Alzo il mazzuolo verso l’alto. È pesante e le braccia quasi spezzate nello sforzo sembrano chiedere pietà, ma il sorriso sulla mia bocca le convince a questo ultimo sforzo. Giù, verso il basso, oltre la velocità della spinta gravitazionale, il mazzuolo si stampa sull’ultima parte del muro da abbattere in maniera così potente che il colpo sbriciola quell’insieme di cemento e mattoni.
Inspiro forte, cerco di ossigenare ogni parte di me, sono sfinito, ma felice di aver terminato il mio lavoro. Almeno per oggi.
Guardo la montagna di detriti che domattina altri sfruttati come me porteranno via a mano e smaltiti chissà dove. Non mi importa sapere dove li lascerà la ditta di ristrutturazioni che mi ha dato possibilità di lavorare, voglio solo tornare a casa.
Quattro chilometri a piedi, 40 minuti incrociando fari accesi, ciclisti scoordinati, donne di facili costumi e il buio per una illuminazione pubblica deficitaria. Non mi interessa niente di tutto questo, vado spedito come se niente esistesse oltre il selciato dove appoggio i miei piedi.
Le case sembrano cambiare le loro forme, dalle più complesse e luminose alle più insulse e prive di una dignità che dovrebbe essere meritoria per ogni essere presente su questo pianeta. Come un percorso verso gli inferi che ormai si è fatto normale evento quotidiano.
Eccomi arrivato. Mi fermo davanti alla porta color marrone scuro, graffiata in più punti, e mi ipnotizzo sulla piccola serratura che guardo con gli occhi quasi lucidi come ogni sera.
Metto le mani in tasca e tiro fuori un enorme mazzo di chiavi. Ne sposto alcune e quando trovo quella giusta torno a inspirare. Osservo la serratura: è il confine tra il niente e il tutto e ogni volta che ci infilo la chiave il cuore mi batte a mille. Giro la chiave lentamente e sento chiaro lo scorrere del chiavistello. La serratura è docile e mi è ormai amica. Apro la porta, entro in casa e senza accendere la luce la richiudo. Nonostante il buio è come se la serratura decida di farsi vedere perché io possa dare un paio di mandate al chiavistello. Lo faccio e poi mi giro verso l’interno della casa e aspetto. Pochi secondi e si accende la luce del corridoio che taglia in due l’abitazione: camere a sinistra, cucina e soggiorno a destra e nel centro lei. La saluto con un ciao che mi si strozza in gola dall’emozione. La rara bellezza che mi si presenta di fronte è tale che non mi è possibile abituarmi a un sereno incrocio di sguardi. Lei, per tutta risposta al mio timido saluto, mi corre incontro, mi abbraccia e mi bacia. Poi mi prende per mano e mi porta in cucina, due piatti, due bicchieri, posate e un po’ di brodo e solo acqua. Non ci sono soldi, ma è mille volte più bello di importanti ristoranti che ho frequentato molti anni fa. Seduti a tavola mangiamo e parliamo di noi, più che altro di lei visto che le mie picconate temprano il corpo, ma non hanno molte cose da raccontare.
Poi, a fine cena, lei si alza e si siede a cavallo su di me. Il suo viso, a pochi centimetri dai miei occhi, regala iridi profonde e un sorriso che dona i brividi della perfezione assoluta.
Le metto le dita tra i capelli e la bacio. Sento che si lascia andare a movimenti dolci, incurvando la schiena come le onde di un mare calmo dove affogarci si fa desiderio assoluto.
D’un tratto scende dalle mie gambe, mi prende per mano e mi porta in camera.
Ci svestiamo e io rimango, come ogni sera, imbambolato a guardarla, icona di un tempo che si è fermato d’improvviso.
Nudi, lei tira in basso la coperta e mi invita a distendermi. Vorrei dirle di no, ma è chiaro che comanda lei. A pancia in giù, le sue mani leggere iniziano a percorrermi dai piedi fino al collo e viceversa. È come se bruciasse ogni negatività del giorno e mi restituisse la luce della gioia di vivere. Come spesso accade, però, ciò che provo è il relax più assoluto che, al posto di una benefica eccitazione, mi regala il sonno più profondo che si conosca.
Suona la sveglia. Sono le cinque del mattino e quando apro gli occhi la trovo ancora abbracciata a me. Con tutta la delicatezza che posso, mi svincolo dal suo abbraccio, mi lavo, mi vesto e resto cinque minuti a guardarla. Poi la saluto con un silenzioso bacio sulla fronte pensando che staserà non mi addormenterò. Poi esco. Tiro fuori la chiave e nel buio cerco la serratura, confine tra il tutto e il niente, che stavolta sembra non volersi rivelare. La trovo lo stesso, apro il chiavistello, poi la porta. L’alba sembra salutarmi e, nonostante quello che mi aspetta, mi sento bene.