L’ennesimo caso (di coscienza) del commissario Cresti.

Nella nuova costruzione in via Firenze,  il commissario Cresti aveva appena finito di trasferire gli effetti personali nell’ufficio a lui assegnato. Pareti bianco sporco e pavimento in monocottura finto cotto. Si mise a sedere sulla poltroncina Ikea davanti alla scrivania Ikea in finto mogano . Guardò la foto di sua moglie e con un movimento incerto spostò il portafoto in una posizione che gli parve più giusta. Poi osservò la parete a sinistra, completamente vuota e priva di finestre e si ripromise di riempirla con un poster (“Anche questo Ikea…”). Si appoggiò allo schienale della poltrona e girò all’indietro la testa chiudendo gli occhi.

Suonò il telefono.

Non ebbe un sussulto, aspettava la chiamata, ma si chiese “perché toccano tutte a me?”

Alzò la cornetta e ascoltò la voce dall’altra parte.

“Ok, falla venire.” Voleva dire dove ma non si ricordava neppure lui esattamente come indicare il nuovo ufficio.

Passarono tre minuti e venti quando sentì bussare.”Avanti!” disse.

La bionda dai lunghi capelli entrò timidamente. “Posso?”

“Entri… si accomodi.”

Cresti la guardò: una quarantacinquenne bella come il sole, dalla chioma color del sole e lineamenti dolcissimi, non fosse stato per la cicatrice che le partiva dall’orecchio sinistro fino quasi alle labbra di una bocca che pareva disegnata da Michelangelo.

“Le rubo pochissimo tempo. Sono il commissario Cresti e l’ho convocata perché stiamo investigando su una serie di omicidi dei quali presumo abbia sentito parlare.”

“Non saprei. Mi specifichi a quali si riferisce.”

“Un serial killer che ha come obiettivi maschi sposati o comunque legati a una donna, uomini riconosciuti violenti e spesso accusati di stalking e di minacce. Qualcuno, riteniamo sempre il solito, ne ha uccisi tredici ad oggi e brancoliamo nel buio…”

“E io cosa c’entro?”

“Niente se non per il fatto che lei è persona che ha subito violenze di questo genere e ritengo importante ascoltare le sue esperienze per poter avere delle indicazioni che mi possano permettere di arrivare alla soluzione di questo problema…”

“E cosa le fa pensare che abbia piacere che questo accada?”

“Il senso della giustizia, direi…”

“Il senso della giustizia? Commissario, lei vuol sapere cosa significhi il terrore di una vita in comune con qualcuno che dovrebbe amarti e che invece si fa il mezzo della tua condanna a morte? Vuol sapere il dolore di una pelle lacerata e di uno sguardo nella notte che taglia come una lama affilata il desiderio di una vita felice? Vuol sapere dei lividi e dell’ossessione maligna solo per fermare quel killer? Il senso della giustizia? Quale, quella che non sa proteggere noi donne e che piange loro e a volte anche i figli perché non si poteva fare altro? Cosa crede preferisca fra il killer e il senso della giustizia? Non ho voglia di dirle nulla di me. Se ha qualcosa da domandarmi relativamente ai fatti vedrò se risponderle, altrimenti le ripeto non le dirò niente di me.”

Cresti osservò la fermezza degli occhi di quella donna. Sapeva che lei ormai era una donna libera, il marito che voleva ucciderla era davvero maldestro e nella colluttazione si era ferito mortalmente. Così era stato asserito e confermato in sede di processo.

Alina, così si chiamava, era tanto bella quanto sconvolta.

“Va bene, la capisco. Se dovessi avere bisogno di lei le farò sapere. La ringrazio per essere venuta.”

Lei salutò e lui la guardò uscire.

Tredici vittime, tutti uomini, violenti e aggressivi. Pazzi senza un minimo di razionalità. Morti, mentre vive erano le loro vittime, mogli e figli.

Il killer però va preso; Cresti sapeva che il suo intuito non lo tradiva mai e sapeva che era sulla strada giusta.

Si appoggiò sullo schienale della poltrona e a testa all’indietro tornò a pensare inquieto: “Perché toccano tutte a me?”

