Vento

È certo che il vento si alzato forte, sventola maglie lavate di operai stanchi e piega rami di alberi infastiditi. Colpisce anche me nell’aprire la portiera dell’auto e chiudo gli occhi cercando di evitare granelli di polvere che potrebbero far molto male.
Alzo il bavero del cappotto e abbasso il cappello sulla fronte mentre con la schiena curva a chiudere la macchina mi chiedo che ore sono.
Il vento è sempre più potente, sembra poter staccare i lampioni da terra mentre a fatica inizio a camminare verso l’entrata del mio palazzo nel buio appena orfano del tramonto.
È vento di tramontana, afferra il mio corpo con le sue mani possenti e cerca di spingermi indietro ma l’inclinazione del mio corpo lo sopporta.
Ormai sono a cinque metri dal portone d’entrata quando sento una voce, sibilante, molto più dell’aria. Mi volto assumendo sguardo sorpreso dell’evento inatteso.
Una lama si avvicina al mio collo mentre una voce chiede qualcosa che non capisco.
Urla, in maniera tanto sgradevole quanto decisa. Il vento è sempre più possente e cerca di coprirne le grida ma non può farcela.
Incerto, metto mano al portafoglio come per pagarlo perché se ne andasse da lì.
La voce urla ancora e prende il portafoglio.
Il vento sibila e sposta un vaso sul terrazzo al primo piano..
La voce che urlava alle mie spalle improvvisamente si fa muta. Cerco di capire ma vedo il trincetto per terra, il vaso frantumato e un uomo incappucciato sull’asfalto. Raccolgo il mio portafoglio, anch’esso per terra.
Raggiungo il portone, lo apro, con fatica lo richiudo, salgo le scale ed entro in casa pensando che l’energia eolica dovrebbe essere sfruttata di più.

Regalo

Niente di che

un fiore di campo

con radici e terra

dentro un piccolo vaso

perché se di colori

il dono dev’essere

che sia di vita viva

 

Forse non lo vedrai

passerai oltre

col tuo passo leggero

e lo sguardo volto

all’azzurro del cielo

o forse lo vedrai

e saprai che sono io

presenza semplice

che si regala

senza aspettative

 

