Era stanco.
Si era appoggiato al vetro della finestra a guardare le poche ombre che attraversavano la semioscurità della strada e pensava che sarebbe stato utile essere come loro: vivere l’attimo di luce e morirci dentro. La realtà era ben diversa e guardò sua madre distesa addormentata sul letto, coperta da un piumone che pareva carezzarla caritatevolmente.
Il sentimento della tenerezza a volte prende pieghe che nessuno può distendere, pieghe dove perdersi prendendo per mano chi non sa più camminare da solo.
Lei russava da far vibrare il telaio del letto, ma nella incomprensibile lettura della vita gli parve una sinfonia piacevole e quasi naturale.
Attento a fare meno rumore possibile, chiuse lo scuretto della finestra e tirò la tenda a fiori. Si mise il giaccone a trequarti e salutò sua madre con un movimento impercettibile degli occhi.
Tornando a casa, cercò la luna in un cielo che da una settimana gettava le sue lacrime su una terra ancor più triste di lui e non la trovò.
C’è poca poesia in questo mondo, dovessimo guardare al vero. Se lo disse come chi non ha aspettative di alcun genere.
Giunto a casa parcheggiò. Restò fermo un paio di minuti dentro l’auto poi scese a salì le scale del condominio. Era notte fonda e il silenzio imperava nella luce gialla della illuminazione del palazzo.
Aprì delicatamente la porta di casa e si fiondò a letto. Si distese sul fianco destro e si addormentò.
Iniziò a russare da far vibrare il telaio del letto.
In qualcosa doveva pur assomigliare a sua madre.
Archivio mensile:dicembre 2017
Piccole poesie d’amore
Piccole poesie d’amore
Sopravvivenza
se robinson crusoe mi usasse
come legnetto girandomi
su di te
prenderemmo fuoco facilmente
Teoria del baseball
mi hai colpito
così forte
da fare un fuori campo
una mattina
ti ho offerto la colazione
solo per guardare le tue labbra
baciare la brioche
Profili murali
e ti meravigli
se l’ombra cinese
delle dita a cuore
la vedi ancora nonostante
si sia spenta la lampada?
Lettera muta
ti ho dato una busta
con un foglio bianco
ci sono scritte sopra
tutte le parole che non ho
saputo dirti
Fiducia
Il tavolo era circolare, di un legno che data la mia ignoranza posso solo presumere fosse mogano. Eravamo in sei, seduti alla stessa distanza l’uno dagli altri. Quattro donne e due uomini, di varie etnie e, cosa certa, tutti morti.
Almeno io lo ero, morto, per certo. Questo mi dava la convinzione che tutti lo fossimo.
Solo alcuni attimi prima mi ero gettato da una rupe che dava sul lago, schiantandomi sull’acqua che, come un muro orizzontale, mi aveva quasi smembrato, frantumandomi ogni osso del mio povero scheletro.
Subito dopo mi ero trovato seduto a quel tavolo.
Con i gomiti appoggiati e le braccia incrociate, mi guardavo attorno. Nessuno parlava o aveva il coraggio di farlo. Neppure io. Temevamo di scoprire cosa ci stava accadendo, il terrore ci stava avvolgendo come una coperta fredda da cui non sapevamo liberarci.
Passarono ore. Nessuna parola o sguardo ammiccante, ognuno di noi sembrava non guardare alcunché, ma il tempo scorreva quasi inavvertito e nessun tipo di stanchezza o paranoia pareva disturbarci.
Poi una voce che non apparteneva a noi ci salutò. Sussultai e anche gli altri lo fecero.
“Solo poche parole, signori. Intanto grazie di essere qui.”
Avrei voluto dirle, cara la mia voce, che non ci tenevo proprio a essere lì, ma non ci riuscivo. C’era come un silenzio imposto.
“Ognuno di voi è vittima della fiducia che avete riposto in coloro che amavate o che rappresentavano i vostri punti di riferimento per la vostra vita.”
In effetti il mio amicaccio Rolando, quando seppi della gara di campionato del mondo di tuffi da grandi altezze ed espressi tutti i miei dubbi sul mio desiderio di parteciparvi, mi disse solo di avere fiducia in me stesso. Cosa che feci. Fiducia malriposta, a vedere il risultato. Eppure avevo sempre agito secondo il mio sentire, facendo di me il suddetto punto di riferimento. Mi sarei voluto prendere a schiaffi. In quel momento c’erano diverse decine di persone che per certo stavano piangendo disperate per la mia morte: io che avevo dato tutto me stesso per gli altri, che avevo messo a disposizione per i meno abbienti le mie competenze, io che avevo guarito da morte certa decine di persone, mi vado a ammazzare per una sfida contro il niente. Un deficiente, non potevo che chiamarmi così.
