. Sta solo costruendo una rete, anzi la rete. Quella rete che nessun vento saprà mai gonfiare  e che nessun uomo saprà mai lanciare.

Carla sente un rumore e alza la testa. Smette di lavorare il filo e stringe gli occhi per controllare se fosse tornato. Ormai il suo cuore non si bagna più di delusione ogni volta che si rende conto che è solo un uccello e qualche altro animale ad aver prodotto quel rumore. Anche stavolta è così e Carla torna a lavorare la rete.

Solo la piccola Irene, libera da pregiudizi, conosce il segreto della rete di Carla.

Verrà il giorno, le disse Carla, che tornerà e allora lancerò la rete,  perché non voglio farmelo scappare di nuovo.

Ma perché tutti quei versi, tutte quelle parole lasciate nei vuoti della rete?, domandò la piccola Irene.

Per avvolgerlo dell’amore che avrei potuto dargli in tutto questo tempo, Rispose Carla.

Carla, davanti alla porta di una casa antica, come ogni giorno all’ora di pranzo vede arrivare la piccola Irene con del cibo che arriva dalla mensa dei poveri.

Carla la ringrazia, sorridendo.

Numeri

Guardo l’uomo che tiene per mano la bambina dai lunghi capelli biondi. C’è tenerezza in quella presa sicura, piena di quella protezione che ogni padre riserva ai propri figli.

 

Non posso fare a meno di ripensare al bandone che alzavo ogni mattina immergendomi, quando aveva deciso di farsi vedere, nel sole che appariva a est dietro le colline che hanno disegnato l’orizzonte della mia infanzia. Non passavano dieci minuti che iniziavano già a arrivare. Erano uno spettacolo da vedersi, tutti quei bambini col grembiule nero o rosa e ancora il fiocco al bavero d’ordinanza. Entravano, chi tra il pianto a dirotto e chi allegro come avesse ricevuto il balocco più bello, insieme ai genitori che mi chiedevano chi un pezzo di schiacciata, chi un panino con la mortadella.

 

Torno a guardare l’uomo. Mi avvicino, mi affianco e mostrandogli il numero gli sussurro la cifra nell’orecchio per non farmi sentire dagli altri. Mi ha squadrato in lungo e in largo, ma con fare vissuto non proferisce parola e dalla tasca tira fuori due euro. Al reparto gastronomia viene servito il numero 21, l’uomo aveva il 63 e io gli ho fornito il 24 con relativa minima attesa.

 

Ripenso ancora al passato. Avere la bottega a fianco delle scuole elementari mi rendeva l’uomo più sereno della terra. Adesso lo descriverei come il rito della vita, un contatto umano fatto d’innocenza e gioia di vita. Ogni coppia, genitori e figli, ricevuta la merenda per la ricreazione usciva salutando, chi con una smorfia chi con una manina dondolante. Ero felice, adoravo quei momenti, mi regalavano una atmosfera pulita, priva di impurità disegnate dal dio Denaro. Ero felice, ma poi sono arrivati i grandi supermercati e d’improvviso tutto ciò che vedevo bello, ha iniziato a morire lento ma inesorabilmente.

 

L’ora di pranzo, l’ora di cena e, in certe strutture, anche certe mattine e pomeriggi erano il mio orario lavorativo, senza contributi pensionistici e pagamento cash. Prendere i numeri di prenotazione per poi rivenderli, nei momenti di punta mi faceva guadagnare qualche soldo. La gente stava zitta e pagava volentieri, da 2 a 5 euro a seconda di quanto fosse lunga la fila, pur di saltarla a piè pari.

 

Quando chiusi la bottega per perdita di clienti, il mondo sembrò crollarmi addosso e entrai in crisi. Passò molto tempo prima che dessi segnali di ripresa. Odiavo quei centri commerciali che avevano fagocitato le necessità di ogni persona e anche se ero bravissimo da poter essere assunto in quei luoghi, mi rifiutai a prescindere di farlo. Avrei trovato altro da fare. Solo entrando in quei luoghi ameni e camminandoci dentro, mi resi conto che una fonte di reddito potevo trovarla proprio lì.

 

Mi sono allontanato da quell’uomo e mi guardo attorno. Sono molti a aspettare. Poi vedo una signora che agita nervosamente dita e palpebre. Mi metto di fianco a lei e sbircio il numero che ha in mano. Il 71. Le sussurro nell’orecchio che posso cederle il mio numero, il 27, per tre euro. Servono il numero 24. Le si accendono gli occhi in uno sguardo così di gratitudine che comprendo di aver chiesto poco. Ma poi alla fine, non avendo entrambi spiccioli, mi trovo in mano 5 euro. Ho altri cinque numeri che so di vendere. Non certo a quel grassone tatuato che mi guarda strano. Lui farà la sua giusta fila, che se dimagrisce gli fa solo bene. Poi uscirò dalla Coop e vado alla Esselunga, mentre stasera andrò alla grande Conad. È bene diversificare.

 

Ho pregato di poter riprovare la gioia dei sorrisi bambini. Da l’alto sentivo che prima o poi sarebbe successo. Le cose non sono cambiate, ad ora. Ma vedo le facce dentro questi involucri di cemento e so che non può durare e io aspetto. Paziente.

Armadillo

Quando l’armadillo decise di suicidarsi era una giornata uggiosa.

Sai quando piove e non hai l’ombrello? Ecco, pari pari… e si che l’armadillo se l’era comprato marca Armani, l’ombrello, ma alla prima ventata s’era sganasciato come fosse stato burro.

Made in China, c’era scritto, ma sa una sega un armadillo cosa vuol dire.

Ora, nascere armadillo è già di suo un segno del destino, ma  pensare di ripararsi da un temporale con un oggetto di quel genere ti fa comprendere che devi fare una analisi approfondita della tua esistenza.