Prendimi e adorna

anche solo cinque minuti

del tuo tempo

e se tu sarai felice

io sarò felice

Onore

Ho appena indossato il giubbotto di piuma d’oca di colore blu elettrico e mi girano i coglioni a duemila rotazioni al minuto.
Saluto il mio collega cercando di sminuire il mio stato d’animo, che lui non c’entra una sega in tutto questo, monto in auto e mi avvio verso casa. Solo che al km 3,300 prendo e svolto a destra.
Vado in centro, che non ho fame.
La mamma non si offenderà, sono un bamboccione che dal secolo scorso vive coi genitori e chissà che non speri in una improbabile anima gemella.
È un freddo cane, i vetri delle auto già si colorano di ghiaccio e vedrai che zizzola sarà stanotte. Ho guanti, sciarpa e cappello, saprò riparami. C’è pochissimo traffico, è ora di cena e per molti è ancora presto per un giro dei negozi aperti per le feste. Parcheggio in un punto comodo, chiudo l’auto e mi avvio a fare una “vasca”, il tipico circuito rettangolare del centro storico.
Guardo il cielo, pulito come fosse passata la cooperativa degli angeli delle pulizie che avevano lustrato come non mai anche la luna, bianca come le camicie appena lavate dalla mamma.
Mi prendono i sensi di colpa e la chiamo. Il telefono mi illumina come un fuoco fatuo sulla foto della lapide e, riflesso sulla vetrina spenta di un negozio, mi vedo proprio come un morto.
“Dimmi…” risponde mamma.
“Non torno, mamma, sono a prendere un aperitivo con amici…”
“A quest’ora…” si chiede tra sé mamma, “ che strani orari avete voi giovani (giovani per te, mamma)… fai come vuoi, ma non ti ubriacare che io e il babbo non possiamo fare la vita dell’altra sera…”
Non bevo mamma, lo dico e lo penso.
Passo davanti alla libreria. I più venduti sono esposti in una bacheca dal primo al decimo posto e con il fiocchetto rosso da regalo. Li guardo e la sensazione è che gli darei fuoco tipo Fahrenheit 451, da quanto sono idioti. Entro e dopo sei minuti e dieci secondi esco con una guida comica sull’uso del viagra da parte di chi soffre di angina pectoris.
Riprendo a camminare e lungo il tragitto vedo negozi di abbigliamento, articoli da regalo, elettrodomestici, illuminati così tanto da rendere felice il CEO dell’Enel.
L’aria fresca passa dalla sciarpa e arriva a bocca e naso, cazzo è freddo per davvero. A un angolo della “vasca” invece di girare a sinistra, senza un perché, giro a destra e entro in un vicolo oscuro. Strade che sembrano essere arrivate dal medioevo senza una ristrutturazione, persino l’illuminazione sembra fatta da lanterne a olio. Era proprio quel che cercavo: il silenzio. Faccio dieci passi e poi mi blocco. Vedo un’ombra e riconosco un essere umano piegato su se stesso appoggiato al muro. Aumento il passo, non si sa mai… assai me ne capitano di questi giorni. Oltrepasso l’ombra senza guardarlo, ma fatti tre metri devo fermarmi. Sento un rumore strano, un ticchettio rapido, acuto. Mi giro e guardo l’uomo (è chiaramente maschio) che trema e batte i denti in maniera incontrollata. È un barbone, un clochard o come cavolo si chiamano, di certo una rottura di palle che, relativamente alla mia giornata, diventa una ulteriore rottura e quindi da evitare. Mi giro di nuovo e torno indietro verso le luminarie della “vasca”
Eccheccazzo, manca solo che mi debba preoccupare di uno sconosciuto. Vedo altri negozi e la gente che aumenta nel numero col passare dei minuti. Molti adulti e pochi bambini, ma tutti festosi e sorridenti. Tutti eccetto me a cui girano i coglioni più di prima.
Maledizione, devo farmi vedere da uno psicologo, ma da uno bravo.
Mi fermo a un piccolo bar. Chiedo un tè caldo. Metto sette o otto cucchiaini di zucchero e inizio a berlo piano. Ecco, è come se inesorabile salisse piano piano dentro di me: sia il caldo della bevanda che il freddo del cuore. Ci sono cose che non ci fanno onore e ci che rendono peggiori di coloro che ci disgustano. Ecco, sì, è proprio questo, una questione di onore.
Chiedo un altro tè, da portare via. Che sia caldo, molto caldo.
Torno sui miei passi, torno nel vicolo e torno vicino a quell’ammasso di disperazione che non si è mosso di un passo da dov’era. Gli porgo il tè. Due occhi stanchi e immersi nel sangue incrociano i miei. Questo, penso tra me, due ore e ci lascia per sempre.
“Ciao, io sono Igor… ti va un tè caldo?” chiedo inutilmente, avendolo lui già preso tra le mani.
Ho visto nel suo viso una espressione che nemmeno io quando ho vinto per l’azienda l’appalto da tre milioni. Tra la felicità e l’incredulità. Lo ha bevuto lentamente e sono certo di aver visto la sua pelle cancellare le grinze della sofferenza. Certo che con un euro e venti possiamo fare grandi cose.
“Grazie”, mi dice.
“Hai dove dormire? Chiedo e lui mi dice che è il mondo il suo letto e che non devo preoccuparmi. Ah, non deve nemmeno pensarlo, non lo porto certo a casa. Però…
“Accetta queste cose…” e gli porgo sciarpa, guanti e cappello.
Lo fa con una rapidità che crea invidia alle mie giunture.
Gli do la mia buonanotte e me ne torno rapido verso la macchina.
È strano, non ricordo cosa mi aveva fatto arrabbiare oggi.
Appena a casa, abbraccio forte la mamma (che non capisce e sospetta forte ubriacatura) e vado a nanna tranquillo.

