Trasparente

Fu quando sentii di una finestra che lasciò un vetro dicendogli che era troppo fragile e fuggendo con uno antiproiettile che compresi di avere il suo stesso destino e che in fondo mi sentivo come lui.

Trasparente.

Assolutamente trasparente.

Non mi cacava nessuno, come se non esistessi, una entità eterea e neppure se stavo sei mesi senza lavarmi pareva si accorgessero di me.

Quando nacqui e uscii dal ventre di mia madre urlando gioiosamente come ogni bambino sano che viene al mondo il chirurgo fece l’errore di appoggiarmi su un tavolino a destra di mia madre e per tre ore non riuscirono a trovarmi.

Avevo tre fratelli, ma ognuno di loro ne aveva due non ricordandosi di me.

Ho passato ore e ore agli aeroporti e alle stazioni a aspettare che i miei si rendessero conto che non ero con loro.

E la scuola mica meglio. Facevo le interrogazioni 40 minuti prima degli scrutini quando tutti, e dico tutti, i professori si guardavano e gridavano “cazzo non lo abbiamo interrogato!!!”. Però se non altro mi allenai alla grande per l’esame di maturità con tutte le materie.

Da un po’ ho trovato lavoro. È lui che non trova me. Al mio turno, si guasta sempre la macchinetta dove passo la tessera d’entrata e sembra che non sia mai in azienda. Si guasta anche all’uscita, specie dopo tre ore di straordinari che non vengono ovviamente riconosciuti.

Trasparente.

Ultimo punto dolente le donne.

Lì assumo proprietà di trasparenza che neppure Mastro Lindo riesce a farle uguali.

Nessuna donna mi guarda né mi ha mai guardato. Ho provato con i siti internet, ma la prima volta che riuscii a prendere un appuntamento con una bella ragazza, fissammo in una piazza del centro. Mentre l’aspettavo mi si avvicinò un barbone lercio e puzzolente a chiedere uno spicciolo. Lei arrivò in quel momento e io sorrisi. Mi considerò meno di zero e rivolgendosi al barbone gli disse: “Pensavo meglio… ormai facciamo passare la serata, ok?” e sene andò con quella schifezza d’uomo che non capiva una mazza di quel che accadeva.

Trasparente.

Come quel vetro.

Poi, non si capisce come, la vita prende una piega diversa perché comunque c’è sempre un motivo di esserci.

Adesso sono una specie di eroe. Uno che continua a non essere visto, ma almeno ricordato.

Mia madre, che ha sempre sofferto per questa mia caratteristica, conobbe un uomo che lavorava nei servizi segreti ed era uno che a differenza mia, così disse mia madre e ho qualche sospetto, sivedevaeccomesesivedeva!(tutto attaccato rende di più)

Saputo di questa mia sfortunata dote, volle conoscermi e rimase lui stesso sconvolto quando si accorse di me solo dopo un quarto d’ora che mi ero messo davanti a lui.

Quasi gli venne da piangere. Non ci crederete, di gioia.

Insomma per farla breve sono già stato in più di una quindicina di stati per  azioni militari segrete.

Mi infiltravo tra le linee nemiche senza problemi, anzi,questi mi cacavano ancora meno e ho evitato lanci di razzi, teste tagliate,attentati dinamitardi e altre cose del genere.

Come dicevo, sono una specie di eroe.

E adesso mi cercano anche le donne… insomma… diciamo che accade come con quella che mi ha telefonato dieci minuti fa per dirmi che si è accorta solo ora di aver provato tantissimo piacere a letto con me… quattro giorni fa…

Rondine

 

