Gatto

Ivan Ivanovic non è un comunista. Almeno credo, a meno che anche tra i gatti non vada di moda la politica. Non lo sono neppure io, ma mi piaceva dargli un nome di contrasto. Qualcosa di diverso che facesse sgranare gli occhi a chi non si fa i cazzi suoi chiedendo “come si chiama?”. L’unica cosa che potrebbe collegare lui al nome è il fatto che sia di pelo rosso, di quella tonalità che d’istinto ti porta a alzare il pugno sinistro in alto.
Ripensandoci non ho chiesto al diretto interessato cosa ne pensava del nome, ma non credo mi avrebbe risposto. No, non perché non parla la nostra lingua, è proprio che non gliene frega una mazza di niente. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa dica, ovunque si vada, lui è di un indolente tale da far incazzare chiunque, escluso me. Perché io lo amo, Ivan Ivanovic: rappresenta il mio desiderio di come essere, superiore a qualunque accadimento, che siano terremoti, tsunami, fallimenti, incidenti, separazioni, tradimenti etc etc. Gli entrano da una parte e gli escono dall’altra e lo dimostra stando sempre sdraiato come un messicano durante la siesta, alzandosi solo per mangiare, bere e di conseguenza riempire la lettiera.
In fin dei conti vorrei davvero somigliargli.
Poi, quando mi sono presentato a “The Voice” con la chitarra elettrica e Ivan Ivanovic è accaduto l’impensabile. Vabbè, ho una bella voce, una grinta spettacolare da rocchettaro e un gatto che mi segue fisso. Ivan Ivanovic, appunto. Che sta fermo ai miei piedi, senza muoversi di un millimetro, mentre mi agito come un deficiente e suono pezzi dei Black Sabbath.
Durante le feste o nei pub scrosciavano gli applausi, ormai adoravano me e il mio gatto, eravamo uno spettacolo unico e allora avevo deciso di provare a presentarmi a “The Voice”, chissà mai se…
Quando mi hanno chiamato per il provino, ho cominciato a farmi dei film sul mio futuro che i Rolling Stones nei miei confronti erano da paragonare a Pupo.
Poi, come sempre accade, ciò che dà una svolta alla vita è il più inatteso degli avvenimenti.
Arrivato a Roma in macchina, fermandomi ad un semaforo rosso mi sono reso conto che sull’asfalto giaceva il corpo di un gattino, probabilmente colpito da un’auto che transitava. Mi ha fatto una tenerezza terribile (è un ossimoro, lo so, apposta…) e allora ho accostato la vettura e mi sono fermato. Sono sceso, ne ho preso il corpo e l’ho sotterrato in un terreno adiacente la strada. Quando sono rimontato mi sono accorto dello sguardo di Ivan Ivanovic.
Sono cose che accadono, vecchio mio, gli ho detto e siamo ripartiti. Ma Ivan Ivanovic non ha mai smesso di guardarmi e vi dirò che mi pareva avesse gli occhi lucidi.
The Voice.
Una emozione incredibile, superata d’improvviso perché mi è sembrato che il gatto mi avesse fatto l’occhiolino. Un segno, ho pensato, e via al massimo. Con il pubblico in delirio, i quattro giudici si sono girati in contemporanea e hanno aperto gli occhi meravigliati.
Anch’io li avevo a quel modo: guardavo Ivan Ivanovic che su due zampe mi applaudiva.. Non chiedetemi come fosse possibile, credo che ritenesse quel gesto il giusto ringraziamento per ciò che avevo fatto al suo simile.
O forse gli piace proprio come canto e suono. Boh…
Non ho vinto e Ivan Ivanovic ha disegnato la pelle dei giudici con le unghie… un po’ di soddisfazione non fa mai male.
Giusto, Ivan Ivanovic?

Rabbia

Quando il bimbetto, tutto lercio per aver giocato col vestitino bòno della comunione dentro la mòta che s’era formata per l’acquazzone estivo, s’avvicinò all’uomo con la lunga tunica azzurra e con un cappello a punta anch’esso azzurro questi stava appoggiato a un albero e si stava chiaramente lamentando.

“Icchè t’hai?” chiese il bimbetto che era tutto fuorchè timido.

“Un ne posso più…”

“Tu mi sembri stanco!”

“Tu dici bene, giovincello… o come tu se’ bellino! Un po’ sudicio, ma bellino…”

“Ma icchè t’è successo?”

