Svuotare i pozzi neri non è mai stato il mio obiettivo, ma avete provato ad avere tre figli, una moglie, un mutuo e un licenziamento tutto in una volta a 55 anni?
Hai voglia ad essere un uomo di grandi competenze, costo troppo.
Dopo tre esperienze di contratto a progetto, senza ferie e contributi, durati non più di sei mesi l’uno, ho dovuto accettare questo lavoro.
Ero in alternativa come guardia giurata, ma appena mi misero in mano la pistola me la feci sotto e scelsi l’opzione tubo aspiratore.
Contratto a tempo indeterminato.
Ma capii subito che a termine, molto a breve, stava per diventare la mia vita.
Io che mi dilettavo in poesia mi trovai a gestire il peggio di noi stessi, a odorarlo, aspirarlo e vomitarlo in serbatoi così paradossalmente lucidi da farmi dubitare su ogni attimo del mio passato.
Questo all’inizio.
Poi come affondando in un mulinello di ignavia, il mio corpo e soprattutto la mia anima si sono assuefatti a questo trascorrere il tempo in compagnia dei più grossi stronzi mai visti.
Voi non potete immaginare quali dimensioni e quali fantasiose forme possano avere.
A forma di S di una durezza marmorea (fateli voi se riuscite), bitorzoluti di nove centimetri di diametro, piramidali oppure finissimi e lunghissimi (il record è 37 cm).
Mi domando che parti anatomiche sgangherate avessero i produttori di tali meraviglie della natura.
A forza di scoprirne di nuovi il mio lavoro ha preso un aspetto diverso, più interessante, più curioso, persino ne ho scoperto, con grande soddisfazione, i lati psicologici.
Come oggi, quando Carmela ha perso la fede nel cesso.
Sentivo le urla disperate dal tombino del suo condominio che avevo appena aperto per svuotare il pozzo nero.
Nonostante il terrificante rumore del mio camion, le grida di Carmela lo superavano di diversi decibel.
È successa una disgrazia, ho pensato.
Beh, quasi, se non che Carmela ha avuto la fortuna che io fossi lì proprio in quel momento.
Me la sono vista apparire improvvisamente e prendendomi per il bavero ha cominciato a strattonarmi sbarellando parole incomprensibili dietro lacrimoni impressionanti.
Stavo cercando di capire cosa diceva quando è arrivata una sua vicina a dirmi cosa era successo.
L’ho guardata.
“Ci penso io!” le ho detto per rassicurala.
Era l’ultima tirata di sciacquone, non poteva essere in fondo.
Mi sono chinato sul tombino, lentamente ho infilato il braccio negli escrementi e con fare sagace ho cominciato a frugare.
La mia mano girava con delicatezza nella poltiglia, poi l’ho sentito.
Ho preso l’anello e, tenendolo tra due dita, l’ho mostrato a Carmela.
Niente ha potuto trattenere la gioia della giovane donna, neppure la mia mano merdosa.
Mi ha abbracciato fortissimo gridando “Grazie, grazie, grazie…” per non so quante volte.
“Di niente” le ho detto vedendola allontanarsi con l’orma marrone delle mie dita sulla sua camicetta rosa.
Ho pensato che niente può fermarci davanti alla felicità.
L’ho pensato anche adesso che sono sul divano con in braccio Katia, la mia piccola di sei anni.
E’ bellissima e anche oggi ha trovato una scusa ( “sono due mesi dal terzo tagliando della Punto, babbo!”) per regalarmi un sapone deodorante nuovo.
Archivio mensile:agosto 2018
Fumo
Mi stavo tagliando le unghie, ma ero in ritardo e ho dovuto fare in fretta. L’uso dei sandali non mi aiutava certo a nascondere le curve irregolari e gli spunzoni seghettati delle varie dita del piede, ma non avevo né tempo né scelta.
Ho sceso le scale di corsa. Di corsa… i primi cinque piani, ma gli altri dodici è stata una sofferenza e ho dovuto centellinare le forze. Poi con tutto quel fumo. Un condominio di consumatori di tabacco da record del mondo.
Sono uscito dal portone principale con un inizio di infarto o almeno pareva e seppure sapessi che non sarebbe stato bene ho fatto un sospirone per riempire d’ossigeno i miei poveri polmoni. Che da poveri sono passati a nullatenenti. L’aria era ancor più fumo di Londra, con uno smog che si tagliava col coltello a fettine anche fini. Al che mi sono rammentato della mascherina. Me la sono messa per limitare l’inspirazione di polveri e raggiunta la fermata del bus ho aspettato l’arrivo del 22. Ora prevista 08,15, arrivo 08,16 e 1 secondo. Sono montato e mi sono avvinghiato a un montante per sorreggermi circondato da almeno cento persone in più rispetto al consentito trasportabile, mentre l’autista subiva le invettive di coloro che protestavano per il fatto che era arrivato in ritardo di un secondo. A me importava una emerita sega di queste esternazioni idiote e mi stavo concentrando sul paesaggio esterno. Vedevo tra il sì e il no le case lungo la strada, ma il resto era solo una palla di fumo grigio. Niente di più niente e niente di meno del giorno prima e di molti altri indietro.
Sono sceso alla fermata n° 16. Nel farlo, con i piedi ho sfiorato la caviglia di una signora bella robusta e le unghie omicida l’hanno graffiata come fossero state lame di un serial killer. Sono sceso appena in tempo per non prendere una borsata sulla capoccia seguite da vari accidenti ai cari più cari tra i miei.
Ho ripreso il cammino rapido. Erano le 08,24. Davanti a me centinaia di metri di pianura che non vedevo dallo smog, ma sapevo di essere sulla strada giusta. Oltrepassata la strada rischiando un paio di volte di essere spappolato da due Tir giganteschi visibili solo dieci metri prima, sono entrato trafilato in azienda e ho timbrato alla Fantozzi: ultimo secondo e sudato marcio. Sono andato alla mia scrivania, fila 35 posto 21, nell’hangar dei seimila (assunti a tempo incerto), 8 ore senza intervalli.
Questa, mio caro, è stata l’ultima volta che è successo. Avevo vissuto una era che sembrava andare verso una civiltà buona e giusta, come se avesse davvero imparato dal passato che c’era qualcosa di meglio. Ma la globalizzazione, il dio denaro, l’economia e tutte le altre stronzate che in pochi hanno saputo imporre a tutti gli altri ci hanno portato a questo, senza rispetto per Uomo e (il peggio e tu lo sai bene) Natura. Il dottore, quello stesso pomeriggio mi ha diagnosticato tre mesi di vita, i polmoni sai, e non mi andava di spenderli a quel modo. Ed eccomi qui.
Lo so che non hai capito un cazzo di quel che ho detto, mio caro mistico eremita del Kilimangiaro, ma continuiamo a pregare. Tra poco il tramonto ci immergerà nelle stelle.
Dovere
Osservo dalla finestra.
Sta finendo la giornata, una di quelle piene di sole di inizio primavera. Ieri pioveva in maniera decisamente noiosa e in fin dei conti sarebbe stato il giusto tempo anche per oggi.
Lontano, il sole tramonta dietro le basse colline che quasi si spostano ossequiose al suo poggiarsi.
Sarebbe proprio poetica come immagine, non vedessi quello che vedo.
A livello terreno non c’è alcun tramonto, o meglio c’è, ma è quello dell’Uomo.
Mi allontano dalla finestra e esco dalla camera. Scendo le scale e a metà mi chino a raccogliere un paio di scarpe su uno scalino. “Allora??? Si vuol imparare a stare in ordine? Di chi sono queste?”
In basso si affacciano le due gemelle. Una vestita di bianco, l’altra uguale. Mi fanno ancora impressione da quanto sono identiche. Senza occhiali le riconosco solo perché Marta da ferma allarga leggermente le punte delle scarpe, mentre Marina tiene i piedi uniti.
“Una è mia!”
“L’altra è mia!”
Se la normalità non ha canoni prefissati, posso ancora sperare che siano mentalmente a posto, ma solo in quel caso. “Salite a prendere ognuna la sua e portatele in camera, poi venite a mangiare.” Tono duro, da padre integerrimo. Solo che i gemelli non hanno paura di nulla finché stanno assieme. Le due prendono la propria scarpa, non mi degnano di uno sguardo e scompaiono nel corridoio notte.
Scendo scuotendo la testa.
Agata sta mettendo la pentola in tavola. Polenta calda. Stamani prima di uscire mi aveva chiesto cosa avevo voglia di mangiare ed eccola lì, bella gialla e fumante.
Mi siedo e sorrido. Anche Agata sorride e mi piace il tutto. Con fare gentile mi riempie il piatto e mi porge il vassoio col sugo di carne. Ecco le bambine che, con coordinazione da esercizio olimpico a coppia, si siedono a tavola nello stesso istante. Agata serve la polenta anche a loro.
Una cena davvero gustosa, di quelle che con la semplicità soddisfano corpo e anima. Adesso in soggiorno, sono sulla poltrona davanti alla televisione con un bicchiere di amaro. È prodotto da un artigiano del posto,a base di erbe mi fa bene, mi aiuta a digerire. C’è il telegiornale. Venti minuti di notizie che conosco già, ma non fa male ascoltarle ancora.
Alla fine del notiziario, mi alzo e mi avvio nella piccola stanza del computer, il regno informatico della famiglia: ognuno ha il suo turno prestabilito. Il mio è stasera fino alle 22,00, poi Agata.
Mi collego su vari siti che uso visitare e trovo alcune informazioni che cercavo.
Spengo molto prima della fine del mio turno e torno in soggiorno.
Agata mi vede e mi chiede se posso portare fuori la spazzatura. Differenziata e domattina è il giorno della raccolta della plastica.
“Certo!” le dico. Prendo il sacco rosso e mi avvio. Esco di casa, chiudo la porta dietro di me e inizio a scendere le scale. Evito l’ascensore. Sono al quarto piano, ma sono curioso. Al secondo piano passo davanti a una delle tre porte degli appartamenti a quel livelli. Sospiro e il cuore aumenta il suo battito, ma continuo a scendere. Arrivo al piano terra e faccio per aprire il portone del condominio, quando d’improvviso con gesta silenziosissime quattro uomini delle forze dell’ordine mi spostano di lato iniziano a correre su per le scale.
Io continuo il mio cammino, fino al contenitore di sacchi con la plastica. Ci metto il mio e torno indietro. Proprio in quel momento, grida acute arrivano dal mio palazzo, sono certo dal secondo piano, e mi fermo dove sono. Da lontano vedo un uomo portato via di forza e gettato su una camionetta. Senza sirena, i mezzi della polizia se ne vanno.
Riprendo il mio cammino. Stavolta prendo l’ascensore, quarto piano. Suono, mi apre Agata che mi guarda interrogativa.
“Abbiamo fatto il nostro dovere.”
Agata acconsente senza dire niente.
“Il nostro è un paese malato e dobbiamo fare di tutto per guarirlo. Meno male che Tommaso l’avevo per amico non solo come condomino, ma anche sui social. Ho potuto vedere cosa scriveva. Era un pericolo.”
Agata acconsente senza dire una parola. La bacio e sorrido.
19/08/2018
Ho tralasciato di dirti una cosa importante:
la prima volta che li ho visti, ho pensato che i tuoi occhi
avrebbero dovuto aprirsi su un altro mondo,
fatto di luce e di sorrisi, di allegria e di pace
colmo di certezze e privo di sofferenza,
ma il tempo scorre ed insegna
passano i compleanni e il tuo corpo si trasforma
ti sei fatta donna dal fascino discreto
e i tuoi giorni sono quelli d’ogni altra
guidi l’auto con una grinta che non conoscevo
affronti l’ansia dei colloqui di lavoro
tagli la cipolla e nascondi il pianto della vita
prendi appunti e hai smesso di chiedere
ciò che ormai non posso più spiegarti
Ho tralasciato di dirti una cosa importante:
se i sogni si erano fatti inconsci desideri,
la realtà ti ha reso una persona vera
e adesso, quando incrocio i tuoi occhi,
intravedo il senso della tua esistenza
Buon Compleanno!
Strega
La strega sapeva di dover essere una strega.
Cattiva, infida, maligna, stronza e testa di cazzo, solo le prime tre caratteristiche conosciute ai bimbi.
E come tale agiva.
D’altronde l’autore di favole l’aveva scritturata per quello e quando sei senza lavoro, accetti di tutto.
Durante il provino, due esaminatori chiesero cosa sapeva fare e gli stessi furono da lei carbonizzati con due fulmini da 200.000 volts. I due esaminatori che presero il loro posto la assunsero senza far domande.
E’ da una decina d’anni che non fa altro che pozioni magiche, arcolai velenosi e intere piantagioni di mele dallo strano sapore. Insomma è una strega che ha messo su industrie alimentari, tessili e agrituristiche davvero importanti.
Lei non ha sentimenti di pentimento.
A dire il vero la maggior parte di coloro con cui viene a contatto sono stronzi e teste di cazzo e se si parla dei loro figli, sono stati tirati su cattivi, infidi e maligni, quindi perché pentirsi?
La strega però si è resa conto che, da quanto male c’è per il mondo, potrebbe diventare una figura inutile e se non sta attenta perderà di nuovo il lavoro.
Ieri mi ha detto che c’è una forte richiesta per il ruolo di fata (a quanto pare introvabile) e che lo sta prendendo seriamente in considerazione.
Anima
Mi hai chiesto cosa sia il bene e il male.
Probabilmente sono rincoglionito con l’età, perché la risposta che ti ho dato alla fine ha sorpreso anche me.
Non esiste il bene o il male, o meglio esiste in ognuno di noi in maniera diversa.
Mi guardi stranito, mentre mi abbracci. Il mio fianco destro è spappolato e le viscere fanno bella mostra di sé.
D’altronde uno con il mio carattere, colpito da una scheggia in questo cazzo d’attentato (riuscito, più che tentato) e che ringrazia Iddio che il figlio non si è fatto niente, non può che chiedere al sopravvissuto consanguineo di continuare a comportarsi bene. Diciamo che a me è venuto questo mentre il dolore mi tranciava la mente.
Chi può dire quale sia la verità, sul bene o sul male?
C’è chi ritiene che uccidere sia necessario per mantenere, difendere, imporre ciò che sei convinto sia giusto. Come questo kamikaze, il cui gesto è un dono di e per Dio.
In ogni caso quella non può essere la mia verità. Leggendo un saggio filosofico, mi sono riconosciuto in quella che viene chiamata anima altruista. Perché il dolore degli altri si fa il mio.
Ma tu non mi ascolti, non puoi farlo. Non ho fiato per parlare. Il dolore si è fatto mano e stringe, spappola il mio cuore.
Mi spengo senza sapere quale sia la tua verità.
Lo faccio sorridendo perché sei vivo e vegeto, mentre tu piangi come un vitellino ai macelli.
Modulazione
“È una questione di modulazione.”
Non mi è parsa una risposta comprensibile, questa del novantenne che suonava il piffero nella band.
Ci dava come un pazzo e mi aspettavo, da un momento all’altro, l’arrivo di tutti i topi della città incantati come nella favola che mi raccontava sempre mia nonna (sapeva solo quella).
Allora mi ero azzardato a chiedergli dove prendesse tutta quella energia e se per lui era questione di modulazione, per il resto della band io ero solo uno che rompeva il cazzo durante l’esecuzione del pezzo.
I calci ricevuti non mi hanno svelato il mistero, ma mi hanno convinto a riprendere la via di casa.
Lungo la strada ho incontrato Giuseppe. Mai visto prima di allora, è che passandomi vicino mi ha salutato con ”Ciao!!! Sono Giuseppe!” mi ha stretto la mano e mi ha raccontato che stamani ha perso l’autobus e nonostante tutto è arrivato a lavoro prima del solito, grazie a Giampiero. Fermo restando che io non sapessi chi era Giampiero (né più né meno di Giuseppe) il fatto è che neanche lui sapeva chi fosse. Solo che con il suo Suv con sedili in pelle umana, Giampiero lo ha fatto montare e lo ha portato a destinazione.
Ho chiesto a Giuseppe se mi prendeva per culo. Mi ha assicurato di no. E come può essere possibile una cosa del genere? Mi ha risposto: “è una questione di modulazione…”
Ho lasciato Giuseppe sul posto senza nemmeno salutarlo, figlio di buona donna.
Che cavolo di epidemia sta colpendo la gente?
Lungo il tragitto mi fermo al bar di Giordano. Lo saluto e gli chiedo uno scotch. Faccio per raccontargli di quello che mi è capitato quando mi accorgo che il barista e tutti gli avventori stanno ascoltando un tizio vestito di bianco, scarpe e calzini compresi .
Mi prende quasi un colpo quando sento le parole di quel personaggio: “ … è una questione di modulazione… accompagnate con attenzione i vostri passi…” e qui la sua voce nel mio cervello sfuma in una incazzatura così nera che il vestito del tizio si è sporcato di default. “Giordano… Giordano ascoltami!” ma Giordano non mi considera neppure. Stanno tutti impazzendo. Riguardo l’uomo. Un bel giovane, che… aspetta, che strano… come fosse circondato da un’aura luminosa. Proprio in quel momento smette di parlare, passa tra la gente e se ne va. Non mi guarda nemmeno, mentre i clienti del bar sembrano tornare alle loro normali funzioni: rutti, carte, bestemmie.
Giordano mi guarda spazientito e mi fa: “Allora, cosa ti do?”
“Uno… uno… scotch…”
“Ti fa male, ricordi? Niente alcool. Va bene una spuma al cedro?”
Non riesco a emettere suoni, mi trovo il bicchiere col liquido verde e me lo bevo zitto. Poi prima di uscire guardo Giordano e gli chiedo:” Presumo sia una questione di Modulazione…”
“Esatto!”
“Appunto… ciao, Giordano.”
Vorrei tornare a casa, ma appena uscito dal bar capisco che sarà un’impresa farlo. L’uomo in bianco è fermo lì, a pochi metri.
Mi guarda. Lo guardo. Mi guarda. Lo guardo.
Avrei scritto trecento pagine così, se non mi fossi deciso io a chiedergli: “Cazzo hai da guardare?”.
“La vita è musica. Ma è solo una questione di modulazione, affinché essa suoni dolcissima fino alla sua fine.”
Mi sta davvero antipatico.
“In te l’assenza di modulazione è tangibile.”
Persino sul personale adesso.
Mi giro e corro via veloce, solo per non picchiarlo.
La vita è musica, dice. Mi torna a mente il vecchio e il piffero. Effettivamente mi pareva contento (o drogato).
La vita è musica. Mi rimbomba dentro questa frase.
E’ una questione di modulazione. Questa rimbomba ancor di più.
Suono al citofono del palazzo. Si apre il cancello e salgo. Entro dentro l’appartamento, chiudo la porta e mi avvio in cucina. Lei è di spalle. Mi pare sia a preparare un soffritto. Si gira verso di me e mi guarda storta.
“Qui, Gianluigi, se non cambia musica, finisce male!”
Sgrano gli occhi e le chiedo: “Vuoi dire che è una questione di modulazione?”
Lei mi osserva ancora più storta e mi risponde: ”Voglio dire quello che ho detto! che caspita c’entra la… modulazione? Però, chissà, forse potresti aver detto giusto, una volta nella vita…”
No, l’uomo in bianco non l’ha incontrata. Mi sporgo alla finestra di cucina e guardo in basso. Lui non c’è.
“Manca il pane.” Mi dice lei.
“Vado a comprarlo…” ed esco.
Sono convinto che lo incontrerò e allora gli chiederò di spiegarmi come devo fare.
Una nuova vita
Ci sono momenti in cui mi chiedo se non fosse stato meglio essere una persona normale. Poi, visto che non so darmi una risposta, torno a essere ciò che sono senza farmi altre domande.
Guardo l’enorme cervello elettronico, i vari display, i mille led rossi e bianchi, verdi e blu. Tutto sembra funzionare alla perfezione. So che funzionerà alla perfezione, non potrebbe essere altrimenti.
Seduto sulla poltrona girevole in pelle nera, mi giro verso il centro della stanza. Mi alzo e mi avvicino a uno dei due lettini. Appoggio le mani sul bordo e resto fermo in ammirazione. È il giusto verbo, l’ammirare. Se è bello ciò che piace, il sangue del proprio sangue si fa la meraviglia di questa nostra vita. Sposto la mano destra sulla fronte della ragazza distesa davanti a me. Percorro la sua testa verso la nuca con le dita tra i capelli. Mi prende un groppo alla gola. Ha gli occhi chiusi e rilassati. Sposto anche l’altra mano, con il pollice e l’indice apro le palpebre, voglio rivedere le sue iridi verde scuro prima di procedere. Le tengo aperte solo un attimo, un tempo brevissimo percorso dai mille momenti passati insieme fin dalla sua nascita.
Faccio un sospiro, guardo il giovane sull’altro lettino e poi torno a sedermi sulla poltrona.
Avvio la procedura. Il cilindro su cui si adagiano i lettini si chiude. Un carrello porta il cilindro dentro contenitore che si chiude automaticamente.
La sequenza sono quattro controlli e sei pressioni di pulsanti. Sembra non accadere niente. Si percepisce solo una leggerissima vibrazione.
Mi alzo, premo il pulsante che apre la porta le contenitore, che adesso è vuoto.
Piango, a dirotto, come quando morì mia nonna, ma allora ci fu distacco per morte, stasera mi inonda il senso di vita.
Qualcuno o qualcosa mi ha donato la capacità di scoprire come muoversi nello spazio infinito senza bisogno di astronavi, ma semplicemente facendone parte. In questo modo ciò che era inconoscibile, si è fatto parte di me. Ho imparato a viaggiare nello spazio viaggiando dentro me stesso. In quel momento ho capito cosa dovevo fare. Ho cercato (e scoperto) pianeti abitabili e su uno di essi in più spedizioni ho mandato una quindicina di coppie. Stasera era l’ultima, la mia piccola e il suo amato.
Per una nuova vita.
Mi tolgo il camice e esco dalla stanza. Salgo una scala in ferro che mi porta all’esterno. Prendo l’auto e mia avvio verso il centro città. Dallo specchietto osservo allontanarsi la mia base segreta. Nessuno sa di tutto questo, non volevo che si sapesse. Mi basta entrare in città per tornare ad avere quella sensazione di disagio che i miei simili mi regalano. Un mondo fatto di gente piena di certezze incontestabili che hanno finito per scannarsi senza pietà. Quando la piccola mi ha detto che era disposta a ripartire da zero da altra parte, sono stato uomo felice. E, allo stesso tempo, padre disperato che adesso sta tornando a casa a consolare una madre disperata.
Bottoni
La casa di tanti anni fa aveva muri scrostati e color grigio scuro per l’umidità, senza acqua calda, una stanza per tre e un freddo bestia (o un caldo bestia a seconda della stagione, fate voi), ma non era ciò che catturava la mia attenzione bambina.
Io giocavo, mi garbava divertirmi con gli amici, ma più spesso da solo che a quei tempi mi era difficile incontrarmi con altri.
Giocare da solo significava mettere in moto la cosa che più adoravo o forse semplicemente l’unica ancora di salvataggio: la fantasia.
Tra tutte le attività autoctone, l’unica che mi dava soddisfazione era il calcio. Avevo sempre a disposizione ventidue giocatori diversi. Di solito circolari, ma alcune volte anche quadrati o esagonali. Di diverse grandezze e colori. D’altronde i bottoni che usavo per giocare li prendevo dalla scatola del cucito della mamma e con quello che c’era davo vita alle formazioni. Squadre a volte fatte con bottoni adatti a cappotti, enormi rispetto a quelle composte da bottoni da camicia. I bottoni più brutti o colorati facevano da palo. L’indice della mano sinistra spostava i giocatori della squadra disposta a sinistra, la destra quelli di parte opposta. Il bottone più piccolo faceva da pallone. In poco tempo diventai bravissimo, azioni rapide e tattiche alla Sacchi, nonostante fosse trenta anni prima.
La mamma rammendava le pezze a domicilio e io giocavo, la mamma preparava da mangiare e io giocavo, la mamma lavava la biancheria e io giocavo. Fu un periodo di intensi tornei e vinceva sempre la mano destra, non sapendo io fare una sega con l’altra. Quando mia madre incontrava altre signore del vicinato diceva sempre che ero “un bravo bambino, non dà preoccupazioni e non disturba mai, basta comprare dei bottoni…”
Io a dire il vero non badavo a queste cose. Andavo alle elementari e fin da subito ho cercato di studiare il minimo indispensabile per non prendere brutti voti e (allora usava) manate nel viso. Poi giocavo. Punto. Non ascoltavo o stavo attento a altro.
Poi un giorno emisi un urlo terrificante che terrorizzò mia mamma.
Aveva vinto la mano sinistra e avevo fatto un voto: se avesse vinto la mancina, avrei cambiato gioco.
Dal giorno seguente la Panini, grazie alle sue figurine e ai suoi album, si sarebbe sostenuta anche con i miei soldi.
Con relativa preoccupazione della mamma.
Nostalgia
Appoggiato allo stipite del portone d’ingresso ascolto il caldo, in quel suo lamentoso canto che ci rende insopportabile ogni secondo che passa della nostra vita. I miei occhi osservano il passare ignavo di auto che non avrebbero vita senza quel liquido feroce il cui odore ti parla di morte e, anzi, ti ricorda che lo siamo noi tutti, mortali.
Guardo l’orologio. Non il mio, a me fa schifo portarlo perché più che un’ora che avanza, mi sembra un conto al rovescio. Ma non posso far finta che non esistano regole da rispettare nei modi e nei tempi. Quindi guardo l’orologio comunale all’incrocio vicino, subito sopra al semaforo.
Sono le sei, o meglio le diciotto di un pomeriggio che chiamarlo afoso lo renderebbe simile a una notte polare. Ho visto l’asfalto ammorbidirsi e biciclette forarsi per il calore.
Mi volto a destra e a sinistra. Credo almeno una dozzina di volte. Poi la vedo e il caldo si fa ancor più esagerato. In pochi secondi la creatura passa davanti ai miei occhi come a una sfilata di dee di cui lei è vincitrice sicura. Continua imperterrita a camminare fino a che non svolta a sinistra e va in centro a fare quei suoi cazzi di acquisti. Almeno credo, visto le borse con cui è ripassata i giorni precedenti.
Rientro dentro. Clienti zero. Un negozio famoso per la sua lana Cashmere dovrebbe chiudere sei mesi per ferie. Non si può, se si vuole sopravvivere dove l’affitto lo paghi comunque sia.
Mi siedo davanti al computer. Inclino un po’ la testa come se guardassi un deficiente, con il mouse indirizzo la freccetta cha dà vita o morte e premo il pulsante Arresta il sistema.
C’è un silenzio pesante, adesso. Sembra che anche il traffico si sia nascosto da qualche parte e non si sente volare una mosca. Nemmeno una zanzara, per codesto, ed è cosa ancor più strana pensando a quanto mi rompono i coglioni durante il giorno.
Mi garba la magia, mi garba pensare che esista una via d’uscita alla monotonia di una società che ti fagocita e digerisce con una facilità esagerata.
Chiudo gli occhi e volo all’indietro.
Mi piace affogare nella nostalgia di un bambino che rideva sempre e senza senso, al punto di prendere schiaffi da una mamma repressa e che non capiva quel momento di assoluta felicità, fatta di una corsa in bicicletta o di figurine Panini.
Senza saperlo, dormo. Quel bambino è un sogno. Me lo godo appieno, da quando ho deciso di non cercare il confine tra realtà e immaginario. Tutto è realtà e basta.
Poi, come in ogni film che si faccia valere, accade l’imprevisto. Al terzo “mi scusi” (me lo ha detto lei che era il terzo), mi sveglio tutto rintronato come accade a chi passa dal virtuale al reale. “Ehhh… chi… chi..è?”
“Avrei bisogno di una sciarpa per un regalo…”
Gli acquisti posso essere di vario genere e anche una sciarpa di Cashmere può essere acquistata in una estate torrida. Se poi lo fa la leggiadra fanciulla del passaggio quotidiano, il non farsi trovare pronto corrisponde a una figuraccia da record del mondo.
“Sì… sì, ne abbiamo di meravigliose…”
“una che costi il giusto, è destinata a gente poverissima che non sa come ripararsi.”
Ricordo mio padre, operaio che si faceva un mazzo così per sostenere la famiglia e che diceva che eravamo fortunati in questo mondo dove milioni di bambini morivano di fame. Dimentico della richiesta, mi commuovo al pensiero di mio padre. Poi d’improvviso mi scuoto e, con lo sguardo di lei tra lo sconvolto e il sorpreso, le rispondo che ho ciò che fa per lei.
Scendo nel magazzino sotterraneo. Prendo una scatola e la porto in negozio.
“Qui dentro- le dico- ci sono vecchie sciarpe, fuori moda, ma come nuove. Le prenda tutte.”
Sono dieci giorni che ogni volta che passa davanti al negozio, Elena (si chiama così) mi saluta e mi fa il sorriso più straordinario che si possa immaginare.
Non sa che il negozio chiuderà per mancanza di vendita e non sa neppure che fra qualche tempo sarà la mia nuova forma di nostalgia.