Poesie per l’anno nuovo

Su di me

.

Ho cavalcato la mia illusione

convinto che non fosse guerra

la vita

poi gli arcani segreti

si sono svelati.

Comandante, mi chiamavano,

ma perdevo ogni battaglia.

La pietà guidava le mie truppe

verso la sconfitta,

la fiducia era l’ingenuo fare e il tempo

toglieva le forze.

Nuovi comandanti dispensano ordini

che non posso rispettare

e seppure essere tornato soldato semplice

facilita l’impegno,

so che la pace rende inutile

vincere e perdere.

Sarò disertore nell’anno a venire.

.

.

Su amici e colleghi

.

Ho radunato i vostri cuori

nel cortile della mia anima.

Vi ho parlato della imperfezione

che colora ogni mio gesto

e vi ho chiesto scusa.

In questa bolla onirica

ognuno di voi ha luce diversa:

I vostri pensieri, come mattoncini,

costruiscono le pareti delle stanze

in cui mi riparo ogni giorno.

Se mi vedete calmo

o seminare sciocchezze

ricordate che sto solo cercando

di prendervi per mano e camminare

insieme.

Dove non so,

il più lontano possibile

il prossimo anno

.

.

Sull’Amore

.

Ho smesso di chiedermi da tempo

cosa si intenda per “Amore”.

Dovremmo tutti togliersi le scarpe,

poggiare i piedi nudi

su terra fresca e unirsi al mondo.

E non c’è più una donna o un uomo,

un figlio o una figlia,

una madre o un padre

che trasfigurino Amore.

Nell’età che scende ripida

verso la sua fine,

è la Creazione che ci innamora.

È ciò che ci circonda, che colora,

che profuma, che riscalda, che integra.

Che sazia.

Un sasso levigato dal mare o due occhi

scurissimi dal taglio perfetto.

La pioggia d’ottobre o il canto

di una figlia.

L’odore di un barcone di disperati o il gol

in rovesciata.

Auguro a questo mondo di ciechi

un anno dove, agli occhi attenti

del cuore, anche gli opposti

si facciano Amore.

Vola



La guardava con lo sguardo burbero che il suo ruolo richiedeva.
Il leggero vestito estivo colorava il suo corpo rendendo onore alla sua bellezza e, da nonno che non vede sul pianeta un essere umano degno di lei, gli provocava gelosia e ammirazione. Sentimenti contrapposti e comprensibili. Quel giorno, quell’esatto momento tutto però sembrava aver preso una piega antipatica e lui stava elaborando le cose giuste da fare.
Osservava l’espressione contrariata della ragazza e pensava a quanto lei gli somigliasse. Non si prende solo dai genitori, anche i nonni trasmettono i loro geni ai figli dei figli. Peccato che nel caso specifico non fosse proprio un fattore positivo.
Leandro era il nonno duro e possente nel nome, forse, ma non nel resto. Era gentile, buono, generoso e aveva una idea della vita tutta spostata verso l’altro, verso il bisognoso, lo sfortunato, il diverso. Aveva una etica che cercava di regalare la miglior esistenza a tutti, ma era cosciente che il mondo non glielo avrebbe permesso. Nonostante tutto non aveva mai cambiato di una virgola la sua visione della vita.
Alessandra era alta più di lui, anche se questo non poteva essere considerato una stranezza, i capelli scurissimi le incorniciavano lo sguardo di iridi nere dentro le quali certo a decine erano i pisquelli che ci erano affogati. Stava lamentandosi con quella rabbia repressa che nasce da quella incapacità di capire lo svolgersi degli eventi. Non si dava pace sui motivi che spingono l’essere umano a comportarsi con la violenza delle parole e dei gesti. Perché approfittarsi di giovani volenterosi fino a distruggere tutte le speranze dei loro cuori?
Il mondo del lavoro ai giorni d’oggi.
“Sono cattivi, nonno. Perché?”
Leandro avrebbe preso un bastone e lo avrebbe finito sulla testa del datore di lavoro di Alessandra, ma non ne era realmente capace.
“Non è il posto giusto. Non prendertene più di tanto. Il mondo del lavoro è da sempre un luogo di difficoltà e sofferenza. Anche quando pensi di essere in un posto giusto, capita spesso che i soldi cambiano l’essenza delle persone e chi si era comportato bene d’improvviso diviene una ombra oscura maleodorante da cui allontanarsi rapidamente.”
Alessandra lo ascoltava attenta, voleva un bene da morire a suo nonno e qualsiasi cosa dicesse per lei era una Verità.
“Ciò che conta è non cambiare mai da come siamo. Impedisci che lo facciano con te, salva prima di tutto te stessa. Ci saranno momenti in cui ti sentirai giù, ma poi, che si tratti di amore o di lavoro, tornerai a sentirti su. Perché come dice un poeta cantante, la gente vola.”
Alessandra gli sorride e lo abbraccia.
“Domani, nonno, vado a dare le dimissioni. Troverò di meglio.”
“Saranno gli altri a trovare il meglio: tu.”

