(scritto 18 anni fa, a dimostrazione che niente cambia)
Sono le 23,30 ed eccomi qui, dopo dieci ore passate in azienda mi accingo a svolgere il secondo lavoro. A casa davanti al PC, ho una decina di minuti per svolgere il mio compito di scrittore incompreso, ma pieno di potenzialità. Devo inventarmi qualcosa… seduto su di un panchetto, chiudo gli occhi. Vedo la vecchia fontana del Parco Viesseux, dove ho passato molte ore della mia infanzia lontano dai pericoli del traffico, già allora non indifferenti. La panchina dove mi trovo è di un verde smeraldo che quasi acceca ai riflessi del sole.
Non sono solo.
Sono in mezzo a due anziani, molto anziani , età valutabile tra gli ottanta e i novant’anni, un uomo quello a destra e una donna a sinistra. Li guardo con tenerezza, il loro viso rugoso mi piace subito, sembrano buoni.
“Senti un pochino, fringuello – mi dice l’uomo – prima tu ti siedi nel mezzo tra me e la Lina e poi tu ci guardi come se si dovesse morire da un momento all’altro”.
Mi scuso d’aver dato un’impressione così sbagliata e per essermi messo tra loro senza permesso.
“Per dire il vero il permesso tu ce l’hai chiesto. Oh Lina, ma non è che questo gliè un po’ più rincoglionito di noi?”
“Tu dici proprio bene!” risponde la vecchietta, solo che all’aprir della bocca le cade la dentiera sul selciato. “Azzidenzi a ze, Gino, t’avevo zetto di non fammi pallale!”
“Scusami, Linina mia”.
Li osservo mentre lui e lei cercano di raccattare la dentiera e finisce che si tirano una zuccata fuor dell’umano. M’alzo di scatto e li sorreggo evitando che cadano a terra. Rintronati come campane a festa, sono tornati a sedersi sulla panchina e decido di andare al bar vicino a prender loro da bere.
Una semplice bottiglia di acqua, ma il loro viso ringrazia col cuore e un pittore esperto ne avrebbe tirato fuori un capolavoro.
“Tu sei un ragazzo gentile” dice il vecchio riconoscente.
Lina mi guarda emozionata “Tu mi ricordi tanto il mio bambino… è per questo che t’ho fatto sedere tra noi, sai? Era tanto bello, proprio come te”.
Ha detto “era”, ma la cosa non mi meraviglia più di tanto data la loro veneranda età. I più longevi vedono andarsene non solo i figli, ma anche i nipoti.
“Aveva undici anni quando morì…”
Sentirli parlare del bombardamento, della loro disperazione, del sopravvivere in un unico eterno abbraccio, rifugio impenetrabile al dolore, mi ferma il respiro.
“Mi dispiace, non…”
“E’ da quando tu sei arrivato che non fai altro che dire che ti dispiace” Gino è un po’ scorbutico, ma negli occhi c’è la gentilezza di un padre che non ha potuto dare il suo affetto.
Lina mi guarda, mette una mano nella tasca e mi regala una caramella all’anice che mi sa tanto di mia nonna: “ Perché ci sono ancora le guerre? Non hanno capito ancora cosa vuol dire perdere un figlio? Non basta ricordare? Dobbiamo per forza provare il dolore per dire basta?”
Mi rendo conto solo ora che la dentiera miracolosamente resta al suo posto. Che rispettasse le grandi verità?
Lina, mentre si fa aiutare da Gino ad alzarsi, mi dice: “quanto sei bello, che Dio ti mantenga!”
“Grazie, è stato un piacere conoscervi”
“Anche per noi”
Mentre si allontanano camminando contro sole, non ci sono passi tremolanti, ma un abbraccio che mi fa invidia.
Sento il rumore dell’acqua.
Riapro gli occhi.
Non è la fontana ma un fondale marino, screen saver del mio PC.
Guardo l’orologio, sono le 23,55. Sono passati venticinque minuti, ho fatto gli straordinari.
Adesso a letto, anche se non riesco a smettere di pensare a quei due.