Fiducia

Il tavolo era circolare, di un legno che data la mia ignoranza posso solo presumere fosse mogano. Eravamo in sei, seduti alla stessa distanza l’uno dagli altri. Quattro donne e due uomini, di varie etnie e, cosa certa, tutti morti.

Almeno io lo ero, morto, per certo. Questo mi dava la convinzione che tutti lo fossimo.

Solo alcuni attimi prima mi ero gettato da una rupe che dava sul lago, schiantandomi sull’acqua che, come un muro orizzontale, mi aveva quasi smembrato, frantumandomi ogni osso del mio povero scheletro.

Subito dopo mi ero trovato seduto a quel tavolo.

Con i gomiti appoggiati e le braccia incrociate, mi guardavo attorno. Nessuno parlava o aveva il coraggio di farlo. Neppure io. Temevamo di scoprire cosa ci stava accadendo, il terrore ci stava avvolgendo come una coperta fredda da cui non sapevamo liberarci.

Passarono ore. Nessuna parola o sguardo ammiccante, ognuno di noi sembrava non guardare alcunché, ma il tempo scorreva quasi inavvertito e nessun tipo di stanchezza o paranoia pareva disturbarci.

Poi una voce che non apparteneva a noi ci salutò. Sussultai e anche gli altri lo fecero.

“Solo poche parole, signori. Intanto grazie di essere qui.”

Avrei voluto dirle, cara la mia voce, che non ci tenevo proprio a essere lì, ma non ci riuscivo. C’era come un silenzio imposto.

“Ognuno di voi è vittima della fiducia che avete riposto in coloro che amavate o che rappresentavano i vostri punti di riferimento per la vostra vita.”

In effetti il mio amicaccio Rolando, quando seppi della gara di campionato del mondo di tuffi da grandi altezze ed espressi tutti i miei dubbi sul mio desiderio di parteciparvi, mi disse solo di avere fiducia in me stesso. Cosa che feci. Fiducia malriposta, a vedere il risultato. Eppure avevo sempre agito secondo il mio sentire, facendo  di me il suddetto punto di riferimento. Mi sarei voluto prendere a schiaffi. In quel momento c’erano diverse decine di persone che per certo stavano piangendo disperate per la mia morte: io che avevo dato tutto me stesso per gli altri, che avevo messo a disposizione per i meno abbienti le mie competenze, io che avevo guarito da morte certa decine di persone, mi vado a ammazzare per una sfida contro il niente. Un deficiente, non potevo che chiamarmi così.

Al tavolo ho iniziato a guardare meglio gli altri personaggi. Le donne avevano una età che andava tra i venti e i sessanta anni, l’altro maschio presente avrà avuto una quarantina di anni. Tutti molto belli, quasi luminosi e la cosa, visto che probabilmente osservavo delle anime, non mi sorprendeva. Stavo quasi per sorridere alla bionda alla mia destra quando la voce riprese a parlare.

“Ognuno di voi in qualche modo ha donato la sua vita per un atto di fiducia: chi per amore, chi per bontà, chi per il bisogno di sentirsi vivo. Poiché ancora prediligo il bene al male e ritengo la vostra fiducia un gesto meritorio, volevo solo dire che a voi, e solo a voi, spetta una seconda opportunità.”

Non fece a tempo a dirlo che mi trovai precipitante dalla rupe in perfetta posizione verticale mentre di piedi entravo velocissimo in acqua. Arrivai quasi a toccare il fondo con due sub che controllavano che io stessi bene. Quando la mia testa riemerse, un urlo disumano mi accolse: erano le grida dei degenti del reparto oncologico che fregandosene del loro male erano venuti a fare il tifo per me. Tutti, ma proprio tutti, con teste fasciate, flebo, visi verdi e scatarramenti terrificanti.

Mi sono chiesto “e ora chi gliela dice la verità a questi?”. Mi prenderebbero per pazzo. Farebbero bene, non ci dovrei credere nemmeno io, è solo stato un sogno fatto per la paura durante il tuffo. Ecco, si, è così…

 

Però, quella voce… se davvero avessimo tutti una seconda possibilità…

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