È vero che una rondine non fa primavera, sono convinto soprattutto che lei stessa ne sia convinta. Me la sono trovata sul terrazzo tutta stordita e mezza congelata in un giorno a cavallo tra l’autunno e l’inverno. Una sperduta nelle stagioni di mezzo, l’ho battezzata così pensando che tanto non ce l’avrebbe fatta a superare questa dura prova. Invece il calore del mio termosifone ha preso la piega del miracolo, unasperdutanellestagionidimezzo si è ripresa e ho dovuto abbreviare il nome in Alèviola. D’altronde lo spregio è parte di me e chiamare a quel modo un essere bianco e nero, mi regala un piacere sublime.
Alèviola svolazza per la casa e se ne bada bene d’andarsene anche se le finestre sono aperte. Credo sia uno stupido senso di riconoscenza verso di me, ma lo stupido sono io a crederlo. Lei se ne andrebbe, ma a quanto pare deve prima fare una cosa.
Sono trascorsi ormai quattro mesi, Alèviola è ingrassata da fare schifo da come la riempio di cibo raffinato e manca solo che abbai al mio ritorno per far sì che venga considerata un animale domestico. Il 3 aprile la vedo posarsi sul bordo del terrazzo, voltata verso di me. Non passa tre minuti che arrivano una trentina di rondini, più secche di lei, ma bellissime. Si mettono una a fianco dell’altra come fossero su un cavo della corrente. Prima fanno silenzio assoluto, poi d’improvviso intonano l’inno della Fiorentina, cosa che a Alèviola avevo fatto sentire un milione di volte. Mi sono emozionato, voleva salutarmi con un regalo, devo dire che è stato il più bello della mia vita.
Poi le ho viste volare via e mi è dispiaciuto da morire.

Star Trek (da un punto di vista diverso)

Dal diario di bordo, data astrale 22 luglio 2959:

Capita che entrare a far parte dell’equipaggio di Star Trek possa essere ritenuta una fortuna per chi come me non aveva altra possibilità o scelta o voglia.
Essendo dotato di modesta cultura, fermandomi alla trentottesima laurea mentre il capitano Kirk era alla duecentoventesima, ho fatto l’esame e sono arrivato sesto in graduatoria come operatore ecologico e addetto alle pulizie e siccome ne prendevano sette sono stato assunto.
Ieri siamo passati rasente al buco nero di Osian e se si chiama a quel modo lo abbiamo capito in quel momento, avendo lui fatto una scoreggia cosmica vestita. Anniluce quadrati di diarrea ci hanno investito e quindi stamani sono stato all’esterno a pulire i vetri dell’Enterprise. Una faticaccia immane con quella tuta a bischero che mi riparava dal vuoto, sì, ma che faceva un freddo mi s’erano intirizziti tutti i peli del petto. Il fatto è che dopo aver lustrato l’oblò della cabina del Klingon catturato tre giorni fa, mi sono accorto che quella biondona della dottoressa Chapel si stava facendo il prigioniero urlando come una pazza. O meglio, da come faceva presumo urlasse, ma ero nel vuoto dell’universo e non sentivo una sega. Certo vi domanderete, come ho fatto io, su come facesse a andare con un mostro del genere, poi l’ho visto ignudo e ho smesso di farmi domande.
Ovviamente la prima cosa che ho fatto è fare la spia. Sono ito da Spok a cui, ascoltandomi, gli si sono rizzate le orecchie (che da quel momento sono rimaste a quel modo per sempre, a lui e tutti quelli della sua razza). Mentre raccontavo la scena sbavava come un cane sambernardo e nel guardarlo mi dicevo “alla faccia della mancanza di emozioni!”.
Sono le 15,30 o le 16,50 o le 22,33… insomma ho perso il conto, e sono stato convocato dal capitano Kirk.
Ho appena rigovernato dodicimila tra piatti e posate e ogni tanto mi auguro che qualche laser dei Borg ci frantumi questo cazzo di veicolo spaziale dimezzando l’equipaggio.
Mi sono dato una lavata veloce con uno scansionatore di pulito a fondo e mi sono messo la tuta da idraulico. Arrivato alla cabina pilotaggio mi ha aperto Uhura con quella tutina scosciata che fa capire l’origine del suo nome (Uhu! Ra), che mi ha invitato a andare al centro della sala comando dove il capitano Kirk mi ha parlato: “Maremma maiala come son ganzo! Son ganzissimo! Meglio di me un ce ne sono! Son fenomeno, the best, the only, the one!”
Ho cominciato a comprendere Borg e Klingon, starebbe sul cazzo a chiunque.
“Senti mezza sega, sottospecie di operaio, racconti anche a me quello che hai visto?”
L’ho guardato, mi son chinato a pulirgli una scarpa con della merda sopra, l’ho riguardato e gli ho detto della dottoressa e del Klingon.
“Ma come è potuto accadere??? Chiamate la dottoressa!!!”
E’ venuta e non aveva altra difesa che far vedere due o tre foto del klingon.
Kirk ha sgranato gli occhi e ci ha detto a tutti “Grazie, potete tornare tutti ai vostri compiti!”
Nel mentre uscivo per tornare a pelare otto quintali di patate, ho sentito Kirk dire “Stasera attaccheremo la Morte nera, la disintegriamo, prendiamo l’imperatore e lo facciamo accoppiare a Chubeca, perché noi di StarTrek siamo più ganzi di quelli di Star Wars!”