Confusione

Confusione
.
.
“C’è una grande confusione dentro di me…”
Lo diceva piangendo mentre teneva puntata la pistola alla mia testa e me la stavo facendo sotto per il terrore che stavo provando. Ho sempre temuto di poter essere vittima di una rapina, ma tra il dire e l’accadere mi sono reso conto che c’è una gran bella differenza. Mi sono ritrovato a essere ostaggio in pericolo di vita. Quell’arma puntata era silenziosa, ma sembrava poter parlare all’improvviso il suo canto di morte in mano a quel disperato.
“perdere il lavoro alla mia età è devastante… d’improvviso ti ritrovi in un mondo fatto di nemici che ti prendono la macchina… e poi la casa… e infine la dignità…” e mentre raccontava la sua storia, ogni mia goccia di sudore erano i miei pensieri fatti dei miei figli e di mia moglie e dei miei parenti e dei miei amici e dei miei collaboratori e del mondo intero.
“… ritrovarsi in mezzo alla strada con due bambini piccoli e non sapere come fare a sfamarli…”
Tremava la sua mano e davanti a me la canna della pistola pareva incerta se forarmi la tempia o in mezzo alla fronte. Non ricordo quanto tempo è passato, so solo che è stato sufficiente a sentirmi senza via d’uscita e a mettermi il cuore in pace. Vittima predestinata della vittima di un mondo ingiusto fatto di ingiusti.
“ho cercato e ricercato, ma nessuno voleva prendermi a lavorare… e i miei figli in quella colonica diroccata dispersa tra monti a aspettare che portassi loro da mangiare… piangevano, ieri sera, piangevano… io non sapevo cosa fare… c’è una grande confusione dentro di me…”
La disperazione non ha logica da seguire, solo una strada senza cartelli e avvertimenti. Mi sentivo morto, ma era la sensazione più sbagliata che avessi avuto nella mia vita. Mi porse la pistola e chiese scusa travolto da un pianto a dirotto.
Adesso lo guardo prendere nota delle scatole di tonno sullo scaffale.
Arrivarono a dire che nella mia testa c’era una grande confusione quando decisi di non fare denuncia e di chiedere alle autorità di prenderlo a lavorare nel mio piccolo supermercato. Ancora di più quando decisi di metterlo caporeparto, visto che capaci e onesti come lui ero certo di non averne mai trovati.
Mi guarda e rispondo al suo sorriso con una smorfia di soddisfazione.
Penso che in fin dei conti la confusione ci sia davvero, ma nel mondo, tra gli uomini.

Amaca

Quando il morettino srotolò il telo sul terreno tra i due  pini marittimi che si trovavano vicino alla loro tenda, calcolò che la distanza era giusta per legarci l’amaca.

Legò prima la parte destra e si accorse che c’era un piccolo ramo ad altezza uomo che sembrava fatto apposta per l’ancoraggio dell’amaca. Girò la corda tre o quattro volte attorno al fusto e la annodò con perizia rendendola sicura.

Lo stesso fece per l’altra parte. Anche qui, colpo di fortuna sfacciata,  si trovava un ramo nella stessa posizione dell’altro.

A lavoro terminato il giovane valutò soddisfatto che meglio non poteva essere fatto.

Chiamò la sua ragazza che mostrò tutto il suo gradimento per il risultato con quei suoi occhi dolci pieni di promesse  che a suo tempo avevano fatto innamorare di schianto il suo ragazzo.

Si presero per mano e pensarono insieme a come sarebbero state le notti trascorse abbracciati su quell’amaca.

Poi andarono a tuffarsi in un mare meraviglioso.

Mentre i due ragazzi nuotavano, i due non riuscivano a credere ai propri sensi.

Per i due intendo i due pini marittimi che, e non chiedetemi come si distinguono, erano un maschio e una femmina.

Ma soprattutto innamorati.

Da sempre si guardavano le chiome, il fusto elegante, le fertili pigne e sentivano il profumo intenso l’uno dell’altro.

Ma non potevano toccarsi.

Erano cresciuti assieme, erano passati ore, giorni, anni guardandosi, soltanto guardandosi.

Ci sono stati giorni in cui la sofferenza di quella impossibilità di toccarsi e di unirsi  si mutava in lacrime di linfa e altri in cui la malinconia inclinava le foglie aghiformi verso il basso. Altri in cui si sentivano fortunati della vicinanza dell’altro.