L’uomo lo guardò rendendosi conto che il piccolo un l’avea riconosciuto.

“Dimmi una cosa, ciccino, ma chi ti sembro, io?”

“Un mago… oh, un son mica deficiente!”

“Ah… ma un ti sorprende la cosa?”

“No davvero, di maghi son pieno fin qui (indicando dieci centimetri sopra la testa) con tutte le favole a bischero che mi raccontano da quando ho sei mesi, ma ora che ho otto anni dovrebbero cambiare genere, a casa mia…”

“Un ti dò torto… però scommetto che un tu sai che io son specializzato!”

“Specializzato?”

“sì, c’ho un master in magia della rabbia…”

“Un cosa?”

“Ah, scusa, un puoi capire se parlo difficile… insomma sono specializzato a far scomparire la rabbia dalla gente. Non la malattia, ma l’isteria e l’arrabbiature delle persone.”

“Ganzo! E come mai tu se’ tutto stravolto?”

“l’è stata una giornata terrificante, oggi un smettevo più d’agitare questa bacchetta…”

“Mi racconti qualcosa?”

“Tu se’ curioso, eh? Insomma ho cominciato alle sei di mattina a una rotonda per entrare sull’autostrada: una vecchina unn’ha dato la precedenza e c’è mancato un pelo si schiantasse contro un’Audi nòva di zecca; è uscito il proprietario e ha cominciato a offenderla come fosse stata una de’ viali. Son’arrivato io e con una bacchettata l’ho reso tranquillo che alla fine l’ha scortato la vecchietta fino a casa.”

“Ganzo!!! E poi? Dimmi, dimmi ancora…”

“in ordine di tempo:

  • alla posta un vecchio s’è incazzato con un cinese che facendo finta di nulla è passato avanti a tutti
  • al supermercato una donnina s’è incavolata con quello della gastronomia che la voleva fregare sul peso
  • un extracomunitario urlava come un ossesso con un suo conterraneo per la mancata consegna di roba strana che unn’ho capito icchè fosse
  • un ragazzo tutto bellino che tirava cazzotti a un muro perché era stato lasciato dalla su’ ragazza
  • un cinquantenne tirava delle madonne che un le saltava un cavallo perché un su’ amico gli aveva dato cinquanta euro falsi
  • una mamma tirava col battipanni al figliolo reo d’essere stato su internet a vedere roba che un posso dirti
  • un prete… “

“Aspetta mago, aspetta un attimo…”
“O chi urla in questo modo?”

“L’è la mi’ mamma… l’è un po’ imbufalita per via del fango sulla camicia bianca…”
“Un po’??? senti come la sbraita!”

“Per favore, maghino mio, ce la fai a usare ancora la bacchetta??? La mi’ mamma la n’ha bisogno…”

“Tu dici? Vabbè, ci provo… (Se un vò a letto veloce, mòio…)”

Un lampo partì dalla bacchetta e la mamma guardando sorridente il bimbetto gli chiese “O come t’hai fatto a conciarti in codesto modo???”

Il bimbetto terrorizzato le rispose: “in quelle tre o quattro pozze…”

“Ganzissimo!!!” e detto questo si sbatacchiò nelle pozze anche lei col vestito di raso rosa.

Il bimbetto, inarcando gli occhi, guardò il mago che sorrideva.

“Ma icchè tu le hai fatto?”

“Niente di che… insomma, a volte basta far tornare bambini…”

“E le altre volte?”

“Nelle altre occasioni fermo il mondo, creo il silenzio, lancio profumi, disegno sorrisi, diffondo musica allegra, faccio sentire sciocchi. Tutto in una volta sola.”

“Ganzo! Lo fai anche a me?”

“Ancora un tu n’hai bisogno, ciccino… Ora fammi andare a letto che di questi tempi fò un monte di straordinari!!!”

