Tetto

Sono appena entrato nel solaio. Credo siano passati tutti gli anni della mia vita o quasi da quando la nonna mi ci portò l’ultima volta. Così basso che rischio di battere continuamente testate nelle travi che sorreggono il tetto, è un rettangolo di 8 metri per dieci, ricettacolo della più lunga delle malattie umane: quella dei ricordi.
Il pavimento è in legno, scuro e vissuto; una serie incredibile di scatole, scatoline, bauli e scrigni di varie misure sembrano riempire quello spazio infinito immerso in una oscurità che non fa paura.
È quel luogo a cui assegniamo l’arduo compito di portarci fuori da un vero che non ci aggrada. È la porta magica che ci conduce nel mondo dei nostri sogni e delle nostre fantasie.
Non parlo per me. Questo era il rifugio dei miei nonni materni. Ieri il nonno ha raggiunto sua moglie e tra tutte le faccende che seguono la dipartita di una persona, in qualità del più inetto, mi è toccato il compito di verificare l’integrità del tetto di casa dei nonni che sembra avesse delle rotture da cui passava acqua piovana.
Guardo per aria e poi guardo in basso, guardo per aria e poi ancora in basso e così resto. Mi attrae più ciò che si trova sul pavimento. Apro un bauletto rivestito di velluto rosso. Ci trovo decine di foto dei nonni durante i loro viaggi nel mondo dei più sfortunati. Pochi sapevano della loro bontà e del bene che hanno fatto e tra quei pochi anche io. Guardo con malinconia quelle immagini e so che ovunque in quel posto troverei qualcosa che racconta della loro straordinaria vita.
Torno a guardare per aria. Fuori è un piovoso giorno d’autunno e dovrei essere facilitato nel compito assegnatomi. Scruto attentamente il tetto fino a quando trovo la rottura. Aveva ragione il nonno a dire che c’era qualcosa da riparare.
Passa acqua, lentamente, gocciolando.
Quando abbasso lo sguardo sul pavimento nel punto in cui cade la pioggia mi rendo conto che forse quel luogo è davvero magico: vi era nato un fiore dai petali di un rosso intenso che sembrava spuntare dal legno. Cresceva assorbendo quel liquido del cielo. D’un tratto un raggio di sole sembra dare colore al fiore. Probabilmente le nubi si sono diradate liberando l’astro dal grigio della pioggia.
Guardo il tutto, immobile.
Poi esco e vado dai parenti.
“Tutto a posto, il tetto non ha problemi di sorta.”

Rapito

Se non paghi capace ti taglino la fornitura d’acqua. Sarà per questo che quando è accaduto mi stavo grattando il posteriore che mi pizzicava da morire.
 
Insomma, ero lì che mi sfruconavo il sedere come se usassi un frullino tagliaerba quando è apparso il raggio di luce.
 
“Cazzo è??? “ mi son chiesto, ma non ho fatto a tempo a rispondermi che ero già sull’astronave.
 
Alieni, che brutti a quel modo non se l’è immaginati neppure Asimov nel pieno della maturità letteraria, mi hanno rapito per non ho capito bene cosa.
 
All’inizio ho patito le pene dell’inferno, col le mani bloccate e il culo con l’infiammazione, ma poi devo dire che è andato tutto molto meglio.
 
M’hanno lavato, profumato, sfamato, vestito (coi loro vestiti che se m’avessero visto Dolce e Gabbana copiavano subito) e insegnato la loro lingua, anzi no, hanno imparato loro la mia visto che, quando parlavano, io non capivo una sega.
 
E’ stato bello, eh!
 
Solo che gl’erano un po’ ingenui. Allora gli ho insegnato qualche astuzia per sopravvivere, un po’ di furbizie, tipo tirarlo un po’ nel culo agli altri per avere il massimo col minimo sforzo. Sempre grattandomi e anzi con rutti e corregge.
 
Oh, non ne sapevano niente di queste cose.
 
