RESPIRARE

Cacarsi sotto era accadimento frequente. Una nevrosi da record del mondo ci accompagnava, tenendoci per mano senza pensare minimamente a lasciarla.

Da tre mesi le potenti vibrazioni della terra unite ad un suono sordo e terrificante accompagnavano i nostri giorni in maniera regolare, ogni sei minuti. Un rimbombo breve e rintronante che ci faceva tremare testicoli e ovaie, aprendo orifizi e facilitando evacuazioni impreviste.

Ci si guardava tutti persi come uno senza tomtom e nessuno ci poteva aiutare visto che non c’era parte di questo pianeta in cui non accadesse questo misterioso fenomeno.

Scienziati della mi’ fava sparavano ipotesi dementi nel tentativo di calmare la gente, passando dall’esperimento nucleare ai cinesi che scaracchiando per terra tutti insieme hanno creato un’onda d’urto che rimbalzava sulla crosta terrestre.

Io a un certo punto non ne potevo più e ho cominciato a bere ettolitri di redbull. Se m’aveste visto un paio di settimane fa, avevo due occhi strabuzzati che sembravo Marty Feldman, ma così eccitato che le vibrazioni mi facevano ridere come un deficiente. No, devo trovare un altro aggettivo, deficiente è poco… non mi viene, ci penso dopo.

Poi Carmine, mentre fumava il dodicesimo cannone della giornata, disse: “è respiro…”

Io lo guardai e gli dissi “piucchealtro è inspiro…”

“Cazzo, dici??” mi chiese perplesso. “E’ respiro, queste vibrazioni è il respirare della Terra…”.

Pensai che se davano una visione così poetica della situazione, dovevo smettere con redbull e cominciare con le canne.

“La terra s’è ammalata, amico mio – disse – le è venuta l’asma e per guarire rivuole l’Amore.”

Che bello! Meglio di Osho, che so una sega chi è, ma lo nominano tutti.

Il tempo nel suo scorrere regala la verità. Le scosse aumentarono di ritmo e intensità, crollava d’ogni cosa: chiese, moschee, abitazioni, musei, grattacieli di ottocento metri d’altezza ora non superavano i dieci metri. L’umanità capì che era al capolinea mentre il mio amico, calmo come il mare nelle foto delle Maldive, continuava con la sua ipotesi e con le canne.

Cominciarono tutti a piangere e a stringersi l’un con l’altro, senza limiti di colore o razza, a farsi coraggio e a non lasciarli soli. A dirsi t’amo e tvb e tvtb e snmc e spqr e altre cose a bischero così.

Fu per la Terra come una iniezione di antibiotico e le vibrazioni cominciarono a diminuire fino a smettere del tutto.

“Visto?” disse il mio amico mentre si guardava intorno disperato accorgendosi che le canne erano finite.

Ora, ho voluto scrivere questa pagina perché gli uomini hanno la memoria corta, ma si devono ricordare l’accaduto e cosa deve respirare la Terra.

Anche se ci credo il giusto.