Nato da un armadillo maschio e uno femmina, senza capire come possa avvenire una copula del genere, era cresciuto duro come… uno come lui.

Era veramente brutto.

Una cosa veramente da far senso.

Si dice che fossero solo gli uomini ad avere gli specchi.

Ovviamente non è così.

Ce l’avevano anche le piattole, i ranocchi, gli scorpioni, i lombrichi e anche gli armadilli.

Ma ogni volta che si guardavano dicevano se trovo chi  m’ha fatto così lo costringo a masticarmi!!!

Questi obbrobri della natura distrussero ogni cosa che rifletteva una loro zampa pelosa, una strisciata bavosa, una corazza scoordinata.

Ma ovviamente non poterono far così con tutto.

Gli uomini fabbricavano tonnellate di specchi.

Chissà cosa cazzo avevano da guardarsi.

Fatto sta che ovunque questi prodotti a base di silice (icchè sarà?… boh!) erano sparsi in ogni angolo della crosta terrestre, nelle profondità del mare e, come ha detto un tizio che si chiama Jules Verne, al centro della terra.

Cerambicidi che cominciavano a vomitare nel vedersi urlando “No, no, noooooo, non sono io!!!!”,

tricotteri con la personalità sdoppiata, dopo lo specchiarsi pensando di essere Marilyn Monroe,  blatte che scopertesi nere cercarono Michael Jackson per sapere come caspita dovevano fare per prendere quel suo colorino pallido ( ovviamente senza successo, se non altro si misero a ballare Killer…).

E l’armadillo?

Beh, quando si vide disse: “Mamma mia come fai schifo! Chi sei?”.

Visto che quello allo specchio non gli rispondeva lo mandò a quel paese e continuò la ricerca di quel testa di cazzo che gli aveva dato un nome del genere, che lo prendevano tutti per il culo: dalle pecore ai lama, dai gorilla ai cammelli, dai canguri a quelli della Lega.

Ma non riuscì a trovarlo.

“Armadillo, che nome a imbecillo!!!” gli dicevano tutti.

Non resse.

Si infilò nel meccanismo di lancio.

“Pull!!!” si sentì urlare.

L’uomo, campione del mondo di tiro al piattello, mancò clamorosamente il bersaglio.

L’armadillo batté una romba terrificante contro un platano alla fine del campo di tiro.

Ma la sua armatura era dura come il muro e non si fece niente.

Caro armadillo, mi spiace, sei brutto e così devi vivere.

Invece di romperti i coglioni, vedi di divertirti.

Il Villaggio

Anche oggi il roast-beef è buonissimo.

Quando vengo a mangiare dalla mamma la domenica a pranzo, non importa chiedere il menu: le fettine di carne al sangue con contorno di patate arrosto, preceduti da deliziosi tortellini in un brodo fatti come solo una donna emiliana sa fare.

Ma avviene una volta la settimana, la cosa non mi annoia e mai lo farà.

Mi pulisco la bocca con un tovagliolo di carta e sorrido alla piccola Elisa.

“Sei stata brava, hai mangiato tutto”

“Grazie, babbo! Mi prendi in collo?”

Non so dire di no, anche se è solo il prezzo che mia figlia deve pagare perché io ceda alla sua richiesta di andare ai giardini pubblici a giocare.

“Non subito, però” le dico mentre me l’abbraccio tutta con malcelata soddisfazione.

Arriva il caffé e Elisa scende dalle mie ginocchia “Vai in soggiorno a disegnare, fra un po’ andiamo” le dico e lei con un bacio ruffiano mi obbedisce.

Il caffé della mamma, una vera schifezza, quasi peggio del mio, forse una delle poche cose certe per cui le assomiglio. Ma lo bevo, come sempre. Poi mi alzo dalla tavola, mi stiro con un movimento accettabile solo se fatto tra persone intime, che spesso mi rimproverano ugualmente.

Ma chi se ne importa, se non lo faccio con loro, con chi?

Vado in terrazzo, la giornata è splendida, primaverile direi se non fosse che è fine ottobre, ma ormai queste giornate strane per noi e soprattutto per gli anziani di lunga memoria, sembrano non meravigliare più nessuno. Io credo che più che sorprendere dovrebbero preoccupare. Mi affaccio a guardare i palazzi davanti, tutti uguali a quello dei miei genitori. Di base quadrata, gli appartamenti si sviluppano sui lati lasciando nel mezzo un vuoto di cinque metri di lato, uno spazio aperto dal quale si vede il cielo. Con gradini larghi un metro e venti e lunghi uno e mezzo, strane scale portano all’ingresso degli appartamenti situato negli angoli della costruzione. Hanno quarant’anni, questi palazzi di quattro piani, e col senno di ora mi viene da pensare che, per quanto popolare, fosse un’architettura con un minimo di personalità.

C’è silenzio.

Sono tutti a mangiare e questa calma non posso fare a meno di sentirla strana.

Il Villaggio non è mai stato un luogo magico, non c’è mai stata fantasia che lo abbia reso tale.

Il Villaggio è sempre stato rumore, sofferenza, indigenza, coraggio.

Una bruttura per l’uomo di passaggio, lo scheletro portante di una vita intera per i suoi condomini.

“Mamma, hai qualcosa di forte?”

Brontola, non vorrebbe che io bevessi ma sa che io lo faccio davvero raramente. Il babbo la chiama e le dice qualcosa. Dopo un po’ ecco la mamma con un bicchierino e due dita di un liquido strano.

“Cos’è?”

“Boh, te lo manda tuo padre.” Quando dice “padre” è contrariata anche con lui.

“Grazie”

“Dice che è un Cynar del 1967”

“Come, avete aperto una bottiglia della collezione?”

