Il nanerottolo

Sono così lontani quei giorni, che ormai li ho quasi dimenticati. Mi giro nervoso nel letto, in quel noioso dormiveglia precedente al suono di quella sveglia biologica che non suona, ma che avverte le sinapsi di mettersi in moto per il nuovo giorno.

Ho sognato ancora una volta tempi e azioni che avevano fatto fibrillare il mio cuore e che adesso si sono fatte fumose e incerte e mi accompagnano al risveglio senza alcun piacere.

Me lo aveva detto il nanerottolo del lunedì notte che mi sarebbe accaduto e io non gli volevo credere. Un essere spregevole, un metro e trenta di brutture fisiche inenarrabili. Due narici enormi che visitava continuamente con tutte e dieci le dita seppur una per volta, due occhi piccoli e iniettati di sangue, due cisti pelose sulla guancia destra per il resto butterata come la sinistra; capelli rossi, ispidi e diradati. Vabbè che era un sogno, ma quello era approfittarsene. Peraltro non mi ha mai spiegato perché avesse deciso di apparirmi solo di lunedì notte. “Senti, schifezza d’uomo – mi diceva – è inutile che t’attacchi al passato. Specie a te che non ti ricordi un cazzo, ciò che è stato diventerà presto il niente (senza dire che ciò che è stato si è già dimenticato di te).”

Il Nanerottolo mi stava sui coglioni. Io ci tengo al passato. “Non capisci niente. Non ho detto che non devi guardare indietro. Puoi farlo, ma così, per ricordare una frazione della tua vita e non farne il tuo presente. Demente!”

Se tu fai la rima, io faccio quello che mi pare, maledizione.

Però sono confuso.

Mi sono lavato, vestito e partito in auto. Al bar, parcheggio a cazzo di cane, come al solito. Mi guardano di traverso, ma sono ancora talmente inquieto che non considero nessuno. Al bancone chiedo il solito, che mi hanno già fatto. Avendomi visto arrivare si erano messi avanti pur di farmi togliere di mezzo la mia macchina prima possibile.  Al contrario delle loro speranze prendo il caffè corretto a tequila e mi accomodo a uno dei tavolini liberi. Chiudo gli occhi e mi sforzo di ricordare visi e luoghi. Mi intristisco accorgendomi che niente si fa chiaro. Quando riapro le palpebre, due iridi scurissime incrociano le mie, tristi e di colore indefinito. “Tutto bene?” mi chiede dal tavolino di fronte. “Che stai seduta lì da sola? Vieni qui, dai!”. Freeda è una belga avanti con gli anni che studia in città, carina senza esagerare. L’ho conosciuta quando un mesetto fa cadde una bomba d’acqua e preso da un atto di carità le donai il mio ombrello, visto che in auto non si fidava a montare. Tre giorni dopo mi ha incontrato al bar e da allora, nonostante non sia mai accaduto, non avrebbe timore a montare nella mia macchina. La tranquillizzo sulle mie condizioni di salute, evitando di svelarle quelle psicologiche, penose. Le offro il caffè (“non corretto!” dice ridendo). Parliamo cinque minuti, anzi ascolto cinque minuti, prima di avviarmi al lavoro. La ascolto e la guardo. Nonostante l’età, ha il viso ancora fresco; piccole rughe sotto e di lato agli occhi le danno un tocco affascinante e i capelli scurissimi  sembrano la notte a incorniciare il sole. Cinque minuti rapidissimi, troppo. Devo scappare, proprio sul più bello. La saluto e scappo via augurando di rivederla presto. “Volentieri!”, ha sussurrato il suo respiro.

 

Passata la giornata.

Mi metto il pigiama, mentre i miei vecchi si fanno una tisana. “La vuoi?” bercia il babbo. “No” ribercio io. Mi metto su Netflix a vedere una di quelle colossali cagate che solo questi canali a bischero sanno produrre. Vado poco volentieri a letto. È lunedì e il nanerottolo si presenterà come il più solerte dipendente della scassatissima ditta che ha il mio nome. Mi agiterà come uno zabaione e mi farà passare l’ennesimo martedì tra continui colpi di sonno. Ma non ce la faccio. Spengo tutto e vado a letto, mentre i miei già russano senza vergogna da mezzora. Mi distendo e mi copro. Chiudo gli occhi. Si apre il palcoscenico onirico dei miei pensieri fatti sogno.

 

Mi sveglio di soprassalto. E’  tardissimo e devo passare per forza dal bar.  Freeda è stata protagonista di questa mia notte. Era lì  inaspettatamente e per tutto il sogno l’ho vista perfettamente. Forse lei lo ha ucciso. Il nanerottolo intendo. Non si è fatto vedere. Di vedere Freeda invece ne ho una voglia che rimbambisco. Sono agitato. Mi vesto al contrario, mi taglio tutto a farmi la barba. La mamma mi guarda, ma sa di avere un figlio deficiente e lo fa con tenerezza. Il tutto però mi fa incazzare, finisce che arrivo tardi.

Parto e parcheggio la macchina in maniera perfetta, che al bar tutti si astengono a fatica a farmi un applauso. Freeda è già lì. Insieme al nanerottolo, che mi fa una smorfia a presa di culo. Non mi dà tempo di dire altro che è già scomparso mentre Freeda agita la manina per attrarre la mia attenzione.

“Buongiorno!” la saluto. Nitida al mio cuore.

Cerco il nanerottolo, ma non c’è. Lo facevo solo per scusarmi.

Nell’oscurità

Chissà come stai adesso,
ti penso in questo oscurità
che riflette il tuo profilo,
sei lontano, o forse dovrei dire
lontana, in questa confusione
dentro la mia testa dove
mille e mille occhi vagano

Sono quelli di coloro che hanno
riempito i miei giorni
chi per partorirmi, chi per crescermi
chi per farmi ridere o passare un compito
chi mi ha insegnato un mestiere
chi mi ha fatto un assist o una telefonata
nei giorni più neri
chi mi ha dato un bacio
chi mi ha donato un attimo della sua vita

Chissà come stai adesso
tu, lei o voi che mi avete teso la mano,
in questa oscurità la solitudine
si fa moltitudine di facce, le vostre,
a raccontarmi i miei anni su questo pianeta
a segnare il mio passaggio terrestre
a farmi sentire vivo
e poiché non posso essere ovunque
avrei piacere di sapere come stai
amico mio, o forse dovrei dire
amica mia, perché m’è chiaro che
sto invecchiando pieno di voi

Troppo

Fuori fa ancora troppo caldo.
Troppo. Un avverbio che dovrebbe far riflettere, perché cosa è che è troppo se non tutto ciò che va oltre per ognuno di noi e allo stesso tempo per nessuno di noi se è troppo solo per gli altri?
A volte mi annodo coi pensieri e più spesso mi accade quando è caldo, troppo, come stasera.
Questo autunno mi sussurra all’orecchio che non è poi diverso da molti altri autunni e con un sorriso mi ammicca col suo occhio sinistro per dirmi di uscire. Per un gelato, dice. Spiritoso, ma sono un debole, uno facile da condizionare e do retta alla stagione delle foglie morte.
Prendo la bicicletta. Il cielo è libero da nubi e riesco a vedere il Piccolo e il Grande Carro. Da bambino erano le uniche stelle che riconoscevo, come adesso, né più né meno. Solo che allora viaggiavo con la fantasia alla velocità della luce e le raggiungevo in un attimo. Ci trovavo creature mostruose, terribili, cattivissime che odiavano tutte le altre creature dell’universo e io mi trovavo bambino e eroe a combatterle, a difendere in maniera vittoriosa i più deboli.
Adesso faccio fatica a pedalare e raggiungere la gelateria, Devo persino staccarmi dalla magia del viaggio interstellare se voglio evitare ti prendere un palo della luce dritto nella fronte.
La gelateria dista circa un chilometro da casa e col fiatone da pre infarto la raggiungo chiedendomi come cazzo fanno quelli che partecipano alle IronMan. Scendo dalla bicicletta, la appoggio alla colonna rivestita di rettangoli di marmo bianco e nero, mi passo le mani lungo i pantaloni a mo’ di stirarli ed entro dentro il locale. Due persone chiedono due coni a gusto unico, stracciatella. Le metto a fuoco e mi rendo conto che sono due pisquelli talmente innamorati cotti che se uno avesse chiesto merda l’altro al massimo ci avrebbe aggiunto panna.
Poi sta a me. La giovane gelataia mi guarda. La guardo. Mi guarda. La guardo. Avremmo continuato all’infinito se lei non avesse avuto il merito di pensare quanto io sia scemo e chiedermi che cosa volevo. Le chiedo un cono da 1,50 euro, pistacchio, cocco, cioccolato, tiramisù, yoghurt, limone, fragola. Le mi guarda conscia di avermi giudicato nella maniera giusta e mi dice che al massimo sono due gusti.
Mi sta sulle palle, nonostante sia carina, e allora decido per crema e amarena.
Esco e mi siedo sulla panchina riservata ai clienti. Fa troppo caldo. Guardo il gelato che lentamente si scioglie senza che la mia lingua pensi di passarci sopra. Forse sarà per il bambino che appoggiato alla colonna mi sta guardando. In effetti non capisco cosa mi colpisca di più, se lo sguardo del piccolo che brama il mio gelato con quei suoi occhioni scurissimi come la sua pelle oppure il fatto che su quella stessa colonna avevo appoggiato la mia bici che non vedo più.
Fa troppo. Tutto, fa troppo tutto. Chiamo il bambino e gli porgo il gelato. Lui lo prende senza un minimo di timidezza, ma mi ringrazia. Non vedo adulti che possano essere i suoi genitori e mi preoccupa il fatto. Come può essere solo, mi chiedo. Poi una voce di donna dice qualcosa. Chiaramente sua madre, che vedo uscire dalla porta di una casa vicino alla gelateria, ha chiamato per nome il piccolo che mi sorride e corre verso la mamma temendo chissà quale rimprovero. Col mio gelato, chiaramente.
Torno a guardare la colonna. Caro autunno, potrei denunciarti quale complice di chissà quale ladro per avermi convinto a trovarmi lì senza pensare di utilizzare un lucchetto. Avrò pietà di te, tanto quella bicicletta era così brutta e senza freni che il solo aver pensato di rubarla le ha reso una dignità che pareva perduta per sempre.
Mi alzo e mi avvio verso casa a piedi. Non faccio un metro che mi sento agguantare da dietro. È la madre del piccolo che con un italiano stentato si scusa per il comportamento del suo bambino. La guardo in silenzio, so chi è: una giovane che fa la badante a una anziana non autosufficiente, un sacco di ore per pochi spiccioli e senza sapere a chi lasciare il piccolo. Le dico che ha un bambino educato e che spero gli sia piaciuto il gelato. Lei è sorpresa e mi confessa che sono pochi quelli come me. Mi ringrazia ancora e si allontana con per mano il piccolo che tiene la testa girata verso di me.
Riprendo la strada di casa. Adesso c’è una luna sfarzosa. Troppo, davvero troppo anche questa immagine, in questa stagione,in questo momento. Perché mi ci ipnotizzo e non vedo la buca, accidenti alla maiala di sua mamma!!! Un male bestia.
Zoppico. Mi fermo e mi siedo su un muretto che fortunatamente si trova li e accoglie il mio posteriore. Sono nella fase di scelta, tra l’imprecare e il viaggio verso Mizar. Opto per la seconda, ma accade una cosa strana: non trovo come da bambino i mostri terrificanti dell’Orsa Maggiore, ma una moltitudine di gente di mille razze, conosciute e no, che vivono serene e non hanno bisogno di eroi. Non si può che darmi ragione se dico che è troppo anche questa serata. Non mi resta che alzarmi dal muretto e zoppicando arrivare a casa, mentre mi convinco che l’eroe serve ancora, ma per davvero, qui su questo pianeta.

Sono in camera. Apro la finestra e la tengo aperta per dormire in questa notte. È troppo caldo.
È tutto troppo.