Ma quel giorno accadde una cosa strabiliante: una corda li univa.

Fu come un miracolo il trasmettersi quelle vibrazioni d’amore così potenti che avevano dentro di sé e fu come toccarsi, parlarsi negli orecchi, baciarsi. Tornò anche il  pianto di linfa, ma stavolta era di gioia pura.

Il ragazzo e la ragazza avevano finito di cenare e prima di dormire erano andati al bar del campeggio a vedere quello che potevano trovare come divertimenti.

Poi decisero di andare sull’amaca.

Era da un posto, ma loro, ormai esperti, riuscivano ad abbracciarsi in un modo tale che lo spazio risultava più che sufficiente.

Sdraiati, si guardarono negli occhi. C’era qualcosa di strano, qualcosa di buono.

Loro non potevano saperlo, le vibrazioni che si trasmettevano così intensamente i due alberi passavano per i loro corpi, per i loro sensi, come un massaggio rilassante.

Fu una notte speciale.

Furono 7 notti speciali.

Andarsene da quel luogo magico non fu facile e il ragazzo, come se avesse capito, lasciò l’amaca attaccata tra i due alberi.

Disse “il prossim’anno si torna, e voglio venire qui!!! Lascio l’amaca apposta…”

Ma non poteva vedere il sorriso dei due pini marittimi.