“Ma chi ti credi d’essere? L’aveva già aperta, il tu’ babbo ha detto che ora le apre tutte e le beve prima di morire”

“Beh, s’è allungato la vita, sai quanto tempo ci vuole per finirle…”

Guardo il bicchiere e guardo di nuovo fuori. Del 1967. L’avrà fatto apposta? E’ l’anno in cui traslocammo qui.

 

 

 

 

 

Alzai gli occhi.

Quel palazzo mi sembrò così enorme da non riuscire a respirare. Oggi sarebbe diverso ma quei quattro piani, allora, mi parvero il castello dell’orco cattivo ed io non ci volevo entrare.

Quando traslocammo dovettero portarmi via a forza dal vecchio terratetto che si trovava in centro storico, mi attaccai a forza alla ringhiera di ferro arrugginito delle scale che da quando ero nato portavano a quelle due stanze e mezzo in cui ero cresciuto. Piansi, come una vite tagliata, come tagliata sentii la mia vita, pur essendo un piccolo di otto anni. Mia madre cercò di tranquillizzarmi, mio padre usò mezzi diversi: mi prese per un braccio e a forza di strattoni mi fece salire quelle stranissime scale che portavano al nostro appartamento.

La chiave era magica, lo era certamente, apri un mondo a me sconosciuto: una cucina grande, un soggiorno, una zona notte, due camere da letto e un bellissimo bagno. E chi l’aveva mai vista un casa del genere, intendo nostra.

“Cosa sono questi cosi bianchi, mamma?” chiesi.

Sorrise, il sorriso della mia fata buona “ termosifoni, Sandro, termosifoni”.

“Icchè sono?”

“Servono per riscaldare le stanze, anche se non so esattamente come funzionino”.

Io conoscevo lo scaldino ma i termosif… come si chiamano, non credevo esistessero.

Profumava di nuovo, di fresco, un odore intenso, le mura erano di un bianco immacolato e mia madre già sapeva per quanto lo sarebbero state.

Otto, eravamo otto, io, tre fratelli, due nonni e i miei genitori. Troppi anche per quella casa. Smisi di piangere quando lo vidi fare alla mamma. Mi domandavo perché piangesse, se non piaceva neppure a lei, quella casa, perché ci aveva portato lì?

Allora mi arrabbiai. Ma Giorgio, mio fratello più grande, non solo di età, mi disse “Te sei proprio scemo, piange di gioia. Piange perché non ci crede ancora d’avere una casa tutta nostra.”

Ero proprio scemo perché ancora non capivo. Per me le lacrime nascevano solo dal dolore, per un balocco rotto, per un graffio a uno stinco. Ma di gioia io ridevo. La cosa  continuava a non convincermi.

Mi venne da fare pipì. “Vai in bagno!” disse il babbo come fosse la cosa più normale del mondo. Ma funzionava come tutti gli altri? Entrai timidamente. Il water era nuovissimo ed ebbi un po’ di timore. Mi sbottonai la serratura dei pantaloni, tirai fuori il pisellino e cominciai a liberarmi.

Mi guardai attorno. C’era una vasca fissa e  grande e un lavandino. Chissà la tinozza in ferro per fare il bagno dove si sarebbe messa. Boh. E quell’affare attaccato al muro cos’era? Nel mentre osservavo m’è arrivato uno scappellotto da dietro che ci manca poco mi ribalta.

“Guarda dove la fai, sciocco!”

Non avevo centrato il water e molta pipì era per terra.

“Vai, s’è rinnovato l’ambiente!” disse il babbo

I processi educativi devono seguire una strada logica. Mi fu messo in mano un cencio e uno spazzolone: “Ognuno riparerà i propri danni”

Da allora l’ho fatta seduto.

 

 

 

 

 

“Ehilà, guarda chi si vede!” L’anziano ometto, piccolo, ma robusto, alza lentamente il viso verso la terrazza.

Mi riconosce e sorride.

“Santro, cume va?”

Trent’anni che vive qua e non ha ancora abbandonato quell’inflessione  dialettale che mi faceva schiantare dalle risate.

“Bene, Carminuzzo beddo” Mi viene ancora da ridere, poi rido un po’ meno quando la mamma arriva e mi da un calcio negli stinchi sussurrando “Smettila!”.

Ma il vecchio non mi sembra arrabbiato, anzi.

“Me fa piagere davetti visto”

“Anche a me”

 

 

 

 

 

Il Villaggio era un labirinto di stradelline che collegavano una serie di grandi corti da sembrare infinite. Mi ci sono perso due volte di fila e dalla paura non riuscivo neppure  a piangere.

Fino ad allora, per strada, mi aveva sempre tenuto per mano mia madre. Ma nel palazzo avevo conosciuto Roberto, un quasi mio coetaneo di un anno più piccolo, e con lui avevo azzardato l’avventura. Scoprii d’essere impreparato e molto ingenuo. Ovvero non sapevo d’esserlo ma mi sentivo a disagio. Ancor di più quando mi resi conto che c’erano altri bambini molto più avvezzi di me alla vita di strada. Carmine arrivava dalla Sicilia. Lui sembrava tranquillo. Lui. I suoi otto figli un po’ meno. Tre sorelle e cinque maschi, uno dietro l’altro nel giro di nove anni.  Ricordo ancora i nomi: Anna, Lucia, Maria, Gaetano, Salvo, Franco, Lillo, Giuseppe. Erano tremendi e usavano le mani solo per tirare schiaffi o sassate. Abituati a convivere per le strade, avevano deciso di essere i dominanti del luogo. Non giravano mai da soli, ma tutti insieme e le loro giovani ma già decise facce incutevano timore agli altri piccoli come me. Gli incrociai un paio di volte, mi fecero due urli e me la feci sotto scomparendo alla velocità della luce. E mi persi. Due volte, appunto. Fu l’inizio di una convivenza difficile per il mio carattere bonario e semplice.