E poi anche il sesso. Si riproducevano, ma l’attrazione era cosa che non conoscevano. Gliel’ho insegnata io. Gl’è garbata così tanto che hanno cominciato a fregarsi il compagno gl’un con gli altri… vabbé, erano alieni che avevano raggiunto l’apice della ragionevole convivenza, ma che palle però!!!
 
Una botta di vita gli ci voleva!!
 
Solo che gl’hanno esagerato… hanno cominciato a pigliarsi a schiaffi… schiaffi per modo di dire, erano senza mani, piedi e zigomi… insomma essendo evoluti hanno preso a tirarsi di laser e loro li hanno potenti i laser…o meglio, li avevano… in un minuto e venti secondi hanno cancellato dal loro pianeta una forma di vita evoluta e millenaria…
 
Ne è rimasto solo uno.
 
Che mi ha riportato sulla terra prima di andare a suicidarsi buttandosi con la sua astronave alla velocità della luce su Vega.
 
Mi ha lasciato perplesso solo la sua ultima frase: “Con tutti quelli che potevamo rapire…” ma non l’ha finita e il senso mi rimarrà oscuro per sempre.
 
Spero mi abbiano riattaccato l’acqua.

Girasole

In effetti fa impressione. Beh, tutta la faccenda mi appare inquietante, non in senso negativo, no, però mi si deve concedere che quello che sto per fare potrebbe essere valutato non bene per quanto mi riguarda.

Comunque, sono davanti a quel campo di girasoli e dietro, a una decina di metri da me, Carletto che mi guarda e fa cenni come a dire “e vai, su, dai!”.

Vedere migliaia di fiori voltati verso il cielo e più precisamente verso l’astro di fuoco e uno solo di essi girato da tutt’altra parte è immagine abbastanza particolare. Lo stesso effetto che aveva fatto a mio figlio Carlo, otto anni, seconda elementare. Se lo dico, se preciso anni e classe frequentata non è tanto per dire, c’è un motivo.

È che Carletto, meravigliato da questa posa non convenzionale di quell’unico fiore, non aveva potuto fare a meno di fare quello che ogni bambino fa con la massima semplicità: chiedere al fiore perché guardava da un’altra parte.

Beh, non è nemmeno questo, il problema, lo è la risposta del girasole: “Guardo la luna!” disse a Carletto.

Il quale continuò un lungo colloquio nel quale il fiore confessò il suo amore per il satellite.

“Ma io so che il sole dà il calore necessario per voi…”

“E’ vero, ma l’amore non è riconoscenza, l’amore non è ricevere ciò che ci serve. L’amore è qualcosa che non è possibile spiegare, è un sentimento molto diverso, al punto di accettare anche solo di guardare ciò che ti è impossibile vivere e a esso donarsi…”

“La luna?”

“Sì, che io guarderò riempiendo la mia corolla della sua pallida luce nei giorni come questo o che io aspetterò nella notte senza che alcuno possa vedere la mia gioia per lei…”

“Ma non è che morirai?” domandò Carletto.

“A tutti capiterà, se non altro lo farò contento.”

Ora va bene che Carletto è un ragazzino intelligente, ma discorsi del genere mi sono sembrati un po’ troppo avanti per lui. Ho cercato di capire chi fosse quella deficiente che poteva avergli fatto certe considerazioni, ma lui parlava convinto del girasole e si è anche un po’ incazzato perché non lo credevo. Allora, gli ho detto, andiamo a vedere questo girasole ed eccomi qui.

Davvero c’è uno solo di loro chiaramente voltato verso questa luna di giorno.

Carletto continua a spingermi a fare quello che mi aveva chiesto. Sono completamente andato perché lo faccio.

“Scusi signor girasole, perché è voltato verso la luna?”

Chiaramente nessuna risposta. Mi volto verso Carletto che chiede che insista.

Insisto. “ Può dire anche a me perché?”

Nessuna risposta, solo una brezza leggera tra le foglie.

Penso che il deficiente sono io e faccio per andarmene.

Due metri e sento dietro di me “L’amo!”