MANCHI

Stasera ho voglia di scriverti di me.
Non chiedermi il motivo, non me lo chiedo neppure io.
Lo faccio e basta.
Mi manchi.
Che novità! (dì la verità…)
Ma vedi, senza te è come essere un panino senza la nutella, un ombrellone chiuso al sole, un passerotto senza nido, una pila ricaricabile durante il black out e altre mille cazzate come queste, ma era solo per rendere l’idea.
In effetti mi sono chiesto seriamente che tono tenere in queste righe.
Beh, ho seriamente intuito che di serio c’è tutto in me purché lo esprima per come sono.
E io di serio non ho molto.
Per questo motivo, senza di te sono come un barattolo di marmellata senza tappo in un formicaio, come un ghiacciolo alla coca in una cioccolata calda, come una barca senza la bussola, come la ginestra senza Foscolo, come un arco senza il segmento che lo delimita…
basta, ho capito, smetto.
Sono giorni strani.
Mi capitano cose che non immaginavo potessero avvenire, io così refrattario al non razionale, io il San Tommaso della categoria, non vedo non credo.
Qualche giorno fa ho alzato gli occhi al cielo e ho capito, ho sentito forte che lassù c’è qualcuno.
L’incredibile non è capire chi o cosa, ma la sensazione della presenza di qualcosa di intangibile e divino.
Una sensazione che mi hai trasmesso tu, col tuo esserci, col tuo esistere.
E poi ieri…
Una badia duecentesca, bellissima nella sua semplicità disarmante, nel mezzo di uno scenario collinare straordinario.
Sono stato a ventine di minuti (come diceva una mia conoscenza ) a guardare ai piedi del campanile la bellezza che mi si presentava davanti, sotto un cielo che si divertiva a giocare col sole chiudendo o aprendo le sue mani sotto forma di nubi maestose, in un contrasto cosi umano che andava dal grigio plumbeo al bianco più candido.
Respiravo a pieni polmoni, lentamente, silenziosamente, rispettosamente.
Mi dirai cosa c’entri tu.
Beh, permettimi di dire che divino e terreno hanno in queste occasioni un legame intimo e indissolubile.
Questa unione di bellezza e pienezza mi è entrata dentro e non mi pesava. Anzi, la leggerezza aveva la forma del mio corpo e avrei potuto volare, sai?
Sono giorni strani.
La tua mancanza non ha colore ma essenza.
Non chiedermi di spiegartelo, non sono riuscito a spiegare il principio dell’addizione alla bimba, immaginati un po’ questo!
Ma a cosa servirebbe?
All’inizio ti ho detto che avrei scritto di me.
Ma non è vero, poiché tu sei il vettore delle mie emozioni.
E ti ho detto che mi manchi.
Ma ci sei.

VITA

Avevo deciso di tagliarmi le vene. Privo di speranze, di traguardi, di affetti, che cosa ci stavo a fare?
Mi stavo anche spazientendo, dovevo fare alla svelta, accidenti.
Non avevo più voglia di perdere tempo in questo posto, in questo mondo.
In questa vita.
Appunto, la Vita.
Mamma mia quante volte mi era capitato di vedere film, fumetti, sceneggiati dove d’improvviso appariva una sagoma tutta nera con una falce enorme in mano: la Morte. Che tagliava l’esistenza a chi trovava sulla sua strada, gente che non ci pensava minimamente a morire. Anzi!
A me invece è apparsa una donna aiutatemi a dire bella… bella!!!… ecco sì, proprio così. Nessuna falce in mano, anzi, non aveva proprio niente nelle mani. E luminosa sembrava un centro commerciale. Mi ha guardato e mi ha detto: “ ma che stai facendo???”
Me la sto facendo sotto, le volevo rispondere, ma non avevo la forza di fare niente. Pensavo fossero tutte fantasie di sceneggiatori o autori o peggio di gente che con un credo religioso terrorizzavano la gente. Fantasie una mazza! Sono rimasto a bocca aperta con le lamette in mano. D’un tratto la bella donna con un sorriso raggiante m’ha tirato un manrovescio che mi ha fatto fare tre giri come la giostra del saracino.
Un male!!!
“Imbecille! Sei proprio imbecille!!! Ma non lo senti pulsare il sangue dentro di te? Non senti il respiro riempire il tuo corpo? Non ti senti colmare il cuore dal tuo sguardo???”
A dire il vero sentivo solo il sangue uscire dalla mia bocca. Ma che forza aveva? Finito? Nei denti… cioè, nei denti m’è arrivato il secondo schiaffo a cinque dita e un calcio sul ginocchio destro. Mi son piegato in due dal dolore e lei subito ne ha approfittato per tirarmi una mazzata sulla testa con non so cosa se non che era di legno.
Semisvenuto l’ho guardata. Lei se n’è accorta.
“Se non lo fai te, ci penso io a farti fuori, imbecille! Vivere, si deve vivere, troverai la tua dimensione se lo vuoi. E c’è già chi ti ama, basta smettere di farsi pensieri imbecilli come te.
Ha smesso di emettere luce, m’è apparsa così vestita di jeans, camicetta bianca e i capelli corti e due occhi castani, di una oscurità profonda come la mia sorpresa.
C’è già chi ti ama, mi ha ripetuto.
La stessa cosa le avrei voluto dire io, se non fossi svenuto.
È da quando mi son risvegliato che la sto cercando.
E so che la troverò.