Mi è rimasto impresso nella memoria il volto di Giuseppe, il più grande. Lunghi capelli neri tutti arruffati, vistose ciglia nere e la pelle scura da farmi sembrare un latticino. E che mani! Il doppio delle mie, aveva tredici anni, e quando me le stringeva sentivo un dolore mostruoso, scricchiolavano le mie ossa fino a che non mi mettevo in ginocchio a chiedere pietà.

Il loro potere assoluto durò molto poco. Il Villaggio, con una progressione costante, si vestì di gente che arrivavano da ogni dove, dall’alluvione del Po a Rovigo, da quella fiorentina dell’Arno, da varie zone depresse del sud. Una variegata accozzaglia di persone di culture così diverse da domandarsi come avrebbero potuto convivere assieme senza che si creassero problematiche. Infatti nessuno se lo chiese. Intanto diamogli la casa, poi vedremo.

Il piccolo Sandro, cioè io, mi trovai a parlare con ragazzi di pelle scurissima del cui dialetto non capivo assolutamente nulla ma indifeso di fronte alla loro esperienza di vita. Mi prendevano in giro, si divertivano contando sulla mia ingenuità. Me la davano a bere continuamente. Se sbagliando si impara, devo ammettere che quei ragazzi sono stati dei gran maestri, ma anche dei violenti, una violenza che proveniva dalla cultura della sopravvivenza.

Legai solo con Roberto, ragazzo intelligente,bravo, disponibile e gentile che per fortunata coincidenza viveva nel mio stesso palazzo.

Nel Villaggio col tempo cominciarono a formarsi le bande. Gruppi di ragazzi che lievitavano nel numero grazie ai continui arrivi.

Avevo due gambine secche e d’estate si vedevano fuori dai pantaloni corti. Certo non potevo far paura ad alcuno di loro. Io e Roberto decidemmo fosse meglio non legarsi troppo a qualcuno, a nessuno di questi gruppi, più perché non ne avevamo voglia che per altre ragioni. Ma poi si scoprì essere forse stata la  soluzione (per altri motivi) più saggia.

Quando uno di questi gruppi  ci trovava, ci riteneva innocui, ci irridevano un po’ e poi se ne andavano. A picchiarsi con gli altri.

 

 

 

 

 

“Sandro, vieni a vedere!”

La mamma sussurra le parole, non so per quale motivo.

Ah, eccolo il motivo: Elisa si è addormentata in collo al nonno. Che piange, di gioia.

Eh, il babbo da quando si è ammalato è diventato estremamente sensibile a certe manifestazioni d’affetto. Avere Elisa distesa su di lui, tutta accoccolata tra le sue braccia, lo fa sentire così importante. Invece a me preoccupa perché la bambina lo è sempre meno, bambina, e trenta chili sono troppi addosso al babbo.

Con delicatezza la prendo sotto le braccia e la porto nel letto.

Meno male, perché non ne avevo proprio voglia di andare a quei giardini. Lei si diverte, ma io mi faccio due zebedei gonfi così.

Le levo i pantaloni e la maglietta e la metto sotto una coperta leggera.

Osservo il suo viso, di una bellezza indescrivibile.

Almeno per me.

Il problema è che in questi momenti non posso non pensare al maschio che la profanerà.

È una sensazione che mi disturba alquanto.

Meglio dirigere l’attenzione ad altro e torno in terrazza. Cambio idea.

“Mamma, vado qui sotto, sul muretto.”

 

 

 

 

 

 

 

Il muretto. La terrazza della mamma è a un piano ammezzato, quasi al pianoterra e proprio lì sotto c’è una striscia ricurva di cemento armato alta circa 40 centimetri, il mitico “muretto”

Nel sedermi c’è un attimo di emozione che mi sfiora i sensi.

Forse è il freddo del cemento, ma non credo. Il Villaggio era percorso da due sole vie, Via delle Camelie e Via dei Ciclamini, che con i fiori avevano poco a vedere.

A dire il vero nelle grandi corti quadrate che si formavano tra i palazzi v’erano degli spazi, anch’essi quadrati, con del verde dove poter piantare arbusti o alberi da fiore. Ma la gente era troppo occupata a trovare il modo di sbarcare il lunario per curare  l’aspetto floreale di quell’ammasso di cemento.

I palazzi avevano un numero civico e noi, piccoli frequentatori delle corti, avevamo chiamato quest’ultime col numero del palazzo che conoscevamo meglio.

“Ragazzi, troviamoci alla corte del 25, fra dieci minuti…”

“Nella corte del 6 si stanno dando!”

Continuava ad arrivare gente nuova ed io crescevo con loro.

Il muretto era un luogo sacro per me e Roberto. Ogni giorno che Dio metteva in terra, dopo la scuola ci ritrovavamo a sedere lì cercando di trovare qualcosa per divertirsi.

Figurine Panini, che compagne straordinarie! Eravamo poveri, eppure riuscivamo ad acquistare tonnellate di quelle immagini cartacee. Per finire un album ci voleva una vita, ma noi mica le comperavano per completarlo. Noi ci sfidavamo giornalmente a giochi d’azzardo, sì d’azzardo per noi, perché riuscivamo in poco tempo a dilapidare fortune in figurine.

La muriella , piastra levigata di pietra o in granito, era lo sport locale. Mettevamo decine di figurine sotto un sasso e da 10/15 metri dovevamo colpirli. Vincevamo quelle che non rimanevano sotto il sasso. Uno spettacolo vedere decine di foto svolazzare verso l’alto colpite con violenza dalle nostre murielle. Nostre… loro, perché io perdevo sempre, ero il rifornitore ufficiale di figurine Panini  del Villaggio. Ma mi divertivo tanto e mi andava bene così.

 

 

 

 

 

Alzo lo sguardo e vedo la piccola finestra ornata di bianco che da sul bagno dell’appartamento di Violetta. Adesso la malinconia diventa corposa. E perché la cosa sia ancor più vistosa, il cielo sopra il palazzo si sta coprendo di nuvole grigie. Non vedo sua madre da molto tempo ma ogni volta che capita il mio cuore accompagna i suoi passi piegati dal dolore.