Colore

Non ricordo più i miei lineamenti. Come se avessi uno specchio davanti che riflette a volte bianco, a volte nero. Mai il mio viso. Questo cazzo di malattia degenerativa ha baciato i miei occhi in maniera così subdola che mi ha ricordato Lisa. Mi baciò sulle labbra in seconda media, facendomi sciogliere d’imbarazzo o di passione, che ancora devo capire cosa. Se non che venni a sapere che lo aveva fatto per scommessa, per smentire gli amici, certi che non lo avrebbe mai fatto con uno sciapo come me.

Eh, sì, una malattia bastarda che lentamente mi portò via una delle cose più belle che ci vengono donate della vita. In poco tempo non mi restò che vedere un campo bianco di giorno e nero la notte.

Non è facile accettare questo nuovo tipo di stato vitale, anzi, parliamoci chiaro, non l’ho proprio accettato. Al tempo stesso ho (sempre) pensato che esiste sempre un modo diverso. Diverso da cosa, non so, ma c’è.

Per me questa modalità di vista Juventus (bianco/nero) non era sopportabile. Mi sforzai di trovare una soluzione al problema.

Come sempre accade, è il caso la soluzione. Camminavo come mio solito, incazzato e senza meta tanto se casco in un burrone chissenefrega, con un lungo bastone bianco più utile a tirare fendenti che a evitare ostacoli, quando, chissà come e dove, mi resi conto di essere sotto un ponte montando sopra la caviglia di una donna. Sdraiata a terra, presumo fosse a dormire e lo presumo per le urla condite a accidenti che la gentil donna mi diresse per il dolore e il risveglio forzato. Certo anche il puzzo da assenza lavaggio faceva la sua per farmi capire che era una clochard. Urlava. Allora cominciai a urlare anche io, assai più forte maledicendo il mio male e l’assenza di vista. Quando smisi, ci fu silenzio, fino a che la clochard non disse: “Ah, bastava dirlo…”

“Cosa?’” domandai non capendo.

“Sai che i colori non sono negli occhi? Lo sai? Se non lo sai, imparalo.”

Prima che potessi chiedere cosa significasse, mi mandò a fare in culo e se ne andò.

Adesso sono passati due anni e so cosa volesse dire quella donna. Accade ogni volta che tocco qualcosa: essa prende un colore e io ne vedo la forma. Fortunato di aver conosciuto i colori, essi erano dentro di me e se anche gli occhi non funzionano, funziona la mia anima.

Vedo cose che la meraviglia si fa aggettivo insulso a descriverle e mi sono perfino innamorato. Lei è una donna che ha il rosso della passione oppure il blu degli oceani, il verde della ragione o il giallo della speranza. Mi basta toccarla con le mie mani per tuffarmi nell’arcobaleno del suo amore.