Cannocchiale

Quand’ero piccino, il mi’ babbo comprò un bel cannocchiale da un ottico, sì, un ottico vero e proprio, visto che a quei tempi vucumprà e cinesi erano ancora a casa sua.
A icchè gli servisse un s’era compreso, visto che poi lo mise da una parte senza quasi nemmen levarlo dalla custodia. Chi invece sapeva cosa farne gl’era il mi’ fratello che di notte si metteva dietro le persiane con quel coso e io non capivo perché. Fino a quando la mamma un lo rovinò di scapaccioni urlando che eran cose da sudicioni guarda’ le donne ignude alle finestre. Per contro, a me prese una curiosità e una voglia di usarlo tali da sgangherarmi quel pancino a sega che avevo, al punto di finirmi dalla diarrea. Poi capitò di trovare il cannocchiale sul tavolo, bello, solitario, ne’ buio della notte. Maremma zingana! un’occasione d’oro di quelle che, come dice il detto, fa il bambino ladro. E siccome c’avevo una fissazione nella testolina, lo presi attento di non essere visto per non soccombere alle potenti manate della mamma. La fissazione, presto detto, era che mi garbava un monte la fantascienza e volevo vedere se c’era qualche astronave che solcava il cielo nero della notte. Andai in terrazza e misi gli occhi al cannocchiale guardando verso il cielo. Mi prese un accidente: il cielo, che a occhio nudo mostrava solo alcuni puntini luminosi, con quell’attrezzo aprì la realtà di un universo sconosciuto, fatto di migliaia e migliaia di stelle. Ero sbalordito e affascinato. Poi d’improvviso…
“Ciao!”
M’impaurii, o chi mi stava salutando? Restai ammutolito.
“Ma tu se’ parecchio maleducato, bimbo! Si risponde ai saluti, un te l’ha insegnato la tu’ mamma???”
Il mi’ corpo ebbe preoccupanti sommovimenti intestinali. Chi mi parlava?
“Mi stai guardando e ti chiedi chi parla??? Son io, Cassiopea della Via Lattea!”
Porcaccia miseria, mi stava parlando una stella…” E quale sei, che ne vedo mille e mille?”
“Aspetta…” e vidi illuminarsi un puntino più degl’altri.
“Capito ora? Anzi, siccome siamo tutte parecchio chiacchierone, quando ora si parla ci si illumina un po’ più dell’altre così tu capisci chi chiacchiera.”
Chiacchiera?? Tutte? Altre?
“Ciao, ciccino? Come stai? Io son Betelgeuse che come nome fa cacare, ma son parecchio luminosa!”
“Io sono Orione, e mi gira sempre il coglione e non ripetere ‘sta cosa che non sta bene…”
Ero terrorizzato.
“Ciao, bimbetto, son Zeta Cefei, che paio l’ultima dal nome, ma son la meglio!”
“Ma smettila rincoglionita!!” “Ti garberebbe, Zeta della mi’ fava!” “Ma lo sai quanto t’hai da camminare per arrivare a quel che siamo noi?”
Bella discussione.
“Ehi, bimbe, badate un po’ chi c’è: Monocerotis, antipatica come poche, con quel nome a bischero…”
“Saranno bellini i vostri di nomi, brutte sottosviluppate, che come minimo siete metà di me… Supernova da record del mondo, inchinatevi alla mia grandezza!”
“Inchinati qui, su questi!!! Bischera, nelle botti piccine ci sta il vin bòno!”
“E icché significa?”
“Boh, lo dicono gli uomini, quelli che abitano sulla Terra…”
“Dove? Non dirai mica sul pianeta di quella mezza sega di Sole?”
“Di certo! Anche questo bimbetto è della Terra. Vedi com’è curioso?”
Accidenti, e ora che succede??
“Ragazzino, ma lo sai che son talmente grossa che se faccio uno sputacchio di calore, disintegro te, la Terra e il Sole in un attimo?”
“No, non lo so” rispondo, “però ho sempre pensato che le stelle fossero buone…”
“Continua a pensarlo, mi rassicura Orione, noi siamo qui da sempre, ci parliamo da milioni di anni luce di distanza che se parlo ora mi ascoltano tra tredici anni, ma da sempre regaliamo calore a mille luoghi abitati come quello dove tu sei e senza chiedere niente.”
“Ma tu mi pigli in giro, dai! Se fosse vero quello che dici, come potrebbe essere che vi ascolto senza nessuna pausa da aspettare?”
“Grazie a te, bimbetto! Che con il tuo cuore entusiasta ci stai cancellando le distanze. Quando guardi nel cannocchiale e ci vedi vicine, ecco che accade il miracolo, come se ci avvicinassimo tra noi fino a potersi parlare.”
“E tu così ci rendi felici…”
Continuarono a chiacchierare per un sacco di tempo e io che seguitavo a guardarle e ascoltare le loro parole. Fino a che non m’arrivò lo scappellotto della mamma che quasi mi ribaltò da com’era forte. “Ma icché tu ci fai qui a quest’ora??? Che fa’ di già come il tu’ fratello? Va’ a letto e di corsa!”
Iniziai a piangere, come una fontana sulle Dolomiti.
La mi’ mamma si preoccupò pensando di avermi picchiato troppo forte, ma unn’era per quello: mi dispiaceva che le stelle non potessero più parlarsi.
A letto non dormii tutta la notte al punto che la mattina mi videro con degl’occhi gonfi che sembravano canotti. Ma allo stesso tempo ero certo che avrei fatto di tutto per usare il cannocchiale e permettere alle stelle di parlarsi e parlare con me.
Per molto tempo è stato così.
Ho parlato con le stelle.
Poi son cresciuto.
Troppo.
Ed ho smesso.

Massaggio

Era curiosa, un po’ come tutte le donne in fin dei conti, e decise di prendere un appuntamento. Ne parlavano tutte le sue amiche e anche molti amici, a dire il vero.
Sembrava fosse miracoloso, anzi lo era certo visto l’entusiasmo con cui veniva pubblicizzato da coloro che avevano apprezzato e goduto del suo operato.
Alle 17,00 esatte (guai a tardare, non apriva) suonò al campanello del piccolo terra tetto che si trovava nella periferia nord della città. Dopo alcuni secondi, un click segnò l’apertura della porta d’ingresso, che grazie a un meccanismo automatico (almeno lei pensò questo) si aprì del tutto.
“Benvenuta, Nina!” disse una voce registrata.
Nina entrò e si trovò davanti un grande salone arredato con semplicità. Passarono pochi attimi prima che Giovanni facesse la sua comparsa.
Lui la salutò e senza proferire altra parola la invitò a seguirlo salendo le scale. Giunsero in quello che probabilmente era il suo studio. Fortunatamente Nina aveva avuto indicazioni precise su questo rito, altrimenti avrebbe certo avuto paura di tutto questo.
Giovanni, un bell’uomo sulla quarantina, sorrise e disse un “non temere” che sembrava leggere i pensieri di lei. Poi allungò il braccio destro a indicare un lettino da paziente che sembrava comodissimo. Lo era. Nina si distese senza sapere se supina o meno. “Come vuoi tu…” le disse Giovanni e lei si distese a pancia in su a guardare un soffitto affrescato.
Giovanni si mise a sedere davanti a lei e Nina non capiva. Si chiese quando avrebbe cominciato il massaggio e lui le rispose: “ è già cominciato. Chiudi gli occhi e non pensare a niente”.
Nina decise di mettere in atto ciò che si era promessa di fare, ovvero fare ciò che le si chiedeva senza esitare e così andò. Svuotò la mente e rimase in attesa.