“Mamma, secondo me è meglio che tu tolga i panni stesi perché questo tempo stupido mi sembra vada all’acqua.”

“O se c’è un sole che porta via?”

“Vieni te a sincerarti, malfidata non sei altra!”

La mamma s’affaccia e non può fare a meno di darmi ragione e imprecare.

 

 

 

 

 

Violetta arrivò nel palazzo alcuni anni dopo. La sua famiglia prese il posto di un’altra che riteneva le nostre case “troppo” popolari. Tutti eravamo ansiosi di conoscere i nuovi coinquilini e ogni mattina ci svegliavamo affacciandoci alla finestra nella speranza di vedere qualche auto o camion carico di suppellettili o scatoloni, tipici di un trasloco.

Finalmente arrivarono.

Siciliani, erano siciliani, e visto le discussioni che già si erano create all’interno del nostro palazzo tra polentoni, noi, e terroni, gli altri, non fu che la cosa ci entusiasmò.

Un uomo robusto, una piccola donna e tre figli. Per l’esattezza un maschio e due femmine. Una era Violetta. Il suo nome ricordava molto ciò che lei sembrava essere, un fiore di bosco il cui colore spiccava nello scuro dei suoi occhi.

Sì, in effetti mi colpì molto il suo viso.

La loro fu un’integrazione difficile, il loro comportamento era sempre sulla difensiva, pochissima confidenza, poca cultura dovuta sicuramente ad una esistenza fino ad allora troppo ricca di difficoltà.

Oggi, col senno di poi, avrei agito diversamente da come si comportarono gli adulti allora. Avrei cercato di capire la loro provenienza e la loro cultura, avrei usato maggior delicatezza nel propormi, nel cercare un colloquio diretto ad una migliore convivenza senza essere invadente.

Ma allora non fu così. Non si ammetteva il non saper leggere o scrivere, gli obblighi erano per tutti e da rispettare e chi se ne frega se non li comprendi.

Ma il padre di Violetta si chiuse insieme alla famiglia in uno spazio solo suo e ciò che si poteva concordare amichevolmente fu reso difficile, anzi impossibile.

Non è stata la sola esperienza di contrasto all’interno del palazzo. Ogni appartamento era numerato e con i numeri volavano nello spazio vuoto della tromba delle scale parole e gesti d’odio.

“Quella del sette è una rimbambita…”

Quella del cinque non ha pulito le scale…”

“Quella del tredici deve smettere di rompere i coglioni, lei e i suoi bambini…”

Si fendeva l’aria da come era spessa.

Io non riuscivo a capire quei comportamenti, mi sembravano sciocchi, mi facevano stare male e forse è da allora che evito discussioni  superficiali.

Ma c’era una cosa che mi distraeva da quello squallore: la bellezza meridionale di Violetta.

Capelli e occhi scurissimi, naso leggermente aquilino, aveva la dolcezza di una timida adolescente.

Ero poco più grande di lei e ebbi subito occhi solo per lei. Ma mica era facile avvicinarla con genitori come i suoi, nell’immaginario che si creò mi vedevo già il fucile a canne mozze che a sua volta rendevano mozza la mia testa.

Fu lei ad avvicinarmi, a chiedere come mi chiamavo. Era la prima volta che sentivo battere il cuore forte come allora e credo di averlo balbettato, il mio nome. Cominciammo ad incontrarci, ci rivelammo i nostri sentimenti. Ragazzini, eravamo ragazzini. Lo fui anche quando una sera, salendo le scale per andare a casa, all’improvviso sua madre aprì la porta e fermandomi mi minacciò se avessi continuato a vedere sua figlia. Mi terrorizzò e feci quello che mi aveva ordinato.

I primi ed unici rimorsi e rimpianti della mia vita.

Evitai di incontrarla e lei che non capì. Di tutte ho ancora impressa l’immagine di Violetta sull’autobus per andare a scuola che mi guardava senza fare parola e io pure.

Il giorno prima che ci fosse la fuga di gas nel bagno.

E’ strano, ma credo di aver imparato ad amare in quel giorno di morte.

 

 

 

 

 

Un tuono fortissimo mi scuote.

“ Tu ti devi fidare del tu’ figliolo!” dico all’indirizzo della mamma.

“Bella soddisfazione! Lo vuoi un po’ di Vin Santo con due biscottini di Prato?”

“Grazie, li prendo proprio volentieri.”

Vado nel salotto buono della mamma. Ha poltrone estremamente comode, che dormite ci abbiamo fatto io e i miei fratelli. La finestra che dà sulla nostra corte è aperta.

Le vecchie panchine di legno sono tutte scolorite, scheggiate, in parte divelte.

 

 

 

 

 

Ci fu un tempo, raccontato da Roberto, che accompagnò il passaggio ad adulto dei molti ragazzi del Villaggio. Mio padre trovò lavoro a una decina di chilometri con casa annessa e persi contatti con quel luogo, pur rimanendo lì come residenza.

Fortunato, mi disse Roberto, sei stato fortunato. Dai quindici ai vent’anni, gruppi di ragazzi che avevano vissuto le strade molto presto organizzarono il loro passaggio alla maturità nel più totale abbandono. Quando accade, l’unico linguaggio è la violenza e la sopraffazione del debole. Teste calde brandivano lo scettro del comando e quando lo spazio divenne troppo stretto, si spostarono verso l’esterno.

Roberto, senza me e pena l’esclusione dal gruppo e quindi solitudine, si aggregò ma cercò, con molta intelligenza, di evitare situazioni pericolose. Ha sempre saputo gestire al meglio la sua vita, fin da piccolo e io l’ammiravo.