Tocco e vedo anche cose che prendono colori oscuri, così per ricordarmi che comunque la vita non sarà mai solo colori pastello. È anche vero che solo il brutto rende grande il bello.

Adesso sto carezzando Missile. È un gatto di colore nero. Per chi ci vede. Per me è azzurro e coccoloso.

I sette fratelli

C’era una volta uno strano gruppo di fratelli.

Primo perché nessuno aveva mai visto i loro genitori, secondo perché erano giganteschi.

Il più piccolo era alto 2 metri e 22, per farsi la casa avevano disboscato un ettaro di foresta ed avevano dei nomi terrificanti: Gomitolo, Caccolo, Mosciolo, Trogolo,  Intingolo, Fumolo e Zoccolo.

Si narra che il loro babbo dette quei nomi che finivano per olo dopo aver letto una fiaba che parlava di certi nani che non si sapeva bene cosa facessero. Dei nani!!!

Vabbuò, meno male che quei figlioloni non l’hanno trovato il loro babbo, altrimenti…

Ma parliamo di loro.

Gomitolo era il più grande, uno che a far le cose s’annodava sempre.

Caccolo ebbe fin da piccolo il problema delle dita di otto centimetri di diametro, che per infilarli nel naso dovette far pratica con cautela al fine d’allargare ben bene le narici.

Di Mosciolo è inutile parlarne, è una storia troppo triste, per lui.

Trogolo faceva dei pappumai in cucina da far senso.

Intingolo poteva essere preso a demo contro l’anoressia. Mangiava anche i tavoli.

Fumolo utilizzava piante che venivano dal pianeta proibito.

Zoccolo, a seconda delle interpretazioni, adorava i cavalli, era duro come un muro o intratteneva rapporti amorosi multipli.

Ma un giorno arrivò una tracagnotta di un metro e dieci  che piangendo disse “ Mi son persa” e Fumolo “no, a te t’hanno persa!”

“E neanche ti vogliono ritrovare.”

“Tu fai proprio senso da come tu sei inguardabile.” aggiunse Zoccolo.

“Come tu ti chiami?” chiese Gomitolo

“ Marronefango.”

“Ti dona” fece Trogolo

“ Avete una mela? Ho fame.”

“Certo” le rispose Trogolo e le porse il frutto che però era di dimensioni proporzionate ai giganti.

Fu così che centotrenta chili di mela caddero sulla testa di Marronefango, facendola svenire.

Anzi, andò in coma non controllato.

I fratelli la guardarono, venti secondi non di più, poi la presero per il bavero e la volarono al di là della recinzione.

E si rimisero a fare i fatti loro.

Fu in quel momento che arrivarono i sudditi del re, con il quale per motivi sindacali erano talmente arrabbiati che dopo tre mesi di picchettaggio ai cancelli del castello, non avendo ottenuto nulla, gli avevano rapito il principe ereditario per giustiziarlo.

Volevano farlo proprio vicino a dove era stata  scaraventata Marronefango che quando fu vista ci fu un coro unanime: “ammazza che mostro!”

“Facciamogliela baciare al posto d’essere impiccato.” “Siiiiiiii…”

Ma il principe vedendola, si dette un colpo alla sedia e s’impiccò da solo.

 

Fine?

 

 

No, Marronefango dorme ancora.

… e chi la sveglia?!?

Col tuo sorriso

non posso che disegnarci il sole

col tuo sorriso

 

è  un leggero movimento

che dai tuoi occhi si propaga al viso

non sono rughe o muscoli facciali

sono vibrazioni intense

che suonano dolci

a chi negli occhi

ha il dono d’ascoltare l’anima

intere folle resterebbero lì

a sentire quella musica

mentre nel mondo

acuti assordanti scuotono le membra

e nenie lamentose colorano l’aria d’oscuro

 

i tuoi capelli ti cingono il viso

strumento divino

da proteggere gelosamente

come fosse l’unica chiave

d’una salvezza ormai incerta

 

in realtà

il tuo aprire la bocca

in gioiose risate

ha la semplicità della speranza

che non necessita d’altro

 