AVATARRE 2 (Le recensioni cinematografiche dI MDP)

Dopo aver visto il primo Avatarre tredic’anni fa, un poteo fare ammeno di vedere il secondo episodio e, visto che era Natale e per colpo di culo non lavoravo, ci son’ito stasera.

Poiché ormai m’è ‘dobbligo recensire le visioni (non quelle dovute al crack), dopo quella fatta al primo ( https://www.facebook.com/marco.torracchi/posts/pfbid021EPstCeztFgEpSz2ZnoYqqZ3zTXie7dvhwar1AfkVp1Sg9pEjGze2rvaw96kUZgil) eccovi quella su Avatarre 2.

Comincerei col dire che c’erano una trentina di persone su trecento posti nella sala e mi chiedevo come cazzo fa Geims Cameron a ripigliare il miliardo di dollari che è costata la pellicola.

Lasciamo da parte questi dettagli ininfluenti la qualità del film.

Nel merito scriverò pochissimo.

Innanzitutto è un inno alla disperazione, poiché in tre ore di film si comprende soltanto che hai voglia a andare su un pianeta a milioni di anni luce, troverai sempre e comunque odio, discriminazione, criminalità, razzismo, bullismo e soltanto la presenza di improbabili supereroi potrà limitarne (non cancellare) gli effetti.

Un esempio di discriminazione che mi ha colpito è quello che gli abitanti del pianeta hanno tutti capelli con la coda che permette loro di unirsi a animali o piante fantastiche e compiere atti eccezionali. Il discriminato sarei io, nel caso, che unn’ho capelli.

Per finire gli effetti speciali. Geims Cameron deve smettere di prenderci per il culo. Son talmente fatti bene che un possono essere effetti speciali, ma semplice realtà. E’ andato proprio su Pandora e ha fatto le riprese con la telecamera del su’ babbo.

Questo non toglie che sia ganzo da vedere, però basta essere sinceri, Geims, un c’è motivo altrimenti.

Da 1 a 14.158.206, voto 12.034.470

Auguri!

Boh, a me questo Natale pare proprio strano.

Potrei trovare i motivi nelle varie notizie di guerra, pandemia, terrorismo, delinquenza, povertà, malattie, ma so solo che sono stanco morto e mi avvicino al Santo Giorno senza un minimo di entusiasmo.

In più cade di domenica e, maremma impestata, ci arrivo finito anche nelle unghie.

Comprensibile che non abbia avuto né il tempo, né lo stimolo di comprare un regalo che fosse uno.

Immagino l’imbarazzo di chi vive lo stesso giorno con tutt’altro stimolo nel porgermi il pacchetto incartato in cellophan blu e nastro dorato, mentre io non ho niente per ricambiare.

Tramortito nei sensi e nelle voglie, ho cercato almeno di abbracciare chi ho potuto, che alla fine sono stati i colleghi di lavoro, ovvero quelli con cui passo l’ottanta percento della mia vita da sveglio.

E tutti gli altri? Familiari, amici? Beh, anche se non lo sentono, vedono o provano, li ho sempre nel cuore e ed è lì che li abbraccio. Siccome però non conta una mazza, un salutino con la manina glielo farò con i potenti mezzi virtuali.

Soddisfazione del cazzo.

Ma tant’è.

Riflessione

Quando muore un personaggio pubblico é come se morisse una persona cara, un parente o amico.

In questo periodo storico dove sappiamo tutto di tutti, anche quello che non dovremmo sapere, è inevitabile provare nel bene o nel male questa sensazione di confidenza e di intimità con persone che nella maggior parte dei casi non ti sono ma state più vicine di cento chilometri, quando va bene.

Questa cosa mi incuriosisce e allo stesso tempo mi convince di una cosa, ovvero che sono riusciti a creare una realtà alternativa di cui facciamo parte integrante.

Vedere piangere in maniera sincera chi si dispera per una persona con la quale non ha mai nemmeno scambiato una parola, mi dà la certezza che osservare dei video, scambiare dei messaggi, tifare a distanza, conoscere la forza e le debolezze di altri, porti nelle persone la convinzione di esserci quasi andati a mangiare la pizza o essersi trovati a pagare insieme una bolletta alle Poste. Al punto di andare al funerale e bagnarsi di vere lacrime.

Mi sorge quindi spontanea una domanda: nell’altra realtà, quella vera, zero virtuale, con quelli che conosciamo davvero, con cui si è mangiato davvero la pizza, con cui siamo andati alla partita davvero, con i quali abbiamo avuto una discussione accesa e poi fatto pace davvero, con questi, chiedevo, ci comportiamo con le stesse attenzioni?