Le risse erano all’ordine del giorno, i furti.

Poi però arrivò la droga.

Il Villaggio non era mai stato un luogo favorevole per crescere. Famiglie povere erano state aiutate a avere una casa, ma non doveva finire lì.

Ho fatto la seconda elementare in un garage, la terza in un appartamento senza muri interni, la quarta in un altro garage. Una specie di ghetto dove i bambini hanno subito perso la loro innocenza senza possibilità di assaporare speranze. Non bastava una casa, non bastava. Quando si cresce abbandonati a noi stessi perché i nostri genitori o lavorano o si muore di fame, la visione del mondo è un po’ diversa dal bello.

La droga arrivò come una tempesta e uccise. Stavolta non piansi ma rimasi scosso. A quell’età già riuscivo a riflettere e convenni con Roberto che ero stato fortunato.

 

 

 

 

 

“Sai mamma, stasera vado a mangiare la pizza con Roberto e i suoi bambini.”

“Bene, mi fa piacere, sono così belli i suoi bambini. E bravi.”

“Come il loro padre.”

“ E’ vero. E togli i piedi dal tavolino, maleducato.”

“Scusa…”

E’ da quando avevo due giorni di vita che mi fa due scatole così per educarmi.

E’ proprio vero, sono stato fortunato.

Due pacchetti di Ringo

Ho appena finito di inzuppare due pacchetti di Ringo in un bicchiere di latte freddo.

Come quando ero bambino.

Sto facendo molte cose che ricordano la mia infanzia.

È l’ora che è differente, a quei tempi dormivo già da tre ore.

Adesso dormo tre ore.

Dicono sia l’età.

A volte invece penso che sia non voler perdere troppo tempo della mia vita.

Come adesso, che ho voglia di te, che ho voglia di pensare a te, che ho voglia di scrivere a te.

Scrivere.

Ci sono momenti che hanno percorsi obbligati, come piccoli sentieri segnati che ai loro bordi rivelano precipizi perigliosi, momenti in cui l’assenza e la presenza acquistano la sostanza e il senso del vivere.

Ed io scrivo, perché scrivere mi aiuta a pensare, a riflettere, a discernere, a capire, a ricordare.

Ed è a te che io penso, è su di te che rifletto, è per te che discerno,  è con te che capisco ed è in te il mio ricordo.

Scrivo, per posare pietre a lastricare un sentiero che sembrava impervio e renderlo facilmente percorribile.

Scrivo perché il suono delle mie parole ti giunga anche nel mutismo della mia lontananza.

Scrivo perché la follia dell’amore è la saggezza della razionalità.

Scrivo per te.

E adesso mi mangio un altro pacchetto di Ringo.

Che mi garbano da morire e io son goloso da far paura.

Bellissima

Stavo riordinando lo scaffale dei pomodori pelati quando avvertii una presenza ferma dietro di me.
Sicuramente chiunque fosse necessitava di sapere dov’era la carta igienica o i sorbetti alla cioccolata.
Mi giro e ti vedo un pezzo di ragazza che manda direttamente in pensione il mio poster di Monica Bellucci.
Alta ma non troppo, capelli scuri e lisci di lunghezza media, ben pettinati, due occhi neri che m’hanno sciolto il cuore e due tette che m’hanno sciolto la lampo dei jeans. E le gambe! Tornite che Michelangelo avrebbe dato due martellate alla Pietà per metterci le sue.
Era talmente bella che mi sembrava di averla sempre conosciuta.
Ovviamente non ho emesso alcun suono dalla sorpresa mentre la mia faccia poteva essere presa a demo di demenza senile precoce.
“Ciao.” Lo disse con un sussurro, come una carezza, mi sfiorò come un petalo portato dal vento.
“Eh?”
Ebbene sì, ognuno di noi s’immagina che in certe strane situazioni possa tirare fuori il meglio di se stesso. Se quell’”Eh?” era il meglio di me stesso non stavo messo bene.
“Mi accompagneresti a fare la spesa? Sai, sono un po’ imbranata e sarei felice se tu mi potessi aiutare?”
Nel mio lavoro è un po’ un problema lasciare le disposizioni, ma se mi licenziavano per questa meraviglia della natura, chissenefrega. Un giorno ai miei figli avrei potuto raccontare di aver avuto un contatto ravvicinato con un angelo.
Avevo ancora una cinquantina di scatole da mettere a posto, maledetti pomodori. “Puoi aspettare che finisca di mettere a posto questi?”
“Certo…”
Certo fu il mio impegno a far tutto veloce, e poiché non avevo tempo di spostare lo scatolame misi i pelati tra fagioli, ceci, piselli, insomma feci un po’ di troiaio.
La vidi sorridere e ci manca poco che scivolo e picchio una musata.
“Ora sono solo per Lei (si sentiva proprio la maiuscola)”
“Dai, diamoci del tu”.
Star Wars era meno di fantascienza di quella situazione. Il Poppi, il Matteoni, il Guasti non avrebbero creduto ad una parola, non lo avrei fatto nemmeno io.
“Da dove cominciamo?”
“Dall’inizio.”
Volavo, camminavo leggero lungo gli scaffali e non mi ero mai accorto di quanto fosse stato bello quello squallido supermercato.
Forse era un sogno o forse una bolla di sapone. Ma finché non scoppia è comunque di una bellezza straordinaria.
Una Meraviglia!
“Ma tu veramente non mi riconosci?”
Eccoci, ci doveva essere qualcosa sotto.
“No…” mai vista, come avrei potuto non riconoscerla.
“Ci siamo visti una settimana fa.”
Questa s’è fatta una pera, se fò in tempo prima che le passi l’effetto finisce che ci faccio anche qualcosa.
“Dove?”
“Era un tempo terribile, nevischio e vento forte e gelido. Avevo forato…”
“Sei tu?” e chi la poteva riconoscere, era tutta imbacuccata e fradicia. Poveraccia, non sapeva come fare a spostare l’auto e cambiare la gomma. Mi fermai col furgone di ditta e le cambiai il pneumatico.
“Come hai fatto a trovarmi’”
“So leggere le insegne dei furgoni.”
Ovvio, che stupido. “Non dovevi disturbarti per venire a ringraziarmi”
“Invece sarei felice se tu venissi a casa mia sabato per la cena che ho intenzione di cucinare con queste cose”
Indicò il carrello e poi guardò me. Forse aspettava la mia conferma ma nello sguardo c’era una strana espressione
Ero già a Blade Runner.
“Volentieri”
Non so cosa succederà sabato sera, ma riflettete, gente, riflettete: a far del bene non può esserci che ricompensa.