IL VECCHIO E IL TONNO (Brevissimo racconto liberamente, ma molto liberamente, tratto dal racconto quasi omonimo di Eminguei)

Vagava lentamente con lo sguardo perso lungo i corridoi della vita, o almeno ne avevano l’aspetto.
Si voltava continuamente a destra e a sinistra, mostrando una incertezza che il suo sguardo, al contrario, nascondeva dietro una spessa patina di saggezza.
La sua era un’età non valutabile, poteva avere mille anni e forse era proprio così.
Lo guardavo con tenerezza e osservavo che molti non gli si avvicinavano, come se fosse stato qualcuno da evitare.
O forse, più semplicemente, era come invisibile, un essere incorporeo e privo d’interesse.
Come spesso mi accade con certi personaggi, me lo sono trovato molto vicino e ho incrociato il suo sguardo.
Aveva gli occhi azzurri come il mare e le palpebre disegnavano un passato decisamente triste.
Ho provato subito una grande simpatia per il vecchio, ma mi sono badato bene di dirgli qualcosa.
Ci ha pensato lui.
“Scusi (mi ha dato del lei…), sa dov’è il tonno?”
Ho sorriso.
C’era un ettaro di supermercato attorno, ma il tonno era proprio lì davanti a noi.
“E’ in quello scaffale, gli ho risposto indicandoglielo, ed è anche in offerta…”
Ho subito notato il cambio dello sguardo, mortificato per una figura, secondo il suo modo di vedere, non proprio intelligente.
“Mi scusi, ma è la prima volta che vengo a fare la spesa…”
Troppo carino. A me gli anziani che fanno così danno proprio gioia.
“Non si preoccupi, fare la spesa è bello e poi, una volta o l’altra si deve pur cominciare…” e ridevo per rallegrarlo.
Il vecchio mi ha guardato.
Ci sono tempi che hanno un volume dal sapore d’infinito anche se hanno una durata infinitesimale.
Uno di questi è stato certo quei tre secondi tra il mio discorso e il suo successivo.
Tre secondi colorati dal nero di un ricordo non richiesto.
“Avrei voluto non dover mai cominciare…” mentre lacrime dolorose si stampavano sulle sue iridi.
Mi sarei voluto sotterrare.
“Ho capito, mi scusi… davvero, mi scusi…”
“E’ successo venti giorni fa…” ha detto traballando con una visibile voglia di sciogliersi come acqua sul quel pavimento.
E senza che fossero proferite altre parole, ho visto allontanarsi il vecchio e il tonno.

Confusione

“C’è una grande confusione dentro di me…”
Lo diceva piangendo mentre teneva puntata la pistola alla mia testa e me la stavo facendo sotto per il terrore che stavo provando. Ho sempre temuto di poter essere vittima di una rapina, ma tra il dire e l’accadere mi sono reso conto che c’è una gran bella differenza. Mi sono ritrovato a essere ostaggio in pericolo di vita. Quell’arma puntata era silenziosa, ma sembrava poter parlare all’improvviso il suo canto di morte in mano a quel disperato.
“perdere il lavoro alla mia età è devastante… d’improvviso ti ritrovi in un mondo fatto di nemici che ti prendono la macchina… e poi la casa… e infine la dignità…” e mentre raccontava la sua storia, ogni mia goccia di sudore erano i miei pensieri fatti dei miei figli e di mia moglie e dei miei parenti e dei miei amici e dei miei collaboratori e del mondo intero.
“… ritrovarsi in mezzo alla strada con due bambini piccoli e non sapere come fare a sfamarli…”
Tremava la sua mano e davanti a me la canna della pistola pareva incerta se forarmi la tempia o in mezzo alla fronte. Non ricordo quanto tempo è passato, so solo che è stato sufficiente a sentirmi senza via d’uscita e a mettermi il cuore in pace. Vittima predestinata della vittima di un mondo ingiusto fatto di ingiusti.
“ho cercato e ricercato, ma nessuno voleva prendermi a lavorare… e i miei figli in quella colonica diroccata dispersa tra monti a aspettare che portassi loro da mangiare… piangevano, ieri sera, piangevano… io non sapevo cosa fare… c’è una grande confusione dentro di me…”
La disperazione non ha logica da seguire, solo una strada senza cartelli e avvertimenti. Mi sentivo morto, ma era la sensazione più sbagliata che avessi avuto nella mia vita. Mi porse la pistola e chiese scusa travolto da un pianto a dirotto.
Adesso lo guardo prendere nota delle scatole di tonno sullo scaffale.
Arrivarono a dire che nella mia testa c’era una grande confusione quando decisi di non fare denuncia e di chiedere alle autorità di prenderlo a lavorare nel mio piccolo supermercato. Ancora di più quando decisi di metterlo caporeparto, visto che capaci e onesti come lui ero certo di non averne mai trovati.
Mi guarda e rispondo al suo sorriso con una smorfia di soddisfazione.
Penso che in fin dei conti la confusione ci sia davvero, ma nel mondo, tra gli uomini.