Mi giro.

Non è possibile…

Mi allontano velocemente e quando raggiungo Carletto gli dico che aveva ragione, ma che deve restare un segreto, tra me, lui e il girasole.

Altrimenti ci rinchiudono in un manicomio, ma questo a Carletto non l’ho detto.

Juke Box

Mi piace questa piazza. Santa Maria Novella, si chiama, almeno credo. Perfetta per me. Apro la custodia, tiro fuori la chitarra e subito dopo espongo il cartello “Juke Box. 2 euro per la canzone che volete.”

 

Presumo possa ritenermi fortunato. Credo di non poter pensare diversamente se guardo nel complesso lo svolgersi della mia vita. Certo se dovessi basarmi sul fatto di non sapere chi è mio padre e che mia madre, una ragazzina, è morta quando avevo sei anni lasciandomi solo e senza nessun altro parente, dovrei valutare diversamente il mio destino. In Brasile ce n’erano e ce ne sono tanti, come me. Non solo in Brasile.

 

Il primo che fa la richiesta di solito è anche il più curioso, o almeno lo è certo nella vita: si avvicina quasi sorridendo tra l’imbarazzato e l’orgoglio del suo coraggio e chiede cosa significa il cartello. Nell’italiano stentato che posseggo gli dico che può chiedere una canzone qualunque e io la suonerò. Come sempre il primo, che crede di essere un tipo ganzo, pensa bene di chiedermi una canzone quasi sconosciuta, così per mettermi in difficoltà e farmi fare una brutta figura. Dovrei dirgli che non è poi originale in questo suo atteggiamento, ma lascio correre. Mi chiede se conosco “Sei come il mare “ di Stefano Zarfati. Gli rispondo di sì e inizio. Non canto, faccio schifo come voce, ma le mie mani si muovono in un arrangiamento che avrebbe fatto invidia all’autore. Devo dire che la canzone proprio non mi piace, ma capisco che era solo una scelta per mettermi in difficoltà.

 

Sopravvivere e crescere era stato di per sé un miracolo, senza nessuno che davvero si prendesse cura di me. Sarà per questo che non feci nessuna resistenza quando un tipo alto e secco mi prese per mano e mi portò via dalla favela quando avevo undici anni. Prometteva una vita bella e felice in cambio di un lavoro poco faticoso e piacevole. Solo un ragazzino stanco e bisognoso avrebbe potuto crederlo. Io e molti altri come me. Mi portò in aereo, che io avevo visto solo da terra immergersi tra le nuvole e nei miei sogni e invece in quel momento era vero e vi ero sopra. Fu un viaggio lungo, verso un luogo che non ho mai capito quale fosse.

 

Il secondo di solito, fa meno il ganzo. Vista l’abilità che ho con lo strumento pensa bene di spendere al meglio i due euro e mi chiede un brano di Santana, Black Magic Woman. Questa è certo più conosciuta, ma senza spartito gli sparo un assolo che fa strabuzzare gli occhi non solo al richiedente, ma a tutti quelli che si erano fermati intorno a me. Le mie dita si muovono veloci e la musica si diffonde come un fluido benefico nelle orecchie di chi ascolta. Appena finita l’interpretazione l’applauso parte quasi timido di non essere abbastanza intenso per l’emozione ricevuta. Giunge il terzo ragazzo con due euro e mi chiede “Hotel California”. Gli sorrido e gli chiedo se la vuole classica o a modo mio. Non ci pensa un attimo e chiede la mia interpretazione. Alla fine ha le lacrime agli occhi, come avesse assistito a qualcosa di eccezionale.

 

Lo stabile dove andai a vivere coatto per quattro anni era stato costruito tra le cime di una catena montuosa quasi insormontabile e impossibili da lasciare. Non a caso era lì visto il suo fine. Eravamo tanti e di varie età con un unico comune denominatore: eravamo soli al mondo. Lì per lì ero felice di aver abbandonato un luogo che mi avrebbe ucciso molto presto, ma iniziai ad avere strani sospetti quando mi impedirono di avere contatti con gli altri che si trovavano in quel luogo. Poi avvennero cose che mi turbarono: mi sottoposero a visite e controlli, mi fecero test attitudinali e fisici. Poi iniziò quella che chiamavano “terapia”: mi legavano a una poltrona e con attrezzi strani attorno al mio cranio, bombardavano il mio cervello con non so ancora cosa.