È domenica. Nina sorride gioiosa e tutti i suoi amici sono felici di vederla così. Non la vedevano a quel modo da troppo tempo per farsi domande su ciò che stava accadendo: il dolore di una malattia corrode chi la porta e chi gli sta vicino. Si godevano quell’allegria ritrovata che riempiva i loro cuori. Nina ripensa spesso a Giovanni che in sei sedute l’aveva guarita. Non dal male, ma dalla paura. Il suo massaggio consisteva solo nel prendersi per mano. Da quel contatto, un’onda purificatrice risaliva al cervello e lì iniziava il vero massaggio. I lobi cerebrali e ogni sinapsi furono carezzati da mani invisibili lasciandoli liberi da pensieri e privi di timori.
Le prime sedute furono difficili, ma dalla terza in poi Giovanni riuscì a dare a Nina quello che lei si aspettava. Lei fu felice di aver seguito l’istinto e con esso il consiglio delle amiche. Nina sorride gioiosa a chi è molto più di un amico e questi la guarda innamorato.
L’unico cruccio di Nina è che Giovanni le ha ordinato di non dire a nessuno in cosa consiste il suo massaggio.
La gente deve trovare da solo il coraggio di fare, le disse.
“Hai ragione” gli rispose.

(il titolo del racconto alla fine)

Ana aveva ancora una età da poter mantenere dei sogni. Era tutto il resto che non andava. La Romania non le aveva riservato i migliori natali che uno possa sperare e i Carpazi, splendido disegno della Natura, erano troppo lontani dal benessere.

Adesso a quaranta anni e con un ottantenne rincoglionito da badare guardava il suo smartphone seduta sulla panchina di un giardino spelacchiato della triste periferia di una città italiana . Ogni tanto alzava la testa, un po’ per guardare il vecchio che sbavava come un sambernardo e un po’ per guardarsi attorno.
“Mi stai sui coglioni, puttana!!!” diceva ogni tanto il vecchio e lei sapeva che la cattiveria espressa era solo una malattia che coglieva gli uomini quando il cervello ormai funzionava a intermittenza.
“Testa di cazzo!” Gli rispondeva Ana. Poi si rimetteva a guardare il display.
C’era un bel sole quella mattina e lei ne godeva appieno chiudendo ogni tanto gli occhi e alzando il viso al cielo.
“Ciao” sentì dire. Aprì gli occhi e lo vide. “Eccomi qui!”
“Ciao… che sorpresa, mi hai quasi fatto paura… tu sei Leandro?”
“Che si vede?” disse l’uomo di una cinquantina di anni, vestito tutto sgangherato con i jeans mezzi strappati e la camicia blu tutta spiegazzata.
“Certo, sei quello delle foto anche se avevo paura tu fossi diverso…”
“Delusa?”
“No… anzi…”
“Bene, allora facciamolo!”
“Cosa???”
“Hai fatto la valigia?”
Lei rimase in silenzio un attimo. Ripensò alla proposta via chat di Leandro e gli parve pazzesca. Ma cosa rischiava in fondo?
“Si…”
“Ne ero certo… Ecco i biglietti, li vedi? Li ho fatti per noi due… prendi la valigia e andiamo.”
“Prima raccontami ancora di te…”
“E che ti devo raccontare… la mia vita? E a che serve se metà di essa è stata un sogno…” Aveva gli occhi vivi, ma in certi momenti persi in un vuoto strano. “Andiamo, dai!”
“ Ma Vitiello?”
“Chi???”
“Il vecchio…”
“Ah… ma lascialo qui, chissenefrega, non muore non preoccuparti…”
“Mi stai sui coglioni, puttana!!!”
“Testa di cazzo!!!… hai ragione. Aspetta prendo la valigia e andiamo…”
Leandro sorridendo prese dalla tracolla una canna di marijuana che sembrava un cannone. L’accese e aspirò offrendola poi a Ana che era tornata con la valigia.
“Vai, che ti fa bòno…”
Ana titubante la prese, timidamente aspirò e poi espirò sul vecchio: “Dai, cerca di stare meglio anche tu! Addio…”
E se ne sono andati.

“Tu sei il mio destino” disse Leandro, mentre erano già seduti sull’aereo per Bogotà.
“Andare in Colombia con 56 kg di Mariu Ana, cittadina rumena, senza essere come al solito messo in gabbia, è una tale soddisfazione che mi fa capire quanto tu sia nata per me, con codesto nome e cognome…”
“Mai stata in aereo… voleremo alto?”
“Più di quanto tu non creda…”

Titolo: Marijuana

Anni

Mi viene da ridere, ma evito di farlo. Dovessero accorgersi che lo faccio, si porrebbero troppe domande e cambierebbero l’atteggiamento verso di me. Non sarebbe più attenzione amorosa e non sarei più simbolo di una fedeltà senza limiti.
Mi accuccio e guardo la foto. Certo potevano metterne un’altra, si vede lontano un chilometro che era una giornata storta quella dello scatto. Sono certo che la pazienza è mancata, bastava averne un po’ di più, mica tanta, un briciolo e avrebbero trovato altri primi piani assai più rappresentativi. Me lo dico da diversi giorni, da quando vengo qui in visita, ma è inutile e senza rimedio quindi devo imparare a accettare quella scelta e cominciare a pensare che sia la più bella.
La lingua mi ciondola, è un caldo cane e se lo dico io ci potete credere. Mi giro dietro e osservo i tre o quattro giornalisti che speranzosi di aver trovato uno scoop, mi stanno fotografando davanti alla lapide e mi verrebbe di mettermi in posa, ma temo di esagerare. Allora per prenderli un po’ per il culo comincio a guaire come un coyote nel Grand Canion di notte in controluce della luna. Allora sì, giù foto, video e scritti sui taccuini.
Mi giro di nuovo e osservo i fiori recisi. Finti. Come era stato chiesto, almeno quello lo hanno mantenuto. Non si recide, non si uccide per un morto. Di veri solo un vaso di ciclamini di colore viola. Fiori eroici e resistenti e dal colore più giusto. Poi ci stanno bene, intonati al bianco del marmo. Da dietro sento avvicinarsi qualcuno. È una bambina che mi porge una ciotola con dell’acqua e le abbaio dolcemente per ringraziarla tra la meraviglia di tutti e le lacrime della piccola. Avrei voluto dirle che la vita è bella e che la sua gentilezza era il viatico per anni pieni di amore e gioia.
Come per me. Mi accuccio di nuovo e torno a guardare la foto della lapide. Si capisce dagli occhi che sono stati anni vissuti appieno, colmi di dolori e di gioie, di meraviglia e inquietudini, di sole e temporali, in un’alternanza di emozioni che nessun’altro potrà comprendere. Mi rendo conto che i fotografi si sono avvicinati e continuano a scattare immagini di un cane devoto che ogni giorno torna davanti alla tomba del suo amato padrone. Che gli esseri umani siano limitati m’è sempre stato chiaro ed è inutile pensare che possano intuire la verità. D’altronde io stesso non avrei mai creduto che tra tutte le possibilità, quella giusta fosse la reincarnazione. In un cane per giunta. È che mi incuriosisce molto osservare questo minuscolo luogo di culto di chi mi ha voluto bene.
Mi rialzo sulle zampe e comincio a scodinzolare. La bambina, una biondina dal viso bellissimo, capisce che ho già scelto lei e non poteva essere altrimenti. Un altro paio di visite alla tomba e poi chiederà ai suoi di portarmi con sé.
Mi proteggerà e la proteggerò, per mille e mille anni.