Lento

Se ti trovi alla stazione troppo in anticipo, sprovvisto di un qualcosa che ti piaccia leggere a te che il telefonino ispira solo odio, ti rendi conto di una cosa: il tempo a volte scorre troppo lento.
Manca un’ora. Il brulicare sonoro dei mille e mille viaggiatori che affollano questo luogo si fa brusio fastidioso in quel suo essere incomprensibile.
Sarà che è irrequieto e impaziente, ma si rende conto di comportarsi scioccamente, non può passare questa attesa in questo modo sofferente.
Si siede su una panchina. È libero un solo posto, ma è più che sufficiente. Si mette di fianco a un enorme negro, fatto di muscoli scolpiti e sguardo profondo, del quale non riesce a individuare subito la nazionalità. Prende almeno due posti e alla sua sinistra c’è una donna, probabilmente sua moglie.
Si parlano e comprende che sono di provenienza africana. Raddrizza la schiena per allungare i muscoli del collo. Osserva il gigante tenere in collo una bambina che avrà circa due anni e con la quale ride, scherza e parla con una dolcezza che mi ricorda subito quanto l’apparenza inganni. Non l’avrebbe mai detto che fosse a quel modo. La bambina ride sguaiata, una espressione così rara di felicità che non può non pensare di paragonarla un po’ a quello che sarebbe successo a lui tra un po’. Almeno spera.
Con occhi e spirito diverso, si mette a guardare il mondo circostante e la gente che ne fa parte. La stazione di una grande città se sei attento ti regala tutta la fauna di questo mondo. Angeli e diavoli, bianchi e neri, allegri e disperati, ogni sorta di caratterista prevista nella specie umana. Il tempo, però, passa ugualmente lento. Guarda il binario 6 con una ansia che divora ogni suo pensiero. Si dà due manate sopra la testa, come per svegliarsi, ma era solo per scrollarsi da questa inquietudine. Respira profondo mentre il negro di dimensioni ciclopiche si alza per andare al binario 9, direzione Roma. La bambina, anche lei nerissima, lo guarda. Sarà proprio per questo che il sorriso che gli fa si fa luce accecante su fondo buio. La saluta timidamente, temendo reazioni isteriche (e mortali) del padre.
Mancano venti minuti.
Sul binario 5 arriva un regionale. Si aprono le porte e scende una fiumana di gente. Piano piano, tutti si dirigono verso l’uscita e solo allora si accorge di un anziano che davanti alla porta aperta di un vagone si guardava preoccupato a destra e sinistra. Osserva meglio e comprende il perché. si alza rapidamente dalla panchina e corre verso di lui. “Le do una mano io…” gli dice e l’aiuta a far scendere la carrozzina con sua, credo, moglie.
Lo ringrazia e si rammarica di non poter dimostrare diversamente la sua gratitudine.
Gli sorride dicendogli che era un dovere e lo saluta, per non imbarazzarlo oltre.
Nel tornare dove si trovava prima, “Mi hanno fregato il posto sulla panchina, maledizione…” pensa.
In piedi, passa un altro quarto d’ora respirando e ricordando. In certi momenti non si può far altro, ma che pena questo tempo che scorre così lento.
Ore 09,37, binario 6. Preciso, spaccando il secondo, arriva il treno.
La motrice si avvicina alla fine del binario con una velocità snervante, poi si ferma e apre le porte. Il cuore batte a mille, ma la vede subito.
Il biondo nella luce della mattina sembra un’aureola divina. Le cammina incontro alla velocità di un podista olimpico.
Avvicinandosi, gli viene quasi da piangere nel mettere a fuoco la bellezza del suo viso.
L’abbraccia, la bacia, si abbracciano e si baciano.
E ancora si baciano e si abbracciano.
Dopo un po’, lei si stacca e gli dice civettuola: “Ciao… è da cinque minuti che siamo qui… non vuoi portarmi da nessuna parte?”
Lui quasi sviene al timbro della sua voce, immagina la gioia di quel giorno e le risponde: “Cinque minuti? Di già? Ma come caspita corre veloce il tempo???”

le parole non dette

Ti lascio le parole non dette

perchè perderle sarebbe peccato

senza possibile perdono

raccontano di te

della tua bellezza

che vola nel vento

a fecondare le piante più colorate

che io conosca

tappeto di un arcobaleno

disteso a terra

porta dritto all’anima

dove un sorriso incredulo

ancora si chiede

com’è che sei capitata nei miei sogni

fino a farne vero

ma non sono queste le parole non dette

hanno piuttosto il suono timido

di un amore ragazzo

raccontano di un fiore che ancora

non ho saputo dare

e di una passeggiata lungo bordi

d’un fiume troppo colmo d’inverno

sono quelle parole che tremano

nell’uscire da un bocca incerta

come nuvola a temere di coprire il sole

fatte di ombre e di luce

e di me

eccole qui le parole non dette

e se ti piacerà ascoltarle

farai di me

sorriso nell’aria.

Luce e tenebra

È che quando si perde il posto di lavoro, specie quando te lo dicono all’improvviso in maniera inaspettata, capita che il viaggio di ritorno verso casa prenda forme e significati incomprensibili. Lo ricordo come un momento mai esistito, una pausa spazio temporale, una assenza totale dell’universo. Mi ritrovo dentro il letto senza rammentare niente di quello che ho vissuto nel frattempo e di come ho fatto a trovarmi qui. La luce leggera della abat-jour illumina discreta la camera da letto. Sento voci in cucina, ridono alle battute dei soliti deficienti che fanno televisione spazzatura. Voci di donna e di tre figli di età adolescenziale a cui presumo di non aver raccontato niente.

Mi distendo nel letto e, in pigiama, prendo la posizione di un morto in bara, le braccia incrociate sul petto. Smetto di respirare. Chiudo gli occhi.

La lampada rompe i coglioni, smorza l’effetto che cerco. Riapro gli occhi e la spengo.

Richiudo gli occhi. E’ una oscurità profonda, rotta dal casino di famigliari privi di preoccupazioni. Mi metto i tappi che utilizzo contro il russare terrificante della mia signora e il buio d’improvviso si fa tenebra.

Tenebra profonda.

Il niente.

Il vuoto.

Adesso non trattengo il respiro, mi manca proprio.

Se questo è l’effetto, è terribile.

D’improvviso, come grazie a una rivelazione divina, mi ricordo una cosa fondamentale: io sono vivo.

Apro gli occhi, scendo dal letto, accendo la lampada piccola, la lampada a led di camera, e poi tutte le altre di casa con i quattro in cucina che mi guardano per quel che sono: un pazzo scatenato.

“Luce, voglio luce!” urlo ai quattro davvero preoccupati. Poi li abbraccio e mi metto a guardare la televisione con loro. Sul tavolo ho messo un barile di grappa e ho sorriso.

“E’ ubriaco…” ha detto la vecchia dei quattro, come avesse compreso chissà quale verità. Forse ha ragione, anche se non ho ancora cominciato a bere: il mio sangue ribolle di vita e un lavoro lo ritroverò.

Anzi, sarà lui a cercarmi.

I casi del commissario Cresti

Oggi ho ascoltato al TG una madre disperata. Non sono lettore di gialli o polizieschi, ma a volte scrivo su casi che sono più un problema di coscienza che altro… stasera, ripensando a quella madre, ho scritto questo. Posto insieme gli altri due sul mio buon Commissario Cresti…
 
Un altro caso del commissario Cresti
 
Fin troppo facile.
Un caso che si era risolto con una facilità incredibile, o meglio che si stava risolvendo visto che ormai aveva individuato il colpevole.
Che era lì, davanti a lui, ne era certo. Aveva i capelli corti, sul rossiccio, gli occhi piccoli e disegnati da una tristezza infinita, le mani troppo rugose e dalle dita corte e tozze. Non era proprio una bellezza, ma una donna certo ferma nei propositi.
L’aveva convocata e lei si era presentata senza avvocato. L’avevano accompagnata nel suo ufficio e con una stretta di mano potente si erano scambiati i nomi.
Niente altro, da quel momento. Erano passati almeno un minuto e mezzo senza dirsi altro, una eternità. Poi Cresti decise di iniziare un interrogatorio senza avvertirla che sarebbe stato meglio per lei avere lì un legale.
“Sa perché l’ho convocata qui, Signora?”
“No. Sono qui proprio perché sono curiosa di saperlo.”
“Relativamente al caso dei 6 ragazzi morti in circostanze variamente delittuose, ho bisogno di farle alcune domande…”
“Non vedo in che modo posso aiutarla” affermò la donna che aveva lo sguardo fisso sul Cristo in croce attaccato alla parete dietro il commissario.
La brezza estiva muoveva le tende a righe bianche e verdi che eleganti adornavano le finestre ancor più antiche della mobilia dell’ufficio.
“Io invece credo che lei lo possa fare…”
Lo sguardo tra i due tornò a farsi contatto visivo. Lei ebbe un moto di sorriso.
“In che modo, commissario?”
“Per esempio, cercando di ricordare dove si trovava la sera dei sei giorni in cui sono stati uccisi i sei ragazzi.”
La donna lo guardò senza cambiare espressione. “Sapevo che si erano suicidati.”
“Le lettere lasciate dai sei sembrano raccontare questo, non fosse altro che sono state chiaramente estorte.”
“Lei crede sia così?” disse la donna mostrando una smorfia quasi impercettibile.
“Ne sono certo!”
“Quindi mi vuol dire che ritiene quelle lettere estorte e che esiste un colpevole della loro morte.”
“Sì…”
“Avrei dovuto conoscerla molto tempo fa…” disse la donna che iniziava ad accusare l’emozione.
“Per quale motivo?” le chiese Cresti.
“Sa, un paio di anni fa mio figlio scrisse una lettera dove confessava il suo dolore nel non accettarsi per quel che era (anche grazie alla cattiveria dei suoi compagni di classe, aggiungo io), si vedeva brutto e quegli “amici” lo sotterravano di cattiverie e insulti. Una lettera che alla fine si rivelò quello che temevo fosse: un addio. Mio figlio si suicidò gettandosi da un ponte. Nessuno, commissario, ha pensato, come ha fatto lei adesso, che quella lettera fosse stata in realtà estorta e che mio figlio fosse stato assassinato da quei maledetti bulli. Da allora io ho chiuso le porte al mondo e mi sono esiliata nel nulla in attesa di morire, quando Nostro Signore lo vorrà…”
Cresti rimase un attimo in silenzio, poi insisté: “ Risponda alla mia domanda: dove si trovava le sere della morte di quei ragazzi?”
“Dovrà chiederlo davanti al mio avvocato.”
Il Commissario Cresti sapeva bene che la donna non aveva scampo e le disse “Va bene, lo contatterò.”
“Sa una cosa, commissario? Qualunque cosa succeda adesso, il mio esilio resta tale.”
La donna lo salutò e uscì dall’ufficio.
La vendetta è una brutta bestia, pensò Cresti mentre guardava dalla finestra al secondo piano la signora raggiungere un uomo in carrozzina e con lui avviarsi verso il lungo fiume.
Il tardo pomeriggio iniziava a allungare le ombre mentre un tramonto di tonalità rosso/arancio dipingeva l’universo. Cresti decise che era l’ora di tornare a casa. Si mise la giacca e si avviò per uscire.
Si trovò a passare davanti al piccolo specchio che si trovava nel suo ufficio e guardandosi si fece mille domande sull’evidente assenza di bellezza.
 
Un caso del commissario Cresti
 
Quando fu chiamato in portineria dall’appuntato Sardelli, il commissario Cresti si scusò col suo ospite.
“Abbia pazienza, torno fra un attimo”.
L’uomo, rimasto solo, cominciò a guardarsi attorno.
Era un ufficio modesto, la mobilia era vecchia e di qualità scadente. La foto di rito del Presidente della Repubblica, una scrivania zeppa di fogli e un computer obsoleto, un quadretto che vedeva dal retro e che probabilmente riportava la foto di qualche famigliare.
Anche l’odore sapeva di stantio.
La porta si riaprì all’improvviso.
“Mi scusi di nuovo – esclamò il commissario Cresti – Allora veniamo a noi. Ho chiesto di non essere disturbati così potrò parlare con lei tranquillamente e liberarla velocemente”.
“Non c’è alcun problema”. La voce dell’uomo era serena e dimostrava tutta la sua disponibilità.
“ Allora, signor Verdi, io l’ho chiamata perché stiamo conducendo una inchiesta molto importante. So benissimo la disgrazia che le è capitata e la cosa mi crea molto imbarazzo. Ma sono sicuro che lei capirà i motivi per i quali mi sono permesso di disturbarla”.
Cresti si fermò un attimo, lo faceva sempre. Cercava di valutare le reazioni.
L’ uomo non fece una piega, “Mi dica”.
“Il killer delle scuole. Ventuno vittime in sei mesi, in varie parti d’Italia. Conosce la vicenda?… Vedo che annuisce. Ci sono vari commissariati impegnati in queste indagini e solo da poco abbiamo capito che si tratta della solita persona.”
“Davvero?” fece sorpreso l’uomo.
“Ne siamo certi. Anche se per un po’ è riuscito a sviare le nostre indagini usando vari metodi per uccidere le sue vittime, non poteva però evitare che io arrivassi a collegare il fatto che erano tutti spacciatori.”
“Ah…”
Il Verdi si fece scuro in volto.
Per un attimo rivide la sua Laura.
“ Ed io come posso aiutarla?” chiese a Cresti.
“Se devo esserle onesto, non lo so neppure io. È che ho pensato potesse essere d’aiuto parlare con persone che hanno avuto esperienze come la sua.”
“Mi permetta, in che modo?”
“Vede, io sono quasi certo che il killer agisca a pagamento, dietro la richiesta di qualcuno che ha subito una perdita terribile a causa della droga. Oppure che il killer sia proprio quel qualcuno.
Ma ho bisogno di parlare con persone come lei per capire quanto sia grande il dolore e se esso può spingere a questi gesti.”
Roberto Verdi guardò Cresti con l’espressione di un uomo stanco.
“Posso vedere il portafoto che ha sulla scrivania?”
“Certo” il commissario glielo porse.
L’uomo sorrise, un sorriso delicato.
“Lei ha un bellissimo bambino. Lo porta lei a scuola la mattina?”
“Sì” Cresti sapeva già dove voleva arrivare. Quello che non sapeva è che l’altro si sarebbe alzato e preso per un braccio gli avrebbe detto “Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria”.
Uscirono dal commissariato. Subito fuori c’era un piccolo parco con delle panchine.
“Sediamoci lì.
Ci sono i tigli, senta che profumo intenso.
Sa che mia figlia negli ultimi tempi non sentiva più nessun profumo?
È strano come nella nostra esistenza ci figuriamo il nostro futuro, pieno di speranze e di paure, e di quanto poi quello che avviene davvero sia così diverso. Io non mi sarei mai aspettato di vedere la vita di mia figlia lentamente cancellata da quella gomma che è la droga.”
Cresti ascoltava in silenzio.
“Non importa che le dica quanto amassi mia figlia, anche lei è un padre. Quando chiuse gli occhi per sempre si è spento anche il mio mondo. Sto camminando nel buio, cieco di dolore.
E di furore.
Aveva quattordici anni quando fu avvicinata la prima volta. Era una bambina. Una bambina. Senza poter mai diventare una donna.
Io non comprendo, non potrò mai comprendere .
Ma sono uomo che ha sempre affrontato i problemi cercando di risolverli, anche quelli senza soluzione.”
Il commissario sentiva che si avvicinava l’epilogo.
“Lei è molto bravo, commissario, la conosco e ha confermato le mie sensazioni. Ma lei fa parte di quel sistema che ha ucciso la mia bambina. Quel sistema che parla molto e poco fa per sconfiggere il male. Fondato su collusioni e ipocrisie.
La droga nelle scuole è cosa di tutti i giorni, i ragazzi sono indifesi mentre gente come lei cerca il killer degli spacciatori. E finisce che lo annusa, lo riconosce e lo trova. Ma non le prove. Perché, vede, se gli spacciatori muoiono la droga da sola non si smercia nelle scuole. Semplice, vero? Eppure lei non immagina quanti genitori sperano nel suo insuccesso, caro Cresti. Forse, che classe fa suo figlio?, dovrebbe sperarlo anche lei. Ed ora, se non ha altro da chiedermi, visto che le ho raccontato la mia terribile esperienza, dovrei tornare al lavoro.”
“L’ultimo assassinato aveva solo diciotto anni…”
“Lo so, era un amico – tremò a dire “amico” – di mia figlia”.
Cresti lo vide allontanarsi e sparire dietro un palazzo.
Il suo fiuto non lo aveva tradito.
Era giunto il momento di cercare le prove, ma sentiva che nessuno lo avrebbe aiutato ad incastrare quell’uomo.
 
Una difficile decisione
(Un caso del Commissario Cresti)
 
L’uomo lo vide arrivare, ma non ne fu sorpreso.
Sapeva che prima o poi sarebbe giunto a lui, sapeva da tempo che era sulle sue tracce. Sapeva anche di aver commesso degli errori, ma erano errori in fin dei conti inevitabili e quindi non poteva sentirsi in colpa verso se stesso.
Quando il commissario Cresti del gruppo Investigazioni Internazionali lo avvicinò, l’uomo gli sorrise e gli porse la mano.
“Salve, sono il commissario Cresti, lei è il signor Padovani?”
L’uomo annuì.
“Mi dispiace disturbarla, ma sto seguendo un inchiesta su di un traffico internazionale di bambini, una faccenda molto delicata come lei può ben capire. Avrei bisogno di farle alcune domande…”
Da un orfanotrofio rumeno erano spariti 17 bambini di età compresa fra i due e i sette anni. Un fatto che aveva preoccupato il governo di quel paese e molte associazioni di protezione dell’infanzia.
Il mercato degli organi era il sospetto più terribile.
L’uomo ascoltava senza emettere parole o fare espressioni di sorta, ma quando il commissario stava per fargli la prima domanda lo prese per un braccio e sorridendo lo accompagnò all’interno della sua casa.
Questa era una solitaria, vecchia ed enorme colonica completamente ristrutturata e all’interno era un vero e proprio spettacolo: decine di stanze tutte verniciate con delicatissimi colori pastello, splendide camerine per bambini zeppe di giochi ed, in una stanza più grande, una attrezzatissima ludoteca.
“Qualche anno fa, raccontò Padovani, io e mia moglie decidemmo di fare un bel giro in auto che toccasse vari paesi dell’Est, tra cui l’Ungheria, la Romania, la Russia e la Polonia. Non sto a raccontarle altro se non che arrivati a Bucarest avemmo la fortuna (direi proprio così, fortuna) di visitare un orfanotrofio.
Una delle cose più terribili che abbia mai visto in vita mia. Sono, anzi, siamo stati così male da voler tornare subito a casa. Ma io sono un essere strano, sa? Ho voluto informarmi ed ho saputo di quanto sia schifoso il mercato delle adozioni, di quanti soldi vengano fatti sulla pelle di quei poveri innocenti. Allora, io che vendo auto, ma le compro anche, sono andato in Romania con due bisarche ed ho comprato 17 auto usate che ho portato qui in Italia, solo che in ogni bauliera di quelle auto avevo nascosto un bambino. Sì, li ho rapiti io e lei lo sa bene, è inutile nascondersi. Ma io non potevo sopportare quella situazione, non potevo permettermi di non fare qualcosa. Hanno sofferto un po’ per il viaggio, ma ora stanno bene e in salute. Per evitare che li scoprano li faccio studiare in privato… Ah, eccoli…”
Un piccolo bus si fermò davanti al cancello della colonica. Un gruppo di bambini chiaramente sereni e gioiosi corsero lungo il vialetto fino all’uomo che allargando le braccia li salutò uno ad uno.
“Questi bambini sono felici. Lei sa anche cosa li aspetta se tornano nel suo paese.
Sta a lei decidere, sono a sua disposizione.”
“A domani…” fece Cresti.
Il commissario era l’unico a conoscere la verità e aveva molti dubbi su quali decisioni prendere.
L’unica cosa certa è che quella notte non avrebbe dormito.

senza titolo

Tra i flutti d’inverno
carichi di ghiaccio
naviga il mio pensare
Riscaldo le mie mani
al fuoco dei ricordi
in questa notte
che mi vede solitario
e privo di aspettative
Occhi chiusi e
respiro leggero
osservo il ruotare
di girandole al vento
Il fondersi di colori
ai miei occhi adolescenti
somiglia all’impasto
di mia madre
nei giorni di festa
Chissà se è pazzia
la mia
o semplicemente
cancellare l’inutile
verità del trascorrere
del tempo