Ivan Ivanovic non è un comunista. Almeno credo, a meno che anche tra i gatti non vada di moda la politica. Non lo sono neppure io, ma mi piaceva dargli un nome di contrasto. Qualcosa di diverso che facesse sgranare gli occhi a chi non si fa i cazzi suoi chiedendo “come si chiama?”. L’unica cosa che potrebbe collegare lui al nome è il fatto che sia di pelo rosso, di quella tonalità che d’istinto ti porta a alzare il pugno sinistro in alto.
Ripensandoci non ho chiesto al diretto interessato cosa ne pensava del nome, ma non credo mi avrebbe risposto. No, non perché non parla la nostra lingua, è proprio che non gliene frega una mazza di niente. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa dica, ovunque si vada, lui è di un indolente tale da far incazzare chiunque, escluso me. Perché io lo amo, Ivan Ivanovic: rappresenta il mio desiderio di come essere, superiore a qualunque accadimento, che siano terremoti, tsunami, fallimenti, incidenti, separazioni, tradimenti etc etc. Gli entrano da una parte e gli escono dall’altra e lo dimostra stando sempre sdraiato come un messicano durante la siesta, alzandosi solo per mangiare, bere e di conseguenza riempire la lettiera.
In fin dei conti vorrei davvero somigliargli.
Poi, quando mi sono presentato a “The Voice” con la chitarra elettrica e Ivan Ivanovic è accaduto l’impensabile. Vabbè, ho una bella voce, una grinta spettacolare da rocchettaro e un gatto che mi segue fisso. Ivan Ivanovic, appunto. Che sta fermo ai miei piedi, senza muoversi di un millimetro, mentre mi agito come un deficiente e suono pezzi dei Black Sabbath.
Durante le feste o nei pub scrosciavano gli applausi, ormai adoravano me e il mio gatto, eravamo uno spettacolo unico e allora avevo deciso di provare a presentarmi a “The Voice”, chissà mai se…
Quando mi hanno chiamato per il provino, ho cominciato a farmi dei film sul mio futuro che i Rolling Stones nei miei confronti erano da paragonare a Pupo.
Poi, come sempre accade, ciò che dà una svolta alla vita è il più inatteso degli avvenimenti.
Arrivato a Roma in macchina, fermandomi ad un semaforo rosso mi sono reso conto che sull’asfalto giaceva il corpo di un gattino, probabilmente colpito da un’auto che transitava. Mi ha fatto una tenerezza terribile (è un ossimoro, lo so, apposta…) e allora ho accostato la vettura e mi sono fermato. Sono sceso, ne ho preso il corpo e l’ho sotterrato in un terreno adiacente la strada. Quando sono rimontato mi sono accorto dello sguardo di Ivan Ivanovic.
Sono cose che accadono, vecchio mio, gli ho detto e siamo ripartiti. Ma Ivan Ivanovic non ha mai smesso di guardarmi e vi dirò che mi pareva avesse gli occhi lucidi.
The Voice.
Una emozione incredibile, superata d’improvviso perché mi è sembrato che il gatto mi avesse fatto l’occhiolino. Un segno, ho pensato, e via al massimo. Con il pubblico in delirio, i quattro giudici si sono girati in contemporanea e hanno aperto gli occhi meravigliati.
Anch’io li avevo a quel modo: guardavo Ivan Ivanovic che su due zampe mi applaudiva.. Non chiedetemi come fosse possibile, credo che ritenesse quel gesto il giusto ringraziamento per ciò che avevo fatto al suo simile.
O forse gli piace proprio come canto e suono. Boh…
Non ho vinto e Ivan Ivanovic ha disegnato la pelle dei giudici con le unghie… un po’ di soddisfazione non fa mai male.
Giusto, Ivan Ivanovic?
Archivio mensile:ottobre 2017
Rabbia
Quando il bimbetto, tutto lercio per aver giocato col vestitino bòno della comunione dentro la mòta che s’era formata per l’acquazzone estivo, s’avvicinò all’uomo con la lunga tunica azzurra e con un cappello a punta anch’esso azzurro questi stava appoggiato a un albero e si stava chiaramente lamentando.
“Icchè t’hai?” chiese il bimbetto che era tutto fuorchè timido.
“Un ne posso più…”
“Tu mi sembri stanco!”
“Tu dici bene, giovincello… o come tu se’ bellino! Un po’ sudicio, ma bellino…”
“Ma icchè t’è successo?”
L’uomo lo guardò rendendosi conto che il piccolo un l’avea riconosciuto.
“Dimmi una cosa, ciccino, ma chi ti sembro, io?”
“Un mago… oh, un son mica deficiente!”
“Ah… ma un ti sorprende la cosa?”
“No davvero, di maghi son pieno fin qui (indicando dieci centimetri sopra la testa) con tutte le favole a bischero che mi raccontano da quando ho sei mesi, ma ora che ho otto anni dovrebbero cambiare genere, a casa mia…”
“Un ti dò torto… però scommetto che un tu sai che io son specializzato!”
“Specializzato?”
“sì, c’ho un master in magia della rabbia…”
“Un cosa?”
“Ah, scusa, un puoi capire se parlo difficile… insomma sono specializzato a far scomparire la rabbia dalla gente. Non la malattia, ma l’isteria e l’arrabbiature delle persone.”
“Ganzo! E come mai tu se’ tutto stravolto?”
“l’è stata una giornata terrificante, oggi un smettevo più d’agitare questa bacchetta…”
“Mi racconti qualcosa?”
“Tu se’ curioso, eh? Insomma ho cominciato alle sei di mattina a una rotonda per entrare sull’autostrada: una vecchina unn’ha dato la precedenza e c’è mancato un pelo si schiantasse contro un’Audi nòva di zecca; è uscito il proprietario e ha cominciato a offenderla come fosse stata una de’ viali. Son’arrivato io e con una bacchettata l’ho reso tranquillo che alla fine l’ha scortato la vecchietta fino a casa.”
“Ganzo!!! E poi? Dimmi, dimmi ancora…”
“in ordine di tempo:
- alla posta un vecchio s’è incazzato con un cinese che facendo finta di nulla è passato avanti a tutti
- al supermercato una donnina s’è incavolata con quello della gastronomia che la voleva fregare sul peso
- un extracomunitario urlava come un ossesso con un suo conterraneo per la mancata consegna di roba strana che unn’ho capito icchè fosse
- un ragazzo tutto bellino che tirava cazzotti a un muro perché era stato lasciato dalla su’ ragazza
- un cinquantenne tirava delle madonne che un le saltava un cavallo perché un su’ amico gli aveva dato cinquanta euro falsi
- una mamma tirava col battipanni al figliolo reo d’essere stato su internet a vedere roba che un posso dirti
- un prete… “
“Aspetta mago, aspetta un attimo…”
“O chi urla in questo modo?”
“L’è la mi’ mamma… l’è un po’ imbufalita per via del fango sulla camicia bianca…”
“Un po’??? senti come la sbraita!”
“Per favore, maghino mio, ce la fai a usare ancora la bacchetta??? La mi’ mamma la n’ha bisogno…”
“Tu dici? Vabbè, ci provo… (Se un vò a letto veloce, mòio…)”
Un lampo partì dalla bacchetta e la mamma guardando sorridente il bimbetto gli chiese “O come t’hai fatto a conciarti in codesto modo???”
Il bimbetto terrorizzato le rispose: “in quelle tre o quattro pozze…”
“Ganzissimo!!!” e detto questo si sbatacchiò nelle pozze anche lei col vestito di raso rosa.
Il bimbetto, inarcando gli occhi, guardò il mago che sorrideva.
“Ma icchè tu le hai fatto?”
“Niente di che… insomma, a volte basta far tornare bambini…”
“E le altre volte?”
“Nelle altre occasioni fermo il mondo, creo il silenzio, lancio profumi, disegno sorrisi, diffondo musica allegra, faccio sentire sciocchi. Tutto in una volta sola.”
“Ganzo! Lo fai anche a me?”
“Ancora un tu n’hai bisogno, ciccino… Ora fammi andare a letto che di questi tempi fò un monte di straordinari!!!”
IL VECCHIO E IL TONNO (Brevissimo racconto liberamente, ma molto liberamente, tratto dal racconto quasi omonimo di Eminguei)
Vagava lentamente con lo sguardo perso lungo i corridoi della vita, o almeno ne avevano l’aspetto.
Si voltava continuamente a destra e a sinistra, mostrando una incertezza che il suo sguardo, al contrario, nascondeva dietro una spessa patina di saggezza.
La sua era un’età non valutabile, poteva avere mille anni e forse era proprio così.
Lo guardavo con tenerezza e osservavo che molti non gli si avvicinavano, come se fosse stato qualcuno da evitare.
O forse, più semplicemente, era come invisibile, un essere incorporeo e privo d’interesse.
Come spesso mi accade con certi personaggi, me lo sono trovato molto vicino e ho incrociato il suo sguardo.
Aveva gli occhi azzurri come il mare e le palpebre disegnavano un passato decisamente triste.
Ho provato subito una grande simpatia per il vecchio, ma mi sono badato bene di dirgli qualcosa.
Ci ha pensato lui.
“Scusi (mi ha dato del lei…), sa dov’è il tonno?”
Ho sorriso.
C’era un ettaro di supermercato attorno, ma il tonno era proprio lì davanti a noi.
“E’ in quello scaffale, gli ho risposto indicandoglielo, ed è anche in offerta…”
Ho subito notato il cambio dello sguardo, mortificato per una figura, secondo il suo modo di vedere, non proprio intelligente.
“Mi scusi, ma è la prima volta che vengo a fare la spesa…”
Troppo carino. A me gli anziani che fanno così danno proprio gioia.
“Non si preoccupi, fare la spesa è bello e poi, una volta o l’altra si deve pur cominciare…” e ridevo per rallegrarlo.
Il vecchio mi ha guardato.
Ci sono tempi che hanno un volume dal sapore d’infinito anche se hanno una durata infinitesimale.
Uno di questi è stato certo quei tre secondi tra il mio discorso e il suo successivo.
Tre secondi colorati dal nero di un ricordo non richiesto.
“Avrei voluto non dover mai cominciare…” mentre lacrime dolorose si stampavano sulle sue iridi.
Mi sarei voluto sotterrare.
“Ho capito, mi scusi… davvero, mi scusi…”
“E’ successo venti giorni fa…” ha detto traballando con una visibile voglia di sciogliersi come acqua sul quel pavimento.
E senza che fossero proferite altre parole, ho visto allontanarsi il vecchio e il tonno.
Confusione
“C’è una grande confusione dentro di me…”
Lo diceva piangendo mentre teneva puntata la pistola alla mia testa e me la stavo facendo sotto per il terrore che stavo provando. Ho sempre temuto di poter essere vittima di una rapina, ma tra il dire e l’accadere mi sono reso conto che c’è una gran bella differenza. Mi sono ritrovato a essere ostaggio in pericolo di vita. Quell’arma puntata era silenziosa, ma sembrava poter parlare all’improvviso il suo canto di morte in mano a quel disperato.
“perdere il lavoro alla mia età è devastante… d’improvviso ti ritrovi in un mondo fatto di nemici che ti prendono la macchina… e poi la casa… e infine la dignità…” e mentre raccontava la sua storia, ogni mia goccia di sudore erano i miei pensieri fatti dei miei figli e di mia moglie e dei miei parenti e dei miei amici e dei miei collaboratori e del mondo intero.
“… ritrovarsi in mezzo alla strada con due bambini piccoli e non sapere come fare a sfamarli…”
Tremava la sua mano e davanti a me la canna della pistola pareva incerta se forarmi la tempia o in mezzo alla fronte. Non ricordo quanto tempo è passato, so solo che è stato sufficiente a sentirmi senza via d’uscita e a mettermi il cuore in pace. Vittima predestinata della vittima di un mondo ingiusto fatto di ingiusti.
“ho cercato e ricercato, ma nessuno voleva prendermi a lavorare… e i miei figli in quella colonica diroccata dispersa tra monti a aspettare che portassi loro da mangiare… piangevano, ieri sera, piangevano… io non sapevo cosa fare… c’è una grande confusione dentro di me…”
La disperazione non ha logica da seguire, solo una strada senza cartelli e avvertimenti. Mi sentivo morto, ma era la sensazione più sbagliata che avessi avuto nella mia vita. Mi porse la pistola e chiese scusa travolto da un pianto a dirotto.
Adesso lo guardo prendere nota delle scatole di tonno sullo scaffale.
Arrivarono a dire che nella mia testa c’era una grande confusione quando decisi di non fare denuncia e di chiedere alle autorità di prenderlo a lavorare nel mio piccolo supermercato. Ancora di più quando decisi di metterlo caporeparto, visto che capaci e onesti come lui ero certo di non averne mai trovati.
Mi guarda e rispondo al suo sorriso con una smorfia di soddisfazione.
Penso che in fin dei conti la confusione ci sia davvero, ma nel mondo, tra gli uomini.
Mani (favola)
Roccia
Giunto quasi alla vetta del colle si fermò davanti a un lastrone di roccia. Sudato intinto e con le gocce che gli entravano negli occhi provocando un bruciore che lo faceva smadonnare come un minatore inglese, se li stropicciò per vedere meglio quella superficie in pietra serena. Roccia giusta, esclamò a se stesso con una voce disfatta dalla fatica tanto da renderla in falsetto. Poi, girandosi, si accorse dello splendido panorama che su cui si affacciava quella parete liscia e verdastra. Sì, sì, è perfetta, pensò tornando verso casa.