 

La folla è triplicata, ma ormai non è una novità per me. Non me ne vanto, chiaramente, ma devo sostenermi in qualche modo e questo è il più semplice per me. Pericoloso, ma semplice. Sono alla nona richiesta e alla decima cambio posto. Devo farlo per non dare vantaggi ai miei inseguitori. La ragazza, bellissima mi chiede l’assolo di “Firth of Fifth” dei Genesis e io le regalo una interpretazione che lei riprende col telefonino in un video che avrà un successo clamoroso su YouTube e firmando forse la mia condanna. Ma detto tra noi, chi se ne importa.

 

Vivere in una favela ti cresce a dismisura rispetto alla propria età. Col tempo capii che c’era qualcosa di terribile in quel luogo. Qui torno alla affermazione di essere in fin dei conti fortunato. Fortunato di essere stato scelto per un esperimento di condizionamento mentale, per l’esattezza il trasferimento di dati e di conoscenza musicale e abilità motoria. Fortunato per aver superato al meglio questa violenza fisica, cosa che non è accaduta a molti altri presenti. Sottoposti a utilizzo di farmaci per la cura di malattie o a esperimenti atti a verificare la resistenza umana, avevano avuto un destino assai meno benevolo. Avevo cercato di incontrarmi con quei miei compagni di sventura, ma la rete di sicurezza era potente, anche perché era una organizzazione che godeva della protezione di tutti i potenti del mondo. “Il sacrificio di pochi, per il meglio di tutti”, sentii dire per caso a un paio di visitatori ben vestiti. La favela mi aveva insegnato molte cose, tra cui scappare. Nessuna montagna mi avrebbe fermato o ucciso. Scappai.

 

Finito l’assolo di The Wall, ho chiuso velocemente la chitarra nella custodia. Mi sembra di vedere facce poco raccomandabili e vado via con una rapidità che sconcerta gli spettatori delusi di non poter sentire altro suonato in maniera così eccezionale. Non è merito mio, ho pensato, e vi farei schifo se sapeste il perché sono così bravo.  So che mi cercano e non per farmi vivere. Tra un’ora ho un appuntamento con uno che conduce una trasmissione televisiva e credo che sarà lieto di ascoltare certe rivelazioni. Sempre io riesca a vivere ancora per un’ora.

 

 

 

 

Orologio

Seduto sulla panchina della fermata dell’autobus guardava il sorgere del sole. Una giovane cinese stava timidamente in piedi a un paio di metri da lui.

Non era riuscito a dormire e aveva deciso di vestirsi, prendere alcune cose e uscire di casa quando ancora la notte non aveva finito di salutare e adesso era lì alla fermata in attesa del 166.

Guardò l’orologio. Alzò la testa e vide il arrivare il bus.

Montò senza salutare alcuno, nemmeno la giovane orientale. Rimase in piedi nel corridoio centrale del veicolo fino a quando non pigiò il pulsante della fermata prenotata. Scese e guardò l’orologio. Si girò intorno, poi si diresse all’interno della stazione ferroviaria. Fece un biglietto alle macchine automatiche e andò ai binari ad aspettare il treno. C’erano decine di pendolari, alcuni silenziosi, altri parlavano sottovoce, ma tutti in ossequioso rispetto del faticoso inizio giornata.

Arrivò il treno e senza dare precedenza ad alcuno, montò su uno dei vagoni, corse a sedere su uno dei pochissimi posti liberi e appoggiando la testa a un finestrino, chiuse gli occhi. Passarono quasi tre ore. Scese all’ultima fermata del treno anche grazie a uno scossone del capotreno che lo svegliò dal torpore dei suoi pensieri. Senza ringraziare o scusarsi scese dal treno e guardò l’orologio. Uscì dalla stazione, prese un taxi, scrisse su di un foglio la destinazione e richiuse ancora gli occhi.