Mani (favola)

Non era proprio il massimo.
Avere le narici più piccole delle proprie dita, intendo.
Giacomino al posto delle mani aveva due pale da pizzaiolo, due vanghe da mezzadro, due picconi da minatore.
Aveva delle dita grosse come le viti di un traliccio dell’alta tensione, dal pollice al mignolo il diametro non scendeva sotto i tre centimetri. Non avrebbe mai potuto fare il sarto a meno che un fabbro non gli avesse costruito un ditale su misura.
Ma Giacomino non aveva solo il nome, di piccolo: aveva un nasino di fata.
Un naso bellino bellino, tutto all’insù che era stato preso a demo dai migliori (e anche peggiori) chirurghi plastici del mondo.
Beh, si potrebbe pensare che ne potesse essere orgoglioso, che potesse essere in definitiva una raffinata e elegante attrattiva per l’altro sesso.
In realtà, Giacomino, era un uomo tristissimo.
Aveva un desiderio che sembrava irrealizzabile: scaccolarsi.
Le sue dita non potevano penetrare le narici, erano così grosse che spesso, nel tentare di metterci anche il solo mignolo, rischiava di strapparle.
Il soffiarsi il naso non gli rendeva giustizia e la sofferenza si faceva ogni giorno più grande.
Poi come in quel miracolo naturale dell’alba che sostituisce la notte, a Giacomino si presentò la rinascita.
Aveva la forma di una graziosissima signorina di nome Susanna, il cui nome porterebbe a una rima che tradirebbe sul suo carattere. In effetti era una ragazza introversa e timida, molto carina, intelligente, ricca e raffinata. Cioè, su quest’ultimo aggettivo sorvolerei, visto il seguito.
Fatto sta che Susanna prese una sbandata per Giacomino che sembrava una di quelle di Raikkonen dopo la solita birra durante i Gran Premi. Per essere esatti, si innamorò follemente delle sue mani.
Palmi grossi e ruvidi da sembrare un disco di carta vetrata, dita enormi e gesti grossolani le fecero capire le qualità di massaggi di cui fossero capaci.
Gli occhi di Susanna lacrimavano al solo pensiero del piacere che potevano regalarle le mani di Giacomino, lo stesso suo corpo si sentiva calamitato da quelle dita di dimensioni mitologiche.
Giacomino non era né sordo, né cieco.
Si può pensare che si fosse accorto dello sbavare leggero di quella gentil donzella.
In realtà lui guardava ben altro.
Le finissime, esili, lunghe dita di Susanna.
Fu una rivelazione, una gioia, la possibile fine di un dolore.
Le uniche mani che possedevano falangi su misura per le sue narici.
Giacomino le raccontò la sua triste storia.
Susanna gli confessò i suoi desideri.
Capirono di essere fatti l’uno per l’altra. E senza spiegare cosa facessero nell’intimità, che forse è meglio, è bello sapere che vissero felici e contenti.

Roccia

Giunto quasi alla vetta del colle si fermò davanti a un lastrone di roccia. Sudato intinto e con le gocce che gli entravano negli occhi provocando un bruciore che lo faceva smadonnare come un minatore inglese, se li stropicciò per vedere meglio quella superficie in pietra serena. Roccia giusta, esclamò a se stesso con una voce disfatta dalla fatica tanto da renderla in falsetto. Poi, girandosi, si accorse dello splendido panorama che su cui si affacciava quella parete liscia e verdastra. Sì, sì, è perfetta, pensò tornando verso casa.

Il giorno dopo, si fermò quattro volte a riposarsi prima di arrivare in vetta. Carico di uno scaleo, martello, scalpello, sedici panini e tre bottiglie d’acqua aveva faticato come una mondina all’inizio del ‘900 per arrivare davanti alla roccia con tutta quella roba. Non so quando torno, aveva detto a sua mamma e in effetti poteva essere necessario un giorno come tre per portare a termine il suo progetto.

Aprì lo scaleo e salì tutti i gradini per vedere dove poteva arrivare a lavorare. Perfetto, proprio dove voleva. Iniziò a scalpellare con forza. Tirava delle martellate terrificanti, come avesse timore che la roccia non si facesse colpire. Per questo partivano continuamente delle schegge che lo colpirono dappertutto: naso, mani, petto, braccia, facendo graffi e tagli che alla fine dell’opera lo ridussero in una poltiglia sanguinolenta.