Il giorno dopo, si fermò quattro volte a riposarsi prima di arrivare in vetta. Carico di uno scaleo, martello, scalpello, sedici panini e tre bottiglie d’acqua aveva faticato come una mondina all’inizio del ‘900 per arrivare davanti alla roccia con tutta quella roba. Non so quando torno, aveva detto a sua mamma e in effetti poteva essere necessario un giorno come tre per portare a termine il suo progetto.
Aprì lo scaleo e salì tutti i gradini per vedere dove poteva arrivare a lavorare. Perfetto, proprio dove voleva. Iniziò a scalpellare con forza. Tirava delle martellate terrificanti, come avesse timore che la roccia non si facesse colpire. Per questo partivano continuamente delle schegge che lo colpirono dappertutto: naso, mani, petto, braccia, facendo graffi e tagli che alla fine dell’opera lo ridussero in una poltiglia sanguinolenta.
A metà del secondo giorno scese giù dallo scaleo e guardò la parete di pietra serena. Restò soddisfatto e ritenne completata la sua opera. Si mise in ginocchio e, senza pregare qualcuno in particolare, ringraziò.
Prese scaleo, martello e tutto il resto per incamminarsi verso casa.
Giunto da sua madre, che ogni volta lo vedeva scuoteva la testa, rimase due giorni a letto soprattutto per curarsi tutte le ferite che lo avevano quasi sfigurato.
Poi si alzò e andò a cercarla.
Dopo averla trovata, la prese per mano e le disse devi venire con me.
Lei che lo avrebbe seguito ovunque non sentì la minima fatica per arrivare alla roccia.
Ecco il mio regalo per te, le disse mostrandole la scultura.
Volevo che il mondo vedesse il tuo viso, per sempre.
Lei restò affascinata, lo baciò e gli disse ti amo.
Tornarono tenendosi per mano e a lei non passò neppure per la testa di dirgli che la scultura era una schifezza così terrificante che un bambino di sei anni sarebbe stato più bravo e che aveva deturpato per sempre quella bellissima lastra di pietra serena.
No, non glielo avrebbe mai detto.
Ciò che contò fu il pensiero.
Ingranaggio
Pozzo
Quando la mano agguantò il bambino per il colletto della camicia, iniziò una sceneggiata composta di strilla isteriche, urla terrificanti e una sculacciata che sapeva di mitologico.
Il piccolo, alto un metro e otto centimetri per anni quattro, vestito con un paio di pantaloncini corti blu di cotone e una camicina bianca tutta bellina, in quel momento guardava senza capire. Per essere più precisi usava gli occhi per guardare e tutto il resto del corpo per scansare le tremende manate della mamma.
E non capiva.
Era lì sul bordo del pozzo, incuriosito di quel buco scuro e profondo e siccome a differenza di molti più vecchi di lui cominciava a vederci bene, si divertiva a vedersi riflesso su un tondino lontano che senza saperlo era acqua. Si stava persino salutando con la manina quando una ben più grossa ha fatto quello che sappiamo.
La mamma gridava come un’ossessa e il piccolo, che a ogni schiaffo nel viso smuoveva teneramente quei pochi capelli che aveva, non capiva. Non il comportamento, proprio non capiva cosa diceva. Già era nato analfabeta e privo di capacità oratoria, se poi chi dovrebbe comunicare con lui erutta urla come il Krakatoa quando è gonfio di lava, è comprensibile l’incomprensione.
Il peggio arrivò col peggio: il babbo. Lo prese da una parte, cianotico e senza misura, sbraitava con tono duro e con un dito della mano destra che agitava in su e in giù. Il bambino voleva chiedere cosa stava accadendo, ma non potendolo fare iniziò a piangere. Più che altro perché stava prendendo degli scapaccioni da wrestling professionistico. Quando tutto parve finire, la mamma e il babbo all’unisono fecero la domanda: “Hai capito?”
Guardo il pozzo.
Mi ci avvicino piano e nel farlo ogni immagine si fa meno fumosa. A quattro anni siamo piccoli, molto piccoli, siamo noi stessi pozzi vuoti da colmare di acqua… (accidenti, poetico a bestia!)
Appoggio le mani sul bordo e mi sporgo verso il suo interno.
“Ci sono emozioni solo nostre, che non si possono spiegare, come il brivido che mi percorre nel guardarmi riflesso nel cerchio d’acqua.
Potevo morire, ma io allora non l’ho mica capito. Per tanto tempo non ho capito quanto potesse essere pericoloso il bello.”
Mi giro a guardarla. Beh, non ha proprio l’età che avevo io allora, ma per un babbo i figli non crescono mai. Lei sembra aspettare una mia parola.
“Sai perché ti dico queste cose? No? Neanch’io.
Ma fai quello che ti senti senza dimenticare una cosa: stai un pochino attenta, è un mondo pericoloso questo.”