Le recensioni cinematografiche del Torracchi

C’mon, c’mon

Diciamocelo francamente, c’è qualcuno di questi tempi che non soffre di paturnie, giramenti di coglioni, fobie, desideri omicidi o altro del genere?

Ieri sera c’era la mi’ bimba (bimba… bimba una sega!) con una frantumazione di ovaie al massimo livello, che a una certa età è visibile a dieci chilometri senza cannocchiale.

Siccome non c’era la mi’ signora a casa (avendo accompagnato la suocera al mare e questo dovrebbe misurarvi il mio grado di serenità), ho pensato che era il momento di indossare l’uniforme del Babbo Supereroe.

Certo di non poter risolvere le questioni che originavano il suo stato d’animo, ho riflettuto su cosa fare e, flash strepitoso, ho trovato la soluzione: si va al cine!(così si svaga dai pensieri negativi)

La mi’ bimba la m’ha guardato strana e poi mi ha detto che non le andava. Non mi son perso d’animo e, dopo alcune mezzore di insistenze, devo essere stato convincente con la motivazione che stare chiusi in casa è il godimento maggiore per chi ti procura inquietudine.

Peraltro sapevo che c’era in proiezione un film strano e a lei garbano i film strani.

Periferia fiorentina, cine all’aperto, 5 euri per uno. M’è sembrato di tornare piccino.

C’era pieno di gente e c’è toccato sedersi in prima fila  sotto lo schermo, che s’è guardato tutto il film con la testa all’indietro.

Inizia.

C’mon c’mon, già dal titolo…

Insomma, tutto in bianco e nero, una fotografia fantastica, con immagini delle città americane che se anche non dicevano una parola era bello guardare anche solo quello.

La storia parla di uno che intervista ragazzini per una ricerca sulla adolescenza moderna e si ritrova a farlo badando anche al figlio della sorella, che glielo rivoga perché ha i cazzi suoi da risolvere e da sola non ce la fa.

Nel rapporto tra zio e nipote abbinato alle parole dei ragazzini intervistati, si comprende quanto siano importanti le relazioni affettive, qualunque sia l’età.

Almeno credo.

Joaquin Phoenix è davvero un numero 1, ma lo era certo per la mia piccola e questo lo sapevo già da prima.

Siamo tornati con lei più serena e con voglia di parlare e disquisire.

Mi vien da dire evviva il cinema.  

Quando sto bene

Mi ero appena inclinato a novanta gradi, quando una saltabecca mi si è posata sulla schiena e mi ha chiesto “Che cazzo guardi per terra?”

Stavo per risponderle quando un falco pellegrino è arrivato a 120 all’ora sulla mia (ora ex) colonna vertebrale per papparsi l’insetto schifoso, mancandolo di netto, ma prendendo me pieno.

Un falco miope mi mancava.

Un robivecchi, che raccoglieva ferro arrugginito e avanzi di fritto cinese, vedendomi a terra dolorante mi ha preso e scaraventato sul suo furgoncino privo di revisione dal 1972. Mentre mangiavo le chele di un granchio con gli occhi a mandorla, mi sono messo del fil di ferro come pigiama in attesa di arrivare al pronto soccorso.

Il robivecchi invece di portarmi all’ospedale, a un certo punto ha alzato il pianale dell’Ape e mi ha scaraventato in un fosso contenente tutti i suoi raccolti. Ho fatto per dire qualcosa quando sei doberman e otto rottweiler si sono presi cura di me, che carini.