Sciogliere

Cercavo il bandolo della matassa, ma, al contrario, tutto si era annodato in maniera irreversibile.

Almeno apparentemente.

Giorni passati intrecciati a conseguenze indesiderate, decisioni prese legate a soluzioni inevitabili, azioni rimandate incollate a rimpianti inutili.

Vedevo il groviglio della mia vita talmente complicato da rendermi inquieto e sfiduciato.

Era un giorno di sole che stava finendo e mi trovavo su una spiaggia che si rivolgeva verso ovest. Così, per dire semplicemente che stavo osservando un tramonto, ma adoro complicare anche le cose più semplici e non poteva sorprendere alcuno quella mia caratteristica vitale. Il mare era calmissimo e il leggero frangersi delle onde era una specie di ninna nanna ai miei sensi.

“Oggi è stata un’altra di quelle giornate infernali che hanno il solo compito di volermi impedire la mia gioia più bella…”, mi ha detto Nina quasi facendomi paura, non avendola sentita arrivare, “ma come vedi niente può fermarmi…”

Nina era una signora dall’età inconoscibile (non voleva si sapesse), ma avrei detto sui 90 anni. Ogni tardo pomeriggio percorreva un paio di chilometri di lungo mare, non senza averlo fatto anche la mattina presto. Con il bastone e una andatura claudicante, pareva dovesse cedere e cadere da un momento all’altro. Invece, quella sera, come in ogni altro momento simile,  al rientro mi salutava con un sorriso che mi lasciava sempre una domanda in sospeso.

“Devo chiederti una cosa…” le dissi ritenendo di non dover far passare altro tempo per porre la questione.

“Dimmi pure caro…”. Nina era una persona gentilissima.

“Il segreto della tua serenità… ti andrebbe di svelarmelo?”

Nina mi guardò con un mezzo sorriso.

Rimase in silenzio, come se mancasse una parte della domanda. Rimasi a aspettare, senza dire altro.

“Il segreto è imparare un verbo semplice quanto importante..”

Inarcai le sopracciglia e le chiesi quale fosse. Lei sorrise come a farmi capire quale fosse la parte di domanda mancante.

“Il verbo è sciogliere. Sciogliere i propri dubbi, incertezze, paure, indecisioni; sciogliere, con calma e senza arrendersi mai. Sciogliere anche ciò che appare complicato e irrisolvibile. Ti renderai conto che non poteva che essere a quel modo e le scelte erano quelle giuste. La mia serenità è solo accettarmi.”

Poi se ne andò con un “buona serata” appena sussurrato.

Mia cara Nina, mi è chiaro che sono difettoso. Ho cercato di fare come dicevi tu, ma la matassa è più annodata di prima. Ti sto pensando con uno spritz in mano, adagiato su un divano della terrazza di un grattacielo da dove vedo il globo solare sparire a occidente( si, un aperitivo davanti al tramonto).

Sai una cosa, Nina? Una parte di quello che mi hai detto però l’ho fatta: accettarmi.

Alzo il calice e sotto lo sguardo stranito di una bella bionda bevo alla tua salute.

La triste vita Pino Allu (tratto da una storia vera)

 
Nato agli inizi degli anni sessanta in una famiglia fortemente disagiata, terzo di treallaseconda figli, Pino non avendo potuto studiare non ha mai saputo calcolare quanti fratelli aveva. Ma erano certo tanti se suo padre decise che l’unica salvezza era emigrare a Prato, ridente cittadina (ma solo perché probabilmente aveva una paresi).
Saranno stati quattordici minuti tra il si e il no che la famiglia Allu era arrivata in città, insediandosi in uno scantinato polveroso e pieno di ragnatele di fianco a una gora (un canale dove le aziende scaricavano i gli scarti lavorativi liquidi più inquinanti mai visti sulla terra), che il padre disse a Pino: “ Aaargggghheeeeeaaarrggh???”*
Pino chinò lo sguardo preoccupato.
Il padre continuò: “guruuuuugugreeeaaaahhhhgggrrruuuto!!!”**
Pino colmo di sensi di colpa rispose “hai ragione babbo…” (io l’ho scritto con la acca, ma lui l’ha detto senza).
Il padre terminò con “ccccrrrraaaaaiiiiioooooggghhherrrre!”***
 
*non penserai mica di stare qui senza fare una sega, eh???
** hai già otto anni, ti do du’ giorni per trovarti un lavoro o a calci in culo ti butto in questa gora, vagabondaccio che non sei altro!!!”
***Brutto mostro, figlio illegittimo, sei ancora qui? Vedi di fare veloce che devo trombare la tu’ mamma!
 