A metà del secondo giorno scese giù dallo scaleo e guardò la parete di pietra serena. Restò soddisfatto e ritenne completata  la sua opera. Si mise in ginocchio e, senza pregare qualcuno in particolare, ringraziò.

Prese scaleo, martello e tutto il resto per incamminarsi verso casa.

Giunto da sua madre, che ogni volta lo vedeva scuoteva la testa, rimase due giorni a letto soprattutto per curarsi tutte le ferite che lo avevano quasi sfigurato.

Poi si alzò e andò a cercarla.

Dopo averla trovata, la prese per mano e le disse devi venire con me.

Lei che lo avrebbe seguito ovunque non sentì la minima fatica per arrivare alla roccia.

Ecco il mio regalo per te, le disse mostrandole la scultura.

Volevo che il mondo vedesse il tuo viso, per sempre.

Lei restò affascinata, lo baciò e gli disse ti amo.

Tornarono tenendosi per mano e a lei non passò neppure per la testa di dirgli che la scultura era una schifezza così terrificante che un bambino di sei anni sarebbe stato più bravo e che aveva deturpato per sempre quella bellissima lastra di pietra serena.

No, non glielo avrebbe mai detto.

Ciò che contò fu il pensiero.

Ingranaggio

Giovanni ha tredici anni. Erano le sedici del pomeriggio, ma come spesso accade, anziché studiare passò dalla fabbrica dove lavora suo padre.
Una filatura, dove una serie di macchinari trasformano la materia prima in filato.
Giovanni, ogni volta che ci va, osserva affascinato tutto quel muoversi meccanico così perfettamente allineato a produrre quel filo che si farà tessuto.
Quella volta però c’era qualcosa strano. La filanda era ferma e suo babbo era disteso a terra nella zona motore. Tirava dei moccoli che non li saltava un cavallo. Quando vide Giovanni avvicinarsi, smise di bestemmiare e lo salutò imbarazzato: “Ciao, Gio… studiare niente neanche oggi?”
“Più tardi…” rispose il ragazzo. “Che succede?” domandò incuriosito e preoccupato.
Il padre aveva sempre pensato di parlare al figlio senza tanti fronzoli e anche quella volta fu a quel modo: “Si sono spezzati i fili per due volte. Ogni volta, per riattarcarli e far ripartire la filanda, ci vuole mezzora e non ce lo possiamo permettere…”
Giovanni lo ascoltava e comprese che doveva essere una cosa difficile da risolvere. In silenzio si mise da una parte seduto su una cassa di legno vuota. Gli si avvicinò Lucio, un operaio collega di suo padre, dicendogli: “ Il nostro capo (tuo babbo) risolverà facilmente il problema.”
Un’ora dopo tutto si era aggiustato, per la soddisfazione di tutti e di Giovanni. Suo babbo gli si avvicinò, sedendosi anche lui sulla cassa.
“Come hai fatto, babbo?”
“A risolvere il problema?”
“Sì…”
“Amore mio, ricordati questo: ogni cosa che vedi qui dentro si muove grazie ad ingranaggi che da soli non sono niente, ma tutti insieme fanno girare il mondo.”
“Non capisco, babbo…”
“Un ingranaggio sbagliato nel posto sbagliato dava troppa velocità alla filanda e il risultato è stato i fili che si rompono… è bastato mettere quello giusto nel posto giusto e il problema non è più esistito.”
Giovanni strizzava gli occhi per arrivare a comprendere, poi la luce nei suoi occhi svelò al padre che aveva capito il problema e la sua soluzione.
Il padre lo osservò per un po’ poi gli disse:”Giovanni, ricorda che anche noi, io, tu, siamo gli ingranaggi di tutto ciò che ci sta intorno. Se non siamo quelli giusti, niente si muoverà come deve…”
Giovanni silenziosamente rifletté e poi disse: “In quel caso ci sarai tu a riparare il problema?”
Suo padre sorrise:”E tu cosa ci fai qui, altrimenti?”

Pozzo

Quando la mano agguantò il bambino per il colletto della camicia, iniziò una sceneggiata composta di strilla isteriche, urla terrificanti e una sculacciata che sapeva di mitologico.

Il piccolo, alto un metro e otto centimetri per anni quattro, vestito con un paio di pantaloncini corti blu di cotone e una camicina bianca tutta bellina, in quel momento guardava senza capire. Per essere più precisi usava gli occhi per guardare e tutto il resto del corpo per scansare le tremende manate della mamma.