Quando sono tornato a casa, il condomino dirimpettaio mi ha visto macerato come uva sotto spirito e ha telefonato subito al notaio per vendere il suo appartamento. Io gli ho detto “Buona sera.” e sono entrato in casa. O meglio ci ho tentato, la chiave non girava. Dopo vari tentativi la porta si è aperta da sola. O meglio l’ha aperta quello che ci abitava, non essendo casa mia. Allora, sbalorditi io e il proprietario, ci siamo voltati verso il condomino dirimpettaio e gli abbiamo chiesto “Ma chi cavolo sei?”.

Fuori pioveva, mentre a sud no, c’era il sole. L’Oceano Indiano sciabordava in tibetano in onore di chi non ha mai visto il mare e ingelosendo gli umbri, l’Alaska scioglieva i suoi ghiacci per gli Spritz agli esquimesi e Trump dichiarava guerra, non si sa a chi, ma la dichiarava e non rompetegli il cazzo.

Mancandomi un pezzo di cervelletto, adesso nello stomaco di un rottweiler, non avevo più ricordanze di chi fossi e con il cellulare in mano ho fatto il numero “moglie” cercando di avere un aiuto, ma dall’altra parte mi ha risposto solo un mugolio tipo “aaaahhhhhaaahhh…. Siiiiiiiiiiiii…. Oddio…. Aaaahhh…. Sììììììììì” e ho capito di aver sbagliato numero.

E’ passato il bus 3 e l’ho preso. Pieno, frontale.

Sono due mesi che una infermiera mi dice “che begli occhi hai!” essendo l’unica parte del corpo non ingessata. Mi fa sentire bello e mi rende piacevole questo mio vivere. Al punto di scriverlo e farvelo sapere, così per farvi capire che scrivo al meglio proprio quando sto bene.

Enigma

Enigma, che parolone grosso.

Mi riempie la bocca… E-ni-gma-aa-a… come un panino alla porchetta… Bòno!!! Mi ci vorrebbe proprio.

Sarà che l’estate si chiama così perché è calda.

Sarà che le asfaltature si fanno d’estate.

Sarà che sono asfaltatore e che so fare solo quello, ma il nero non mi piace più.

Meno di zero.

No, non il cantante, il numero. Che significa il niente e, seppur guardandomi mi sento parte di niente, è proprio di niente che non voglio far parte.

Che cosa c’entra la parola e-ni-gma-aa-a (corposa davvero) in tutto questo?

Prima di tutto non l’ho tirata fuori io, ma mia moglie. “Tu sei un E-ni-gma-aa-a…”.

Seconda cosa, ieri erano trentotto gradi: come fosse stato un condizionatore funzionante al massimo per chi come me sta vicino ai 100 gradi dell’asfalto.

Avevo la schiena nuda e ho preso il raffreddore.

Oggi sono quaranta i gradi, non di temperatura esterna, ma di febbre. Luisa mi guarda e dice: “Sei l’enigma più complicato che qualcuno possa affrontare. Ma come fai a prendere un colpo di freddo con questa stagione?”

“Ma che e-ni-gma-aa-a (detto tra tosse e cimurro)… ma che complicato… è così perché lo vuoi vedere tu…”

Il vero e-ni-gma-aa-a è un altro. Se non guarisco veloce perdo il posto di asfaltatore subappaltato e poi non so come fare a comprare da mangiare.

Ecco, sì, questo è davvero un e-ni-gma-aa-a!

La notte dei ricordi

Dai giorni impietosi

posso soltanto difendermi,

l’ho imparato col tempo

maestro coatto.

Chiudo con gli occhi

le porte del vero

e apro la notte dei ricordi.

Il tuo sorriso

la prima in bici

Paolo Rossi in Spagna

le pinne per stare a galla

lo schiaffo di mamma

l’abbraccio fraterno

il liceo quaranta anni dopo

con l’auto sotto casa tua

l’ultimo canestro

babbo che mi guarda

la fiat centoventisei

gli amici al mare

la volata vincente

quel pranzo di Natale

il bacio segreto.