Pino comprese allora quanto la povertà fosse brutta,ma senza perdersi d’animo cominciò a cercare lavoro. Capitò in una filatura senza sapere che cosa fosse una filatura, tipo la stragrande maggioranza di chi sta leggendo. Trovò un uomo grasso, lercio e sdentato che gli chiese cosa cazzo volesse. Lui disse lavoro. L’omone di dimensioni spropositate, in particolare nella pancia piena di peli sudati, gli chiese cosa sapeva fare. Pino ci pensò, poi ci ripensò e quando comprese che pensare era una cosa troppo complicata rispose “so dire la formazione dell’Inter!”
“Assunto!” disse l’omone Misclèn e non perché era per l’Inter, ma perché Pino era la persona adatta per un tipo di lavoro che nessuno voleva fare.
Si dice che questa città offrisse lavoro a sfare in special modo a chi sapeva contare fino a tre e non conoscesse le H (appunto).
Fabbriche sotto forma di capannoni di mille dimensioni (dal garage di casa a cattedrali in mattoni rossi di cinquemila metri quadri), come legate da un cordone ombelicale in un preciso processo produttivo, trasformavano la lana appena tosata in tessuti che vestivano mezzo mondo e necessitavano per i vari stadi di lavorazione gente che svolgesse i lavori più umili.
Tra questi c’era il carbonizzo, il tintore, il follatore, il cardatore e molti altri. Ma ve n’era uno che era il più umile di tutti e da come lo era nessuno lo aveva degnato di un nome. Appunto, quello assegnato a Pino
Pino Allu seguì le indicazioni del Capo Filatura (l’omone): 1) sedici ore al giorno e paga dieci lire al giorno e ringrazia che ti si danno visto che ti si insegna un lavoro. 2) Seguire le indicazioni del capo e a ogni sgarrata una serie di schiaffi che quelli del su’ babbo erano carezze per un dieci in pagella (cazzo è la pagella? si domandò Pino).
Ogni giorno gli davano vari colli da quattro quintali l’uno di lana grezza, nylon, cotone, terital e così via che doveva smistare secondo un ordine ben preciso e oliare con dosi di lubrificante al fine che le fibre mescolate potessero essere lavorate al meglio. Alle nove la sera quando usciva di filatura era letteralmente ricoperto di batuffoli di lana, nylon etc e unto come una bruschetta, così da sembrare un mostro notturno.
Ma Pino Allu era orgoglioso di se stesso. A quella età già sosteneva la sua famiglia e nonostante ogni sera s’addormentasse quindici secondi dopo essersi seduto a tavola svegliandosi la mattina alle quattro e senza aver mangiato, era felice.
Così tanto che l’omone dopo un paio di anni in cui l’aveva strizzato come un limone, gli domandò “Ma che cazzo c’hai da ridere?”
Pino si fermò un attimo, corrucciò gli occhi e sembrò pensare. Sembrò, perché la domanda gli parve così difficile che per non passare da grullo non rispose.
Il Capo Filatura (ancora l’omone) non essendo poi proprio un genio, non si domandò come mai non rispondeva, ma decise che Pino era un bell’operaio, di quelli su cui puoi contare e decise che usare il suo nome per il ruolo che svolgeva fosse il giusto premio.
Allu Pino adesso è nella storia.
Dicono sia morto contento.
Allora è bene che cambi il titolo del racconto, togliendo la parola triste e che rifletta sul fatto che l’esistenza è solo un punto di vista

Sul Silenzio e l’arte del rigovernare (saggio filosofico)

 

Nello svolgersi delle attività umane, fin dagli albori della specie, si è fatto recondito il senso della inevitabilità che trasforma il bisogno in una spinta potente alla azione. Dobbiamo affermare che mai è stato fatto alcunché senza un motivo: curiosità, necessità, evoluzione, forza maggiore e altri che hanno spinto l’uomo a pratiche piacevoli e soddisfacenti, ma anche faticose e dolorose.
Quella di cui voglio discorrere stasera riguarda una attività molto diffusa, ma che in realtà è arte sopraffina e sconosciuta: il rigovernare. Premetto che non voglio cadiate nel errore di non ritenerla sconosciuta, in quanto troppo spesso è azione quasi esclusivamente forzata e svolta in maniera sbagliata; in questo caso mi riferisco a soggetti che possono essere riconosciuti in dipendenti di ristoranti a paga minima, oppure a mariti o mogli che sognano lavastoviglie ogni notte e di cui restano privi perché non c’hanno una lira.
La vera arte del rigovernare è riservata a pochi, come in fin dei conti accade in ogni espressione di altissimo livello artistico.
Si tratta del parto tra due opposti, l’effimero e la sostanza. Nasce nel momento più intimo dell’esistenza individuale, quando il Tutto opprime e rende l’agire un peso insopportabile.
Il potenziale sinergico che esplode tra senso di sopravvivenza e desiderio, trasforma il rigovernare in atto mistico.
Gli occhi si fanno ciechi alla storia, l’udito si concentra all’eco del lavello, il tatto si fa piacere sopraffino in base al sapone usato, l’olfatto vive la cancellazione di odori inquieti. Il gusto si mette timidamente da una parte, stancato da un lavoro precedente al rigovernare.
È così che il passato e il futuro si annientano nella mente dell’artista, il cui mondo si limita a quel presente. L’acqua calda ha un suono leggero, è la musica dell’attimo senza parole dove una sacra quiete accompagna l’opera in atto. Schiuma bianca scioglie impurità oscene sulle superfici; gesti sapienti ne completano l’opera facendo riflesso di luce ogni spazio toccato dalle mani dell’artista. Lo sciacquare si rivela purificazione ed è forse uno dei momenti più elevati del rigovernare. L’utilizzo di attrezzi idonei come spugne morbide e teli per asciugare in cotone indiano ci avvicinano alla perfezione di un’opera che solo a coloro che mostrano limiti può apparire ogni volta uguale: basterebbe pensare ai menù sempre diversi.
Il tornare alla realtà, alla fine del rigovernare, è per molti artisti uno shock psicofisico potente.
Spossati si distendono sul divano a vedere la partita e negli occhi mostrano l’assurda sofferenza per una vita sbiadita nella sua rottura di coglioni.
Il Silenzio?
Perché, credete che l’artista abbia anche voglia di parlare?