Dovrei fare una indagine statistica, sarebbe interessante.

Per capire a che realtà apparteniamo.

Letterina di Natale

Caro Babbo Natale,
incredibile, ma esisti per davvero!
I nostri genitori dicevano che sei un’invenzione degli occidentali, ma quanto erano bugiardi…
Ora però vorrei chiedere di riprenderti indietro la scatola del Monopoli e il Computer (che qui la corrente elettrica non c’è da un pezzo) e lasciarmi un bidone magico che non si svuota mai da 400 litri di acqua potabile, che mi son veramente rotto i coglioni di andarla a prendere sotto il tiro di cecchini merdosi e le bombe lanciate da aerei con disegnata una strana bandiera sulle ali.
Ah, il panettone ce lo teniamo, anzi, ce ne portassi un’altra ventina… s’ha una fame…

Hamid d’Aleppo

C’è un polline color amaranto

C’è un polline color amaranto

dotato di ali trasparenti,

al soffio del vento

leggiadro si alza in volo

e come da disegno divino

termina il suo viaggio

su terra arida per farla fertile.

Nei miei sogni sei così,

preda degli eventi eppure,

perla di rara bellezza,

adorni l’immeritevole.

Silente ti vesti del sole

e riscaldi la più fredda

delle anime, mentre

tutto d’intorno aspetta

la tua stagione dell’amore.

Ti farai piccola pianta,

come ogni feconda primavera,

e poi fiore e poi ancora polline

in una miracolosa rinascita

che ha il sapore della salvezza.

Non chiedermi di nuovo

la tua immagine per me,

accontentati di questa

e del mio dispiacere

di non saper far meglio.

Ogni tanto ti dedicherò un piccolo pensiero.

Ogni tanto ti dedicherò un piccolo pensiero.

Lo farò quando mi sentirò felice oppure nei momenti più bui, quelli in cui mi va di fermare il tempo della normalità fatta di lavoro e di gente.

Sarà un pensiero breve, senza alcuna pretesa se non quello di dire che ci sei, come tutti coloro che hanno fatto parte della vita di una persona e saranno per sempre vicini.

Ciao, babbo!

Come va, lassù?

Sì lo so, è una domanda idiota e senza risposta. Perché il non avere certezza di cosa c’è “dopo” rende vuota la domanda.

Però ho le mie convizioni e davvero mi garberebbe esserti lì di fianco (e prima o poi ci sarò) per poter guardare le cose dall’alto e capire.

Sì, capire come sia possibile tutto quello che accade su questo incomprensibile pianeta.

Durante la mia vita non ho passato un giorno senza sentir parlare di guerre o di sopraffazione: Corea, Vietnam, Medio Oriente, Centro e Sud America, Africa, Paesi balcanici, Siria e adesso Ex U.R.S.S.e Iran.

Ecco, sono certo che seduti accanto torneresti a dirmi quello che ti ho sempre sentito dire: che ognuno ha diritto di vivere la propria vita, scegliendo come e nei limiti del rispetto della vita altrui; che nessuno ha diritto di limitare o interrompere la vita di chi la pensa diversamente.

Mi piaceva sentirtelo dire, mi parevi così avanti rispetto le menti distorte che troppo spesso governano i destini dell’uomo.

Sai, i potenti mezzi moderni riescono a darci informazioni non solo più velocemente, ma soprattutto quelle che prima dell’avvento di Internet non avremmo mai ricevuto. Allora vedere che, nonostante le atrocità siano svelate in tempo reale, con l’arroganza del violento si persegue l’aggressione e la persecuzione mi crea nel cuore un dolore profondo.

Allora anche oggi prego per le vittime di questa follia, dall’Ucraina ai coraggiosi studenti e ribelli iraniani.

Sono certo che mi guardi strano, non avendoti mai sentito pregare.

Ma prego in silenzio, nel mio cuore.

Proprio come te. (Pensavi non lo sapessi?)

Eterno

Ho iniziato a lasciare pezzi di me

lungo il cammino che porta alla fine.

Giunge senza preavviso questo bisogno

nel far di me dono a tutta la parte del mondo

che dal grembo materno ad oggi

mi ha accompagnato lungo i corridoi della vita.

Ai più forti regalerò i miei muscoli

a chi ama il mio cuore

ai curiosi il mio cervello

a chi cerca il bello i miei occhi

a chi chiede carezze le mie mani

a chi si nutre di passione il mio sangue.

Verrà il giorno in cui niente sarà rimasto di me,

quello che provocherà lacrime o indifferenza

e non m’importerà saper di chi, ma piuttosto

della certezza di esserci ancora.

La partita

Non avrei mai creduto che potesse accadere ed invece eccomi con la borsa pronta, le scarpe, la tuