Le recensioni: LICORICE PIZZA

“Icchè si fa?” È la domanda che il sabato sera, dopo diec’ore di lavoro mi vien fatta da chi il sabato lo passa festivo.
“Starei anche su il divano a non fare una sega” penso tra me, “Ditemelo voi” dico.
“Si va a i’cine? C’è un filme bellissimo! Si va, si va, si va?”
Niente, anche stasera non la svango, mi tocca ingollare la cena senza masticarla e via al cinema di corsa che lo spettacolo c’è alle nove, maremma impestata.
Il titolo è Licorice Pizza.
Io la pizza alla liquirizia non l’ho mai presa e alla fin di tutto continuerò a farlo.
Prima di entrare ho chiesto alla mia signora (perché la figliola s’è badata bene di venire) “ma se’ sicura sia un bel filme?”
“Di certo!” m’ha risposto tutta sfavata per la mia mancanza di fiducia, e m’ha fatto vedere le recensioni su internet: 4 stelle su 5, tanta roba.
Ovvai, entriamo.
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I punti rappresentano le due ore e passa di film.
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Questi punti rappresentano icchè ho capito del filme, cioè una mazza.
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Questi invece rappresentano il diametro dei miei gioielli alla fine del filme: Du’ palle che sembravano due pianeti gemelli.

Nel mentre si tornava a casa ho avuto la scintilla della ragione che mi ha permesso di dare un senso alla storia. Tutto il film è incentrato su uno di 15 anni che corteggia una di 25 anni con tecniche che Califano in tarda età se le sognava. Non voglio stare a spoilerare il film, ma fossi Macron e consorte chiederei i diritti d’autore.
Sarà fatto bene, scenografie perfette, fotografia accettabile, ma se trovo chi gl’ha dato 4 stelle lo sacrifico di cazzotti, che dovermi ciucciare due ore di corteggiamento tra due rimbambiti, peraltro bruttini, mi inquieta in particolar modo.
E poi mi chiedo: i protagonisti devono essere dei podisti, perché almeno per un ora son sempre a piedi di corsa lungo i viali della loro città. Vabbè che era il periodo dell’Austerity, ma questi parevano pagati.

Sabato prossimo chiedo il turno di notte.

Il sacco

Raccolgo le mie carabattole
dentro un sacco di plastica
me lo appoggio sulla schiena
e parto a capo chino verso
dove non so.
Prego facendo un passo
bestemmio a quello successivo
col cuore fratturato in parti uguali,
la voce rotta dall’incapacità
di essere quel dio che vorrei,
respiro da un naso che non sa
più riconoscere l’odore dei fiori.
A cosa servo?

è la domanda
che ronza tra i neuroni superstiti
di una mente in cerca d’autore,
a cosa servo se ogni mio gesto si perde
tra le onde di una marea umana?
Senza rispondermi, vado oltre,
cammino sul sentiero impervio
di un tempo privo di lancette
che non sembra mai finire.
Troppo timido per guardare il cielo
ascolto le note del vento, si scrivono
sul pentagramma della mia pelle
per essere lette nella notte
priva di stelle.
E’ trasparente il sacco che porto
e se gli altri ne vedono il contenuto
io ormai ne ho perso memoria,
cambia nei colori, forme e emozione
tra lacrime e risate incontrollate.
Strano ch’io chiami meta
ciò che raggiungerò alla fine
di questo sconosciuto errare,
dove svuotare il peso sulle mie spalle
e disperderlo nell’ultima tempesta.

Luce

(Fiaba)

Tanto tanto tempo fa, quando ancora non esistevano i pianeti e le stelle, l’unica abitante di questo universo era la Notte.

Solitaria senza sapere cosa fosse la solitudine trascorreva il tempo senza sapere cosa fosse il tempo. Così come non sapeva cosa fosse il buio, pur essendo lei la cosa più buia immaginabile (seppure questo sia solo un nostro pensiero fatto col senno di poi).

Potremmo dire che vegetava in tutta tranquillità o che nessun bisogno crea il niente.

Ma per volere divino o per un fattore fisico ancora a noi sconosciuto avvenne un fatto straordinario: un puntino di luce apparve per un attimo.

Difficile comprendere l’effetto che ebbe il quasi niente sul tutto, quella frazione di secondo di luce sulla Notte.

Molti lo chiamarono poi Big Bang, ma di frastuono o di esplosione energetica non ebbe proprio niente.

La comparsa del puntino di luce scosse la Notte.

Fu scoperta, incredulità, novità, creazione.

Sì, creazione, nonostante non sapesse cosa fosse la creazione, di una emozione, anch’essa provata per la prima volta.

Il puntino di luce, che era durato un attimo, era scomparso lasciando il buio assoluto di prima, ma anche il desiderio di riaverlo.

La Notte dapprima sorpresa, col passare del tempo si inquietò. In quel suo niente si mossero volumi immensi a velocità elevate, ma era tutto così niente che nulla pareva accadere.

Fino a che non apparve nuovamente il puntino, questa volta però senza scomparire.

Restò fisso nel buio profondo.

La Notte si calmò e osservò con curiosità la luce. Ne sentì il benessere giungerle dentro desiderando fortemente altri puntini di luce.

E fu così che la Notte si riempì di stelle.

Ascolto musica degli anni sessanta e settanta

Ascolto musica degli anni sessanta e settanta,
così vicini alla guerra eppure così lontani.
Ci guardavamo con la timida euforia
di un futuro dimentico del sangue,
della carne bruciata e delle grida disperate.
Le ragazze giravano al suono di mazurche,
i ragazzi con la camicia aperta gonfi nei petti.
Tutti imparavano a leggere e a scrivere,
a dare forma alla coscienza civile
della quale troppi pianti e morti
avevano evidenziato l’assenza.
Parlavo d’amore, allora, ricordi?
Era quello pulito, ingenuo, sincero
che portava il sole o la peggiore tempesta
ed ogni pensiero aveva lo stesso nome, il tuo.
La scuola suonava la campanella e tu
illuminavi ogni mia mattina. Mi chiedo adesso
Quanti come noi? Sono certo tutti.
Vivevamo un sogno, anzi lo facciamo adesso
allora vivevamo il vero, la vita vera
come dovrebbe essere ora e sempre.
Mi affaccio alla finestra, tra le doghe delle persiane
sono il buio della notte e il silenzio inquieto,
quello che teme di essere rotto all’improvviso.
Vorrei scendere per strada, andare in centro
e lì, dove frotte di ragazzi si accalcano,
carezzarli uno ad uno, come un pazzo che sa tutto,
come un Papa che benedice,
come vorrei fosse per voi quello che è stato per noi.
Prima di dormire ascolto bestemmie via cavo,
blasfemia divertita di uomini impietosi,
ma il desiderio di abbracciare il mondo
non mi fa prendere sonno.

Short poems in wartime

Alzo gli occhi

in attesa della scia

che tagliando il cielo

esplode inattesa

tra case assonnate.

Non è la cometa

dei miei desideri

ma un verbo assassino

incomprensibile

a me che ascolto.

Ho paura, tanta

ho rabbia, tanta.

Che sciocca pretesa

far morire per niente

o per un dio insulso.

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Con la mano curva

sull’orecchio destro

come una conchiglia

ascolto grida lontane.

Lungo la strada

traffico, urla, lavoro

sembrano dire

“Qui c’è vita!”

Il piccolo campo di basket

si riempie di sorrisi

ma le grida lontane

non cessano.

Tolgo la mano

dall’orecchio

e non sento più niente.

La distanza nega

la memoria,

io mi vergogno,

ma poi mi passa.

Notte (ad Est)

Tra le onde di questo mare sconosciuto

nella notte che non fa vedere le sue stelle

non chiedo perché e non faccio altre domande.

Ascolto in silenzio il movimento dell’acqua,

sono le tue parole che giungono al mio cuore

mentre una pioggia leggera cade sul mio viso

per scrivermi sulla pelle i tuoi momenti perduti.

Li leggerò in questi giorni di sangue e lacrime

per cancellare le paure di una vita a cui dai senso.

Non ce l’ho fatta.

Niente, non ce l’ho fatta.

Torno indietro sconfitto, incapace di portare a termine la mia missione.

I quattro mercenari che dovevo fermare sono stati abili, veramente bravi a raggiungere il loro obiettivo. Probabilmente essere stato solo non mi ha aiutato, ma era impossibile avere un compagno. Così eccomi perdente di ritorno al mio 2043.

E’ il 1942 e Hitler ha avuto tutte le informazioni necessarie a trasformare quella che era stata la sua bruciante e devastante sconfitta in una vittoria schiacciante. Prima fregandosene di Stalingrado e puntando direttamente Mosca, poi con mosse diverse sul fronte delle Ardenne. La razza ariana aveva vinto, si era dimostrata la più forte e lo sterminio delle razze più deboli si sarebbe dimostrato il risultato più aberrante e definitivo possibile.

Io non sono riuscito a evitarlo. I sensi di colpa mi distruggono e piango continuamente. Seduto sulla poltroncina in pelle nera, bloccato con due cinture di sicurezza, premo il pulsante rosso del meccanismo che mi riporterà avanti di 100 anni. Sto pensando a cosa dire quando mi rivedranno speranzosi. Non so davvero quali parole usare, sono tante persone che avevano posto in me ogni speranza e invece…

Premo il pulsante. Un vortice di raggi colorati circonda la piccola cabina monoposto e nel giro di pochi secondi tutto torna ad essere fermo. Mi guardo intorno, ma non vedo nessuno. Anzi, lo stabile del Centro ricerche da dove ero partito non esisteva più. Forse ero da altra parte? No, riconosco la catena collinare della Calvana, il luogo è quello giusto, solo che è privo di costruzioni, solo natura incontrastata.

Non riesco a capire, sono preoccupato e non so che pesci prendere.

Esco dalla cabina e scruto gli spazi a 360 gradi. Non vedo altro che alberi, un fiume, e delle pianure da pascolo.

Deve essere successo qualcosa alla macchina del tempo.

“Ciao, Marco.”

La voce era il mio più grande desiderio del momento, allo stesso tempo mi ha scosso per essere arrivata improvvisa.

“Laura…”, non riuscivo a crederci, allo stesso tempo non capivo cosa stava accadendo.

La guardo in viso, è lei, bellissima, soprattutto in salute e con quel sorriso che mi aveva fatto innamorare da ragazzo.

Mi corre incontro e mi abbraccia fortissimo, quasi a stritolarmi. Mi bacia dappertutto.

“Credevo non saresti più venuto.”

“Non capisco, ti prego spiegami…”

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Guardo Laura mungere la vacca e, mentre spacco la legna, le mando un bacio al volo. Abitiamo in una capanna tutta sbilenca, visto che come architetto faccio parecchio schifo. Ma ci ripara ed è già molto. Ripenso a tutto quello che era successo. I quattro agenti ariani avevano cambiato il corso della Storia e tutto cambiò all’istante, anche per chi stava aspettando il mio ritorno. Molti scomparvero perché mai nati, esclusa Laura, di famiglia italiana, in qualche maniera sopportata dagli ariani. Paradossi temporali devastanti, ma lei ebbe la prontezza di fare una scelta. Con un modulo di riserva venne nel 1943 e cambiò la destinazione del mio mezzo temporale, la stessa del suo secondo trasporto.

Ed eccoci qui. Siamo a qualche migliaio di anni prima. Soli. Sempre meglio che male accompagnati. L’ultima cosa a cui pensiamo è la guerra e faremo di tutto perché nel futuro nessuno sappia cosa sia.