Giunto all’aeroporto pagò il tassista e senza aspettare il resto entrò. Guardò l’orologio e poi si diresse alla biglietteria. Al suo turno scrisse la destinazione, se c’era posto e a che ora la partenza. Lo presero per muto e la commessa rispose gentilmente alle sue domande. Le dette il passaporto, pagò con la carta di credito e senza salutare prese il biglietto per andare su una poltrona ad aspettare il check-in.

Guardò l’orologio quando era il momento dell’imbarco. In aereo aveva il posto vicino al finestrino, ma tenne aperti gli occhi solo per un attimo, quando le nubi si fecero distesa bianca verso l’infinito.

Giunto a destinazione varie ore dopo, guardò l’orologio. Superò la dogana, unico senza bagaglio, o forse era quello con il più pesante, e si guardò attorno.

Comprese di essere nel luogo giusto. Un tizio chiese se avesse bisogno di essere portato da qualche parte. Aveva un carretto tirato da un cavallo malfermo ed era il mezzo di trasporto perfetto. Gli rispose di si.

Passarono circa un’ora e mezza prima che scendesse dal carretto. Guardò il paesaggio. Nessuna smorfia sul viso che indicasse una certa emozione.

Guardò l’orologio, ma per l’ultima volta. Se lo tolse dal polso e lo dette al tizio in pagamento del passaggio. L’altro sgranò gli occhi non avendo mai ricevuto in vita sua una cosa preziosa a quel modo e ringraziò e ringraziò e ancora ringraziava mentre lui si girava e si allontanava senza dire niente.

Strappò tutto quello che aveva, passaporto, patente, carta di credito sotterrandoli vicino a un albero che non aveva mai visto prima e al quale si appoggiò. Chiuse gli occhi, ma stavolta dormì.

Il giorno dopo sarebbe rinato.

Ron d’Aleppo

Bana, otto anni, teneva per mano sua madre, lungo le vie di New York.

In qualche maniera si poteva dire che quella donna aveva salvato la sua piccola da una probabile morte con quel suo utilizzare i social per mostrare gli orrori di una guerra tanto assurda quanto crudele e feroce.

Bana postava tweet, chiaramente aiutata da sua madre, che raccontavano l’incomprensione bambina per una violenza che regalava solo la paura e l’innaturale senso di morte a chi non sapeva se avrebbe visto il sole del giorno dopo.

Quando Ron le vide camminare circondate da giornalisti e fotografi, vestite bene e sorridenti, comprese quanto questo pianeta sorprendesse per i suoi paradossi. Finì il gelato che stava mangiando seduto ad un tavolino in alluminio in quella giornata di bel sole e tornò a casa. Qualche giorno dopo sarebbe partito.

L’ambasciata americana a Damasco si trovava in centro città e per come stavano le cose, Ron non avrebbe dovuto allontanarsi dalla sede senza un accompagnatore e con un tragitto preciso e autorizzato. Invece intraprese un viaggio di quasi 400 km con una guida che con un po’ di fortuna gli avrebbe fatto superare gli ostacoli probabili durante il tragitto.

Erano le sei di un pomeriggio soleggiato quando arrivò in una via minore della zona orientale della città. Bussò alla porta della casa di Amina. Aprì proprio lei, una bambina di otto anni, compagna di scuola di Bana dalla quale aveva avuto l’indirizzo. Fu sorpresa da quella presenza e urlò pensando che fosse un “cattivo” che uccide. Fu Sharid, la guida, a spiegarle chi fosse Ron e a tranquillizzarla. Altri due bambini, probabilmente fratelli della piccola, era accorsi alle urla con lo sguardo aggressivo di chi sa difendersi. Quello fu il primo incontro.