Lacrime a cancellare

le impurità

e, come adesso,

sto già meglio.

Ennesima poesia del poeta maledetto

L’ho detto

e l’ho scritto

che l’ho scritto

ciò che ho detto

un ho detto

al quadro

anche l’ho scritto

è al quadro

ma la matematica

è pura opinione

specie per me

che ci avevo quattro.

Il vento soffia

vorrei vedere

il contrario

che vento sarebbe?

Come spettinarsi

senza capelli

e io me ne intendo

eh, se me ne intendo

anche la Michela

la parrucchiera.

Il vento spazza

le nuvole

e le getta

nel cassonetto

ma non sa

dove metterle

Forse nell’indifferenziata?

Forse

Forse

Forse

l’incertezza vitale

che evolve

da zero a

zerovirgolauno

e poi ci si domanda

quanti stupidi

ci circondano.

Domanda stupida

Fatta da stupidi

sugli stupidi

o da intelligenti

sugli stupidi

oppure da intelligenti

sugli intelligenti

o dagli stupidi

sugli intelligenti

a chiarire

che se siamo due

le combinazioni

sono quattro.

Le unghie dei piedi

sono lunghe

affilate e esose

evitano il centro

nell’orario di punta

e ululano come coyote

del Gran Canyon.

Ricordano la grandine

delle 16,20

come se per il carrozziere

fosse importante

sapere l’ora.

Il cappellino d’improvviso

vola via al vento,

quello di prima

perché c’è sempre un prima

prima del dopo

seppure il prima

non sa niente del dopo

che sa tutto del prima.

L’uomo guarda

la donna dai capelli

al vento, quello di prima,

sente una emozione

simile a un centallora

davanti all’autovelox

ma non le dice

niente

ma proprio niente

anzi, sì

le dice una cosa

ma non la ricordo.

Poi il sole urla

sono dall’altra parte

del mondo,

insomma è notte

e dobbiamo andare

a dormire.

In pensione! (Racconto)

Turni di dieci ore, pranzi in piedi a panini e gastrite, giorni di festa mai in comune con gli altri di famiglia, andate tutti in culo!

Adesso andrò oltre la porta di casa mia e uscirò nel mondo, libero da impegni improrogabili e da doveri insormontabili.

In pensione. Da oggi sono in pensione e posso rivivere la realtà che ho gustato solo fino all’adolescenza e della quale non ricordo più niente. Ora, uscito di casa, mi avvio verso il centro a respirare quella atmosfera del dolce far niente, un mito che conoscevo solo attraverso i racconti dei vecchi pensionati che avevo modo di contattare nei 5 minuti liberi della mia era lavorativa.

Cammino sereno lungo la strada che porta al centro. E’ una giornata di primavera, un sole leggero come la brezza che mi carezza. Sorrido da solo, come un grullo che ha scoperto

il segreto della felicità.

Zona pedonale. Qui non circolano auto, solo gente a piedi o in bicicletta. Che bello! Un silenzio sano e profondo.

Percorro il corso che porta al duomo e proprio alla fine, sull’angolo destro, c’è il Bar Duomo (che fantasia!). Sai cosa faccio? Mi siedo a un tavolino e ordino un tè freddo. C’è un sacco di gente, mi pare anche che mi guardino strano, ma non gli do peso. Il cameriere tutto rinsecchito e piegato dal tempo, nonostante sia sulla trentina, mi porta il tè, prende due euro e scappa via.

Boh.

O meglio, i fatti successivi cancellano il boh. La gente intorno a me inizia a scambiarsi non so cosa, ma lo fanno in maniera inquieta, fino a che una sirena della polizia non porta scompiglio. Gente che fugge chi di qua, chi di là, un bordello. Ad un tratto un giovane dalla carnagione scura mi mette delle bustine dentro le tasche dei pantaloni sussurrandomi gentilmente negli orecchi: “Non le perdere o t’ammazzo!” e poi è scappato rincorso dalla polizia.