Al tavolo ho iniziato a guardare meglio gli altri personaggi. Le donne avevano una età che andava tra i venti e i sessanta anni, l’altro maschio presente avrà avuto una quarantina di anni. Tutti molto belli, quasi luminosi e la cosa, visto che probabilmente osservavo delle anime, non mi sorprendeva. Stavo quasi per sorridere alla bionda alla mia destra quando la voce riprese a parlare.
“Ognuno di voi in qualche modo ha donato la sua vita per un atto di fiducia: chi per amore, chi per bontà, chi per il bisogno di sentirsi vivo. Poiché ancora prediligo il bene al male e ritengo la vostra fiducia un gesto meritorio, volevo solo dire che a voi, e solo a voi, spetta una seconda opportunità.”
Non fece a tempo a dirlo che mi trovai precipitante dalla rupe in perfetta posizione verticale mentre di piedi entravo velocissimo in acqua. Arrivai quasi a toccare il fondo con due sub che controllavano che io stessi bene. Quando la mia testa riemerse, un urlo disumano mi accolse: erano le grida dei degenti del reparto oncologico che fregandosene del loro male erano venuti a fare il tifo per me. Tutti, ma proprio tutti, con teste fasciate, flebo, visi verdi e scatarramenti terrificanti.
Mi sono chiesto “e ora chi gliela dice la verità a questi?”. Mi prenderebbero per pazzo. Farebbero bene, non ci dovrei credere nemmeno io, è solo stato un sogno fatto per la paura durante il tuffo. Ecco, si, è così…
Però, quella voce… se davvero avessimo tutti una seconda possibilità…
Rete
a fine giornata
È che quando finisce il giorno di Natale, in particolar modo per chi come me non fa della fede il motivo principale del festeggiarlo, rimango immerso in una strana sensazione.
L’imporsi del bene sul male, dell’amore sull’odio, della generosità sull’egoismo è simbolismo che me lo fa vivere come il giorno più importante dell’anno.
Basta girarsi attorno un attimo per capire quanto sia necessario vivere questo momento non come una delle giornate mondiali così di moda su questi social, ma davvero come l’inizio di una interpretazione diversa e coraggiosa del nostro vivere.
Nelle piccole cose come nelle grandi cose.
E’ appena passata mezzanotte e mi trovo a percorrere uno strano sentiero lastricato di malinconia.
Racconto di Natale
Ieri sera mi è piaciuto tanto ascoltare la nonna raccontarmi di suo nonno. Quattro generazioni sono un passato pari a cento anni e ogni parola che mi diceva l’ascoltavo a bocca aperta. Un po’ fantascienza, seppure al rovescio parlando non di qualcosa che doveva ancora accadere, ma che era già successo. Con il particolare, non da poco, che si trattava di un passato sconosciuto come ciò che deve ancora avvenire.
Ripenso alle parole di nonna Emma mentre ordino le scatole dei pelati. Il trisnonno Oreste era un uomo alto e secco, muscoli tirati come una fionda, dalla forza inaspettata. La terra era la sua seconda sposa in prime nozze, visto che sua moglie Maria aveva pochi attimi della giornata anche solo per un bacio o per fare qualche parola dopo che il marito aveva trascorso il tempo dall’alba al tramonto sui campi.
“Renzino, veloce con codesti pomodori. Vai a prendere in magazzino le scatole dell’insalata di mare!”
Il nostro capo è un brav’uomo. Forse a casa sua, forse.
Accelero la messa sugli scaffali delle scatole dalla etichetta rossa e mi chiedo chissà quanti pomodori avrà raccolto il trisnonno. A nonna Emma si illuminavano gli occhi ricordando Oreste e Maria, a quando da vecchi la sera l’avevano accompagnata nel mondo dei sogni bambini con favole che si sono perse nel buio del tempo.
Prendo i cartoni vuoti, li appoggio sul carrello e mi avvio al magazzino. La porta automatica si apre come se mi riconoscesse, entro in un cubo di dimensioni gigantesche dove centinaia di contenitori sono colmi di cibo sufficiente a un intero continente. So perfettamente dove è l’insalata di mare e dopo 5 minuti sono di nuovo tra gli scaffali per riempirli di un prodotto in “offerta sensazionale”.
Sono le 13,00.