Dopo un mese e mezzo Ron era diventato un punto di riferimento, una icona, una specie di dono divino. Mentre i bombardamenti continuavano senza pietà, lui correva a destra e a sinistra ad aiutare chi aveva bisogno, senza alcun timore, senza paura. Soprattutto fornito di una tecnologia avanzata con la quale gridava al mondo, tramite i social, l’orrore che l’Uomo sapeva seminare. Faceva parlare i bambini, che in arabo o in un inglese stentato traducevano i loro sguardi impauriti in parole fatti di urla strozzate e di richieste di aiuto. Twitter, Facebook o Instagram che fosse, Ron voleva che la distruzione arrivasse a incrinare ogni certezza e serenità di più persone possibili. Guardate e smuovetevi, maledizione! Sembrava dicesse così a ogni post.

 

Il terzo mese, era una sera fredda e priva di stelle, Ron prese vicino a sé Amina e, assieme a Sharid, raccontò a lei e ai suoi fratelli della sua malattia.

“Mi porterà in cielo presto, molto presto. Ve lo dico perché voglio che viviate questi miei ultimi giorni con la gioia che mi state dando voi, con la vostra presenza e i vostri sorrisi. Ve lo dico perché dovete comprendere che anche la morte, a volte, serve a difendere la vita. Quando un signore dal camice bianco mi rivelò che il paradiso mi aveva convocato e poco dopo lungo il mio cammino verso casa incontrai la tua amica Bana, compresi che era qui che dovevo venire. Per dire al mondo di darvi la possibilità di farvi giocare tranquilli lungo le strade di questa meravigliosa città.”

Si abbracciarono l’un con l’altro. Poi venne la notte e dormirono, come sempre con l’orecchio teso a un possibile bombardamento.

La mattina dopo Ron invitò Sharid a tornare nella sua calma città natale, ma questi rifiutò.

Rimasero attivi insieme per altre due settimane.

Poi Sharid continuò da solo.

oltre il limite

Azzerare il tempo dei pensieri

lavorando oltre il limite

mi aiuta nei giorni dei temporali

 

Ci sono stagioni nel cuore

fatte di cieli inospitali sopra

la mia testa mentre cammino

 

Solo la fatica non mi fa sentire

la pioggia acida delle lacrime

e il sonno che arriva chiude pietoso

gli occhi di un’anima inquieta

Scrivere

Seguivo con gli occhi

la linea nera della Bic

mentre

dimentico di ogni regola

tracciavo il percorso

dei miei pensieri

 

è vero che nessuno

avrebbe trovato un senso

in quelle giravolte d’inchiostro

ma cosa importava?

parlavo con me stesso

e con nessun altro

 

al termine il foglio

presentava i profili acuti

delle fitte dolorose

che il mio stomaco

gonfio di niente

non riusciva a digerire

… vien di notte con le calze rotte

Mi devo ricredere, a volte.
Non che sia predisposto a farlo senza rifletterci sopra, ma in certe occasioni mi è impossibile non farlo.
Ricredermi.
Quando mi ha svegliato, lo ha fatto così dolcemente che pur avendola così vicina non mi sono impaurito. L’ho messa lentamente a fuoco e il suo viso così brutto da far senso, non mi ha spaventato. Aveva gli occhi dolci, fatti di uno sguardo gentile, che mi chiedevano di non fare rumore. Mi ha sussurrato che aveva bisogno di chiedermi una cosa e allora sono sceso dal letto evitando di svegliare chi avevo vicino.
Sono andato nella zona notte e la Befana si è mostrata a me in tutto il suo orrido essere, eppure non ho avuto un qualche moto di terrore, solo di curiosità. Mi pareva solo imbarazzata, quasi con le lacrime agli occhi.
“Chi sei?” le chiesi, volendo mostrarmi freddo all’apparizione, come in effetti e stranamente mi sentivo davvero.
“Mi devi scusare, ma devo chiederti una cosa: sono sicura di esserci sempre passata di qui, ma stanotte non trovo nessuno ad aspettarmi…”
La vedo inquieta e cerco di comprendere la situazione. Poi nella mano le vedo una calza tutta rattoppata, piena di chicchi “senza glutine” e capisco che cerca la mia piccola… piccola per me, per sempre.
“Amica mia – le dico – chi cerchi è lontana da questa casa, da ieri è nella sua, di casa…”
La vecchia, rugosa come i campi arati a primavera, sembra rasserenarsi. Adesso ha una giustificazione al suo sbaglio. Io, invece, mostro una espressione meno allegra.
Riguardo la Befana e d’un tratto la magia della sua presenza torna ad essere la situazione assurda di un evento incredibile. Non è possibile che esista davvero. Mi giro su me stesso come se lei non ci fosse e torno a letto accucciandomi come un cane solitario. Sento un soffio di vento. Mi addormento