per questo

non posso che disegnarci il sole

col tuo sorriso

viaggiare nel tempo

Sapeva di essere capace di viaggiare nel tempo. Nelle belle giornate si sedeva ai piedi di un albero, si metteva le cuffie alle orecchie e accendeva il lettore musicale.
Canzoni che erano soprattutto sentieri verso il passato lo avevano portato a quella convinzione, senza pensare che i suoi viaggi erano solo sul veicolo dei ricordi. Mai in un futuro sconosciuto.
In fin dei conti, cosa importava quello che pensavano gli altri? Vero o no, a lui capitava davvero di trovarsi, o meglio ritrovarsi in un tempo che era stato. Chiudeva gli occhi e si apriva un mondo, il suo mondo, fatto di gente, luoghi, situazioni già vissuti, ma come fossero nuovi e mai trascorsi.
Un po’ come per tutti, pensava, ci sono canzoni che mi legano a un affetto, a un evento, a una persona: basta spegnere l’interruttore della realtà ed eccomi là, nei giorni in cui la mia vita sentì raggiungere le vette dei cieli. Come adesso, che sei di nuovo di fronte ai miei occhi. Mi baci. Ti bacio. Nessuna parola, là dove non servono non se ne dicono.
L’infermiere gli scuote le spalle. E’ passata un’oretta da quando ha iniziato a ascoltare musica appoggiato all’albero ed è ora di rientrare. L’infermiere sa che non risponderà ad alcuna domanda, è così apatico che gli ricorda un Dead Man Walking, con la differenza di non essere stato condannato e di essere già un morto prima della condanna. Non può sapere l’infermiere che lui ha semplicemente sostituito la sua realtà e che basterebbe togliergli la musica per ucciderlo davvero.
Si è messo il pigiama e disteso a letto, coperto da un piumone con disegni floreali. Si rimette le cuffie, osservato dallo sguardo senza speranza dell’infermiere.
L’assolo di violino lo accompagna nel sonno che si fa salone illuminato: mi concedi questo ballo, le domanda, e lei risponde di sì. A differenza di quanto accadde davvero, è il valzer perfetto che disegna gli spazi col sorriso di lei, perché nei sogni riusciamo a ballare anche senza sapere. Un ballo che dura fino all’alba, quando Giovanna, l’infermiera del turno di mattina lo sveglia per un nuovo inutile giorno.

Breve dal futuro

Dallo schermo di tre jok (mille pollici secondo il metro umano) che mostrava l’esterno dell’astronave, l’equipaggio osservava il pianeta raggiunto dopo centoventotto anni Criolici (un paio di giorni, sempre secondo il metro umano) grazie all’uso dell’interspazio scoperto da uno scienziato di cui si ricorda solo il nome, Capitano Kirk.
Ai posti di manovra! ordinò un essere alto duemila creasec (venti centimetri scarsi). Tutti si disposero agli schermi elettronici di guida e dietro gli ordini precisi del comandante, quello di prima, iniziarono la discesa verso la superficie del pianeta.
“Di qua! Di là! Un po’ così! Un po’ cosà!”, insomma all’incirca in questo modo, pilotarono l’astronave di un ciok (due chilometri) di altezza con grande maestria fino ad atterrare con perfezione sul suolo.
Si era alzato un polverone che “sembrava di essere in padania”, secondo un modo di dire di origine sconosciuta, e dovettero aspettare un milionecentomila Siungsi (un paio di minuti) per uscire a vedere cosa avrebbero trovato in quel luogo.
Poi, giunto il momento, scesero le scalette tutte a piedi e, siccome erano intelligenti da fare paura, avendo messo la cabina in cima all’astronave si fecero 9081 scalini (9081 in numeri umani). Con la lingua per terra se di lingua si può parlare, giunsero a mettere il piede per la prima volta su quel suolo. C’erano un monte di costruzioni sbriciolate, nubi grigie e dense, un silenzio terrificante e un’aria scura e pesante.
Dovete sapere che quei viaggiatori dello spazio avevano un naso con tre narici, ma in realtà quello centrale era l’ano. Il quale aveva proprietà incredibili, compreso quella di permettere di misurare le radiazioni. Quegli esseri spaziali si infilavano il dito in c… nel naso, poi lo tiravano fuori e lo alzavano al cielo.
Una quantità industriale! Disse il misuratore riferendosi alla radioattività.
Qui non c’è vita! Dissero tutti gli altri e se ne andarono da quel pianeta sferico, con un grosso satellite ancor più inospitale e un sole a qualche milione di Ciok.
In realtà non era proprio esatto quello che fu detto. Un sopravvissuto alla guerra atomica, origine di quel paesaggio inospitale, c’era.
Ma l’avevano spiaccicato con l’astronave.
Un po’ più attenti, no, eh?
E poi si arrabbiano se si dice agli alieni che arrivano solo per estinguere la razza umana.