Ho iniziato a avere dei movimenti intestinali poco rassicuranti, peggiorati dieci minuti dopo quando mi si è riavvicinato il giovane a riprendersi la sua roba.

Non mi ha detto grazie, l’ho detto io, a Dio, per aver fatto in modo che le bustine fossero tutte.

Un po’ agitato ho lasciato il bar e sono andato in piazza del comune. Ero certo che avrei trovato un luogo tranquillo e sereno. Invece diverse decine di ragazzi poco più che adolescenti si erano dato appuntamento per festeggiare non so cosa. Fatto sta che mi ci sono trovato per caso nel mezzo. Un po’ mi hanno guardato, sembravano allegri e tranquilli. Sembravano. D’improvviso hanno cominciato, nell’ordine, a darsi spinte, calci, manate, pugni, morsi, manganellate, coltellate. Il tutto mentre le giovani presenti subivano di tutto dai coetanei maschi. Mi pareva giusto dire qualcosa, ma con una criccata nel viso mi hanno convinto a stare zitto.

Ho deciso di tornare a casa, velocemente.

Pareva una ottima idea, almeno fino a che non mi hanno fermato in tre energumeni. Mi hanno strappato dal polso l’orologio che mi avevano regalato i miei per un compleanno, il portafoglio, il cellulare e il giacchetto della Kway.

Stranito, ho ripreso la via del ritorno.

Arrivato a casa, moglie e figli mi hanno guardato sanguinante e mezzo nudo.

“Te le sei cercate… ma neanche una Magnum 44 avevi con te? Come minimo ci vuole un fucile da assalto!”

Sono andato a letto, rivalutando la bellezza del periodo pensionistico.

Citofono

In effetti, quando guardo il mio garage, vedo tutto fuorché un garage. Sei metri per quattro, completamente isolato per l’acustica, strapieno di cavi, monitor, mixer, microfoni, lampade, telecamere e schermi maxi. Il mio studio privato di registrazione e trasmissione. Musica a tutto volume senza rompere i coglioni a nessuno. Me lo sono creato per quando voglio restare da solo e suonare o scrivere musica lontano dal mondo. Almeno fino a quando non troverò una casa in campagna come piace a me. Per ora condominio e voglia di stare alle regole, sempre condominiali.

Premo il pulsante del telecomando e il portone del garage, spesso come fosse quello di un bunker antiatomico, si apre faticosamente e in effetti devo ricordarmi che forse dovrei potenziare il piccolo motore. Nato per alzare qualcosa di molto più leggero, uno di questi giorni mi lascia chiuso dentro facendomi morire di fame e di sete.

Esco e saluto Carmine e Ciro, i due pestiferi adolescenti che non aspettano altro che esca dal mio studio per salutarmi. “Uè guaglio’, si nu fenomeno!” urla uno dei due abbracciandomi attorno al collo come fossi suo padre tornato dalla guerra. “Grazie…” rispondo semi-soffocato. “Ma per favore, state a almeno a un metro o chiamo i carabinieri!” alla quale parola i due si allontanano con occhi preoccupati e non credo dal virus. Il loro padre, che non so cosa faccia nella vita, vive in uno degli appartamenti di questa palazzina e da certe reazioni mi sono fatto una mezza idea. “Sciocco…” mi dice sempre mia madre, “non giudicare se non sai!”

Salgo al terzo e ultimo piano. Apro la porta e entro nel soggiorno illuminato. In cucina prendo un bicchiere, ci metto un po’ di grappa barricata e la bevo lentamente. Vibra il cellulare, è mia madre. “Ciao, Andrea. Sei stato proprio bravo stasera, te lo volevo dire.”

“Mamma, per te sono sempre bravo. Comunque grazie per la telefonata. Buonanotte!”

“Buonanotte a te e ricorda di portare la plastica giù che domattina c’è la raccolta differenziata.”

“Hai ragione, con questo State tutti a casa, non ci pensavo proprio.”

Stacco la telefonata e mi guardo intorno. C’è un gran bel disordine, ma mi piace tanto che questo appartamento sia come me. Poi esco in terrazzo, prendo il sacco blu della plastica, le chiavi di casa e vado fuori. Scendo le scale e esco dal portone principale. Accidenti, ha cominciato a piovigginare, proprio adesso. Alzo gli occhi al cielo, nonostante il buio si vede il grigio scuro delle nubi gonfie di pioggia che stanno per vomitare su questo condominio tutta l’acqua del pianeta. Di corsa, faccio il breve viale che porta al cancello esterno che si trova sotto una pensilina insieme al citofono. Mi ci fermo ansimante, chiaro che non sono più in forma come qualche anno fa. Il luogo di raccolta della plastica è a destra, ma prima di avviarmi mi blocco davanti alla fila dei campanelli, quattro a destra e quattro a sinistra. Il mio è in alto a destra. In basso a sinistra quello di Alessandra. Mi giro indietro a guardare le finestre del suo appartamento, chiuse, quasi sigillate con un bel biglietto “vendesi”. Quando la settimana scorsa le ho viste a quel modo ci sono rimasto sorpreso… diciamo pure male. Non so dove siano andati, lei e la sua famiglia, ma per me è stata una perdita, mi è venuto quasi a mancare il respiro. Alessandra è una ragazza bellissima, dolce, sensibile. Io avrei voluto farle la corte, ma a differenza di quanto appaia, sono un timido inguaribile. Non sono riuscito che a cantarle le mie canzoni, senza dirle niente di più.

Riguardo il campanello. Mi coglie una malinconia che non so descrivere e mi prende un bisogno improvviso. Lascio il sacco di plastica al cancellino e torno in casa. Scendo con la chitarra in mano e torno sotto la pensilina, con la pioggia che è aumentata di intensità. Con “Iorestoacasa” e con questo tempo, è ancor più facile non capiti gente. Nessuno in vista, neppure sui terrazzi.

Il fatto è che con questo obbligo di quarantena, mi sono inventato i concerti da casa. Quelli che faccio normalmente nei teatri , li faccio in garage, in solitario e in diretta streaming a 2 euro. Non lo credevo, ma sono davvero tanti quelli che partecipano. Poco fa ho finito l’ultimo, sono ancora caldo e ho pensato che se le riservo qualcosa solo per lei ne sarebbe felice, quasi quanto me di farlo.

Sotto la pensilina, ho suonato il campanello di Alessandra. Poi ho indossato la chitarra e le ho cantato “Dov’è che sei andata”, l’ultima mia composizione. Mi è venuta anche meglio di sempre. Lo so che nessuno mi avrebbe applaudito e che lei non ascoltava, ma in certi momenti abbiamo comportamenti poco razionali. Terminata la canzone, mi sono tolto la chitarra dalle spalle, l’ho poggiata a terra e sono corso a mettere il sacco della plastica nella zona di raccolta. Sempre di corsa sono tornato a riprendere la chitarra e ho fatto per tornare in casa quando ho sentito da citofono: “E’ bellissima, grazie!”.

Mi sono bloccato come un deficiente. Forse era in casa e non l’ho vista? Le finestre sembrano ancor più chiuse di prima, nessuna luce. Tremo, ma suono il campanello. Nessuna risposta. Eppure ho sentito la sua voce. Respiro velocemente, poi alzo lo sguardo al piano di sopra di Alessandra e vedo Ciro e Carmine insieme alla loro sorella sganasciarsi dal ridere. Nella pazzia del momento devo aver sbagliato campanello.

Riguardo i tre e li saluto.

Torno al citofono, suono a Alessandra e dico: “Aspetterò che termini questa emergenza, poi vengo a cercarti” e mi avvio a casa.

A metà del vialetto sento un flebile “Ti aspetto” e mi accorgo solo adesso che non piove più.