Calcolo

La sera era lui che chiudeva il negozio. Era come una magia, quella che accadeva quando dava l’ultimo giro di chiave: si spogliava di un “lui” che era la sua immagine per gli altri e tornava a essere il vero “sé stesso”. Smetteva quel sorriso con cui incrociava gli sguardi degli altri e che lo rendeva in qualche modo piacevole agli eventuali clienti; copriva le mani, che salutavano mezzo mondo ogni giorno, mettendole nelle tasche di pantaloni ormai sformati e lontane dalla vista di chiunque; incurvava le spalle sempre dritte e perdeva la parola, lui che non stava mai zitto.

Negli ultimi tempi non usava più l’auto per tornare a casa, si faceva a piedi i cinque chilometri qualunque fosse il tempo: il caldo atroce dell’estate o il gelo di un inverno inospitale. Erano circa quaranta minuti di camminata durante la quale i pensieri, azzerati durante le ore di lavoro, tornavano prepotenti a fargli compagnia. Pensieri che si acquietavano quando suonava alla porta e gli aprivano.

 

Aveva capito e vissuto il mondo secondo il suo metro e si era trovato sconfitto, senza possibilità di resa. Perché, pensava, ho fatto sempre un piano, un calcolo su cosa fare.

 

Quella sera c’era la superluna, un satellite che, come accade ogni tanto, si veste di maestosità, si illumina di tutti i riflessi del sole e cancellando l’egoismo dell’universo ce li regala senza chiedere niente. La guardava e sapeva che lei non lo faceva davvero un calcolo sulle sue azioni e come lei avrebbe dovuto fare in precedenza. Non era il tempo dei rimpianti, però, solo quello di volersi ancora un po’ di bene per non soffrire troppo. Camminando si vide riflesso sulla vetrina di una ditta di pompe funebri e si fece quasi paura. Decise che non avrebbe più girato la testa di lato, ma avrebbe guardato avanti a sé.

 

In quel pomeriggio, durante la fase vitale del nulla (come la chiamava lui), il telefono aveva squillato come fosse stata una bomba del coreano, frantumando il velo che lo divideva dal mondo reale proteggendolo da ogni pericolo che poteva derivarne. Come un bambino nudo con i piedi nella neve, rispose e ascoltò. I sensi di colpa e il terrore di essere fonte di dolore per chi non avrebbe mai smesso di amare erano la lama che affondava nel suo cuore. Era un tutto che non aveva calcolato. La voce dall’altra parte del microfono si mostrò comprensiva, chiedendo solo di poter capire a sua volta, ma lui non sapeva farlo o forse semplicemente non poteva. Ci fu un saluto e la telefonata terminò.

 

Mancavano duecento metri a casa sua. Si fermò su una panchina che puzzava dell’orina di un cane e tornò a guardare la luna. Chissà se lo stava facendo solo lui. Nella pazzia che coglie tutti, nessuno escluso, vide sulla sfera bianca il riflesso di un viso perfetto. Tolse una mano di tasca e lo salutò. Si alzò e si avviò verso casa, cosciente che mai avrebbe potuto fare qualcosa istintivamente, senza un minimo di calcolo.

 

Si odiò, per questo.