Si, mi è piaciuto molto ascoltare nonna Emma, ma quando mi raccontava del loro Natale non c’è stato più nessun sorriso dentro me. La nonna, donna molto sensibile, si è accorta della mia malinconia e ha smesso di dirmi della gioia di vivere questo giorno tutti assieme, da mezzanotte a mezzanotte, dello scambio dei doni, del pranzo tutti assieme, fossero 5, 10 o cento persone. Ha smesso e mi ha carezzato sulla testa, abbracciandomi con tutta la tenerezza che solo una donna come lei sa dare. “Vedrai cambierà…” ha cercato di rassicurarmi. Forse ha ragione, ma mi guardo intorno e so che la situazione non potrà cambiare da sola.
“Renzino, finito con la insalata di mare, c’è il pancale delle fette biscottate.”
Il nostro capo è un brav’uomo. Forse a casa sua, forse.
Altri sette minuti e sono a mettere quelle fragili fette il più alto possibile. Mi suona il telefono. Video chiamata. Rispondo. È Alessia.
“Ciao, babbo!!! Buon Natale!!! E grazie, il regalo è bellissimo!”
A tavola con sua madre in questo giorno speciale, mi saluta allegra con la sua manina dodicenne e la mia, di manona, le risponde allo stesso modo. Un pranzo zoppo, ho pensato, e stasera tocca a mia moglie, che ha il turno serale al ristorante. Avrei voluto avere lì nonna Emma per capire come si è finiti a non avere più un tempo per coloro che si ama.
“Auguri, amore bello, a te e alla mamma… sono contento ti sia piaciuto il regalo…”
Sorrido.
“Renzino, smettila di chattare con la ganza! Dopo le fette, porta in negozio il tonno all’olio di oliva”.
Il nostro capo è un brav’uomo. Forse a casa sua, forse.
Quando ti guardo
Non chiedermi di tradurre i silenzi che faccio
quando ti guardo
se non dico una parola è perché
quando ti guardo
dimentico ogni cosa bella che ho visto
Follia
Tutto è iniziato quando ho cominciato a battere la testa nel muro di casa dei vicini. Tiravo forte perché i muri di adesso non sono più quelli di una volta, sono di carta velina. A un certo punto mi sono trovato con la testa dentro l’appartamento in una scena tipo Shining. La coppia di dirimpettai mi guardava sconvolta paralizzata sulle sedie di cucina. “Avete un Aulin?” ho chiesto. Mi hanno detto che ero pazzo, ma avevo davvero un mal di testa terribile. Mi stavano sul cazzo da sempre e, vista la loro superficialità di giudizio, l’impressione si rafforzò.
Con la testa completamente fasciata a causa dello spostamento del cranio, il giorno dopo dimostrai che certe auto si vantavano senza meritarlo l’esosa pretesa di essere resistenti al Crash Test. Con una mazza di ferro mi sono presentato al parcheggio di un locale notturno e in quattordici minuti di mazzate ho demolito tre Porsche Cayenne, due Bmw X5, due Audi Q7. Devo dire che sono rimasto sorpreso quando l’editore di Quattroruote ha consegnato le immagini del test alla Polizia, invece di farci un articolo utile ai cittadini. Per cercare di fargli cambiare idea gli ho mostrato che anche la sua Bentley era meno sicura di quanto pensasse. Sempre con la stessa mazza, per unificare il test, ma non mi è parso per niente soddisfatto di conoscere la triste verità. La follia non ha limiti, a volte.
Amo il cinema americano, ma non credo siano in tanti a farlo. Qualche tempo fa, dopo aver visto una commedia degli anni sessanta, mi sono messo a camminare sul cornicione di un grattacielo. Una esperienza bellissima, una sensazione di libertà che non provavo da tempo, non fosse altro per una decina di donne isteriche che sbraitavano come ossesse una quindicina di piani più in basso. “Cazzo urlate? Se lo volete far voi venite e non rompete un povero Cristo!”
C’è una cosa che davvero non ho compreso in tutto questo tempo. Mi faccio questa domanda qui sull’ambulanza dopo aver cercato di capire gli effetti di uno scontro frontale tra un autobus e un ciclista (io):
perché dicono tutti che io sia travolto da una insana follia, mentre folle lo sono stato sì, ma d’amore per Daniela? Dopo che mi ha lasciato ho svuotato il cuore di mille pensieri e ciò che accadeva, accadeva e basta. Mi sono sentito così normale con me stesso, da aver compreso l’entità della pazzia affettiva provata per quella ragazza.
Scambio uno sguardo con gli infermieri, che mi guardano preoccupati. Mi sono fratturato tutte le ossa che posseggo, ma sono sopravvissuto contro ogni previsione. Devo scriverlo e comunicarlo al mondo.
Appena mi avranno rimesso a posto le mani stritolate dal pneumatico anteriore destro del bus.