Armonia

Avevo allungato la canna da pesca, passato la lenza dal mulinello attraverso tutti gli anelli fino all’estremità dell’ultima parte della canna. Per ultima, avevo legato un chicco di mais alla lenza, senza amo.

Altri pescatori mi guardavano incuriositi e si domandavano cosa stessi facendo, anche perché legare il mais non era cosa semplice seppur mi fossi ormai specializzato nell’operazione.

Un adolescente si avvicinò chiedendomi cosa stavo facendo.

“Nutro i pesci…” gli risposi. “Mi piace sapere che in qualche maniera aiuto un essere vivente. Tu invece, cosa stai facendo?”

L’adolescente sembrò timidamente scosso alla domanda come se la sua risposta potesse in qualche maniera farlo passare per un essere malvagio. “Ehm… sono… sono col babbo…”

“E tuo babbo cosa fa?”

Il ragazzo bofonchiò un non so e se ne andò senza aspettare una mia replica.

Curvai il mio corpo all’indietro e lanciai. L’esca era però leggera e la lenza non aveva un piombo che le avrebbe permesso di arrivare lontano. Il chicco di mais si inabissò a non più di tre metri da me. Andava bene così. Potei vedere un paio di pesci muoversi sinuosi, ma rapidi verso il loro probabile pasto. Uno dei due fu il più veloce e ingollò il mais. Mi parve felice.

 

Ho paura dell’acqua, ma trovo in essa tutta la bellezza di questo universo. In essa c’è vita, anzi è vita. La vedi eppure si fa trapassare con lo sguardo e ti rivela tutto quello che c’è dentro e oltre di essa. I pesci, appunto, che si muovono in traiettorie eleganti senza un obbligo di percorso,  ma anche piante che ondeggiano come in un leggero passo di danza e si colmano di colore nonostante non vi siano api da attirare.

 

C’è armonia nell’acqua. Un gioco d’intesa tra i vari attori che sono cresciuti insieme a lei e dentro di lei, che ipnotizza chi li osserva. È armonia di colori, rumori e odori, una armonia che io sento spesso di non meritare, sensazione che certo prende forma nella mia paura di essa. Eppure la sua bellezza mi regala il desiderio di farne parte, di essere parte di una armonia perfetta come l’acqua e i suoi componenti.

 

Alzai la canna, recuperando l’estremità della lenza, e legai per l’ultima volta un nuovo chicco di mais.

Osservai gli altri pescatori slamare i pesci che urlavano silenziosi, ributtandoli in acqua. Capii che comunque si impegnino, non riusciranno mai né a far parte di questa armonia, né a distruggerla.

Lontano vidi un bambino, avrà avuto circa tre anni, che per mano col nonno rideva affascinato al muoversi dei pesci. Lui sì, era parte di quella armonia.

Abbraccio

Mi piace parlare con i morti. O meglio, con i miei morti.
Capita davvero troppo spesso di sentirsi soli, indifesi, insicuri e di non sapere a chi affidare i nostri bisogni. Allora posso affermare con certezza che scoprire questa mia capacità sia stata una grande fortuna.
Parlo con la nonna, col nonno, con la mamma, con mia cugina e con tutta la serie di amici che non hanno avuto il tempo di godersi la vita appieno. Scambiare quattro chiacchiere con queste persone mi dà l’opportunità di risolvere dubbi o di vedere il mondo con uno sguardo diverso e uno stato emotivo più sereno.
Poi, come quando accade che la gente non riesce a farsi i cazzi suoi, la notizia di questa mia capacità si è diffusa e molte, moltissime persone mi hanno cercato per capire se fosse stato possibile avere un contatto con i propri cari. Storia vecchia, non dico di no, resta il fatto che se mi sono trovato in questa situazione non è stata proprio una cosa voluta da me.
.
Mi guardo attorno. La vecchia becera ha gli occhi pieni di sangue, ma non me ne può fregare di meno. Sandro si avvicina e mi abbraccia. Grazie, mi sussurra. Me lo avrà detto un milione di volte negli ultimi tempi, ma questo mi garba di più. Stringo la mano a una decina di persone.
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Ritorno col pensiero alla prima volta che l’ho fatto per gli altri. Capacità su capacità, pensai. Madre Natura mi voleva così bene che mi ha donato anche la magia dell’ipnotismo o forse chissà, tutto era collegato, forse ipnotizzavo anche me stesso. Resta il fatto che l’autoconvinzione diventa potente se è necessità e questa gente parlava con chi desiderava: voce e immagine era dentro di loro e non era possibile fraintendere. La prima volta fu la mia dirimpettaia, una signora settantenne dolcissima e vedova di un amore che non riusciva a accettare come distacco fisico. Quando si posò sulla mia sedia e le chiesi di guardarmi negli occhi, fu come immergersi in un mare di puro sentimento. Fu semplice ricreare le condizioni necessarie. Lei rivide il marito e ci parlò per ore. Un sogno, ma lei non lo ha mai saputo o voluto capire. Quando schioccai le dita e si staccò dal collegamento col defunto, mi abbracciò per mezzora. Era felice anche se non ho mai saputo cosa si erano detto i due.
La dirimpettaia non era proprio capace di mantenere il segreto e la vicenda fu messa a conoscenza del mondo. Cominciarono a venire anziani da tutto il mondo.
Fu in quel momento che mi balenò l’idea: sconfiggere la morte con la morte.
Purtroppo conoscevo persone che avevano bisogno di cure costosissime per sopravvivere e io pensai di chiedere versamenti a loro favore per le mie prestazioni. Cominciai a scegliere persone straricche e solo a loro riservai la mia attenzione. Soddisfacevo i loro bisogni solo alla presentazione di un bollettino postale a favore di uno della lista dei malati che davo loro.
Centinaia di migliaia di euro, poi tutti spesi in medicine, cure specialistiche, assistenza specializzata, speranza. Ci furono tante persone che prive di possibilità poterono usufruire delle migliori tecnologie per le loro malattie e tanti, furono davvero tanti a guarire.
Ma come sempre succede, chi ha fatto i soldi spesso non è proprio di animo gentile.
.
Eccola lì. La riguardo e le sorrido, mentre lei non ricambia certo. Mi ha portato in tribunale per truffa. Un mistificatore che sfruttava la debolezza umana per farsi ricco. Vecchia bavosa, ha ancora milioni di euro in banca, fra poco muore e non sa come spenderli. Se dovessi dire perché sono arrabbiato direi per non aver fatto in tempo a finirglieli io.
Assolto per non aver compiuto il fatto. Così hanno detto, tra il tifo assordante di tanti dentro l’aula, tra cui molti guariti e molti che sono ancora certi di aver parlato con i propri cari e versato con gioia l’obolo.
Stringo ancora molte mani e esco rapidamente.
La piccola Lia mi aspetta a casa mia perché vuol parlare col suo babbo. Ma lei a gratis o, meglio, mi basta un abbraccio.