E non capiva.

Era lì sul bordo del pozzo, incuriosito di quel buco scuro e profondo e siccome a differenza di molti più vecchi di lui cominciava a vederci bene, si divertiva a vedersi riflesso su un tondino lontano che senza saperlo era acqua. Si stava persino salutando con la manina quando una ben più grossa ha fatto quello che sappiamo.

La mamma gridava come un’ossessa e il piccolo, che a ogni schiaffo nel viso smuoveva teneramente quei pochi capelli che aveva, non capiva. Non il comportamento, proprio non capiva cosa diceva. Già era nato analfabeta e privo di capacità oratoria, se poi chi dovrebbe comunicare con lui erutta urla come il Krakatoa quando è gonfio di lava, è comprensibile l’incomprensione.

Il peggio arrivò col peggio: il babbo. Lo prese da una parte, cianotico e senza misura, sbraitava con tono duro e con un dito della mano destra che agitava in su e in giù. Il bambino voleva chiedere cosa stava accadendo, ma non potendolo fare iniziò a piangere. Più che altro perché stava prendendo degli scapaccioni da wrestling professionistico. Quando tutto parve finire, la mamma e il babbo all’unisono fecero la domanda: “Hai capito?”

 

Guardo il pozzo.

Mi ci avvicino piano e nel farlo ogni immagine si fa meno fumosa. A quattro anni siamo piccoli, molto piccoli, siamo noi stessi pozzi vuoti da colmare di acqua…  (accidenti, poetico a bestia!)

Appoggio le mani sul bordo e mi sporgo verso il suo interno.

“Ci sono emozioni solo nostre, che non si possono spiegare, come il brivido che mi percorre nel guardarmi riflesso nel cerchio d’acqua.

Potevo morire, ma io allora non l’ho mica capito. Per tanto tempo non ho capito quanto potesse essere pericoloso il bello.”

Mi giro a guardarla. Beh, non ha proprio l’età che avevo io allora, ma per un babbo i figli non crescono mai. Lei sembra aspettare una mia parola.

“Sai perché ti dico queste cose? No? Neanch’io.

Ma fai quello che ti senti senza dimenticare una cosa: stai un pochino attenta, è un mondo pericoloso questo.”

Le criti’he cinematogra* de’ Torracchi: Bleid Ranner dumilaquarantanove

La mi’ bimba che la fa un corso universitario sullo spetta’olo, di cui un so dire nemmeno i’titolo, l’ha m’ha specificato la differenza tra criti’he e recensioni: in particolare, le prime son soggettive, le seconde oggettive… unn’ho capito che la volesse intendere, ma siccome dico icchè mi pare dice che quelle che scrivo son le prime.
Allora, prima cosa bisogna aver culo di trovare una poltrona giusta, che ierisera mi son ciucciato il filme con uno di fianco che a ogni scena un po’ d’effetto gl’urlava emozionato come fosse stato all’apice de’ piacere con Romilda, la bionda de’ viale subito fuori da’ i’cine. In seconda battuta, quando si va allo spetta’olo delle ventitre, si deve ave’ preso trentadue caffè se un si vòl russare come la mi’ signora, lei seduta all’altro fianco.
Detto questo, parliamo de’ filme.
Allora, ne’ dumilaquarantanove c’ho novant’anni e quindi m’importa una sega, ma se i’mondo fosse come nel filme son cazzi duri per i giovani e se parlo fino è perché voglio limitammi nelle espressioni.
Di certo, come dice sempre la Milena senza che sappiate chi sia, di certo le tennologie usate pe’fare i’filme son talmente avanzate che arrivano prime sempre. Detta la cazzata della giornata, si può affermare che in effetti il regista dimostra di essere un visionario capace di riportare in immagini le sue fantasie, aiutato da una colonna sonora emozionante e avvolgente. Questo fa sì che si eviti l’esecuzione sul posto degli sceneggiatori che hanno scritto una storia dove non ci s’intende una mazza, che passa da chissà quale miracolo a replicanti che paiono òmini e viceversa senza farci intendere il vero, accident’a loro e la maiala di su ma’!
Gli attori son ganzi, ma la cosa meglio l’è una macchinetta con cui si crea una compagna virtuale bòna assaettata, che tu l’accendi quando n’hai voglia. Vuoi mettere?!?
Se il buon Villeneuve mi dicesse la marca, farebbe il su’ dovere.
Insomma, gl’è un filme da vedere.
(*: m’hanno detto che fiche un si scrive, gl’è grezzo)

Q.I.

Come uomo a me avrebbe fatto un po’ senso.
Tutto sderenato, capelli ritti e spettinati, pantaloni strappati, ma non alla moda, strappati e basta, avea delle maglie sudice da fare schifo, lavarsi sì, ogni tanto lo faceva, ma per lamordiddio non ti ci potevi avvicinare d’estate altrimenti tu rischiavi un embolo polmonare.
Di viso però era proprio bello, il problema è che non pensava per niente a se stesso.
Non faceva altro che aiutare gli altri.
L’Anna l’avea conosciuto per caso un giorno che per l’appunto s’era lavato e era rimasta folgorata da quel bendiddio di ragazzo. Mai visto niente di così affascinante: un naso perfetto orlato da due occhi scurissimi di quelli dove poeticamente si annega, du’ labbra da baciarle a tutte l’ore (pensieri dell’Anna, a scanso d’equivoci), capelli neri lunghi e sciolti al vento di primavera (ancora non puzzava).
Insomma arrivarono a copulare il giorno stesso.
Fatto sta che l’Anna cominciò a conoscerlo veramente solo il giorno dopo.
S’accorse ch’era un po’ strano.
Insomma, strano, si fa per dire… ecco, come spiegare?, lui era felice solo se faceva qualcosa per gli altri.
Vedeva una vecchina che non ce la faceva ad attraversare la strada e lui la aiutava. Beh, questo lo avrei fatto anch’io.
Vedeva un invalido fermo impotente davanti ad un marciapiede e lui lo aiutava a superare l’ostacolo. E anche questo l’avrei fatto anch’io.
Quello che non farei è aiutare dei facchini che stanno facendo tranquillamente il loro lavoro. Li vedeva sudare e allora lui, impietosito, li faceva sedere da una parte e da solo portava al quinto piano armadi da nove ante, cucine di sei metri lineari, migliaia di sedie e poltrone, decine di comò da tre quintali l’uno.
Altri casi frequenti: quando passava davanti a cantieri edili, vedendo quei poveri manovali si inteneriva e, mentre gli operai andavano in ferie alle Maldive, lui scaricava tonnellate di mattoni e costruiva da solo palazzi di dodici piani.
Oppure idraulici segaligni salvati dal suo soccorso e sostituiti nel trasporto di termosifoni da dodici elementi e vasche da bagno in acciaio spesso dodici millimetri.
Per non parlare degli asfaltatori, che lavorano solo d’estate e vi potete immaginare quanto gli sono grati per aver asfaltato al loro posto sedici caselli dell’autostrada.
Era un buono, un Supereroe dei nostri tempi, da noi si direbbe bischero, ma che vuol dire? Un’anima straordinaria.
Ma c’era un segreto che incuriosiva tutti e che lui non aveva mai svelato: portava sempre delle magliette con due iniziali, Q. I.
Vedendo ciò che faceva tutti avevano scartato a priori che volesse dire Quoziente d’Intelligenza.
Allora, quale poteva essere il significato di quelle due lettere?
Nessuno lo seppe mai, escluso io.
Avendolo creato non poteva certo rifiutarsi di dirmelo.
“Quore Imbranato” mi confessò.
“Ehhh???” è stata la mia prima reazione.
“Tu, sei più scemo di me, pur avendomi creato. Me l’ha detto Anna quando mi lasciò. Mi disse che ero un uomo bellissimo e pieno di bei valori. Ma vivevo fuori da questo mondo e non poteva continuare a vivere con me.”
“E allora?”
“Hai un meraviglioso Quore Imbranato, mi disse. Ho pianto per giorni, ma quelle due parole mi son rimaste qui” disse indicando il petto.
“Guarda che cuore si scrive con la C!”
“’?!?… sei sicuro? Con la C???… No, no, ti sbagli, nel mio mondo si scrive con la Q! Nel mio mondo si scrive con la Q!” mi ripeté emozionato.
Lo guardai con simpatia, comunque a distanza d’odorato.
“Ora, scusami, ma ho da fare. Guarda quel povero pavimentatore! Come suda! Tutto piegato a terra! Ehi tu, fermati un attimo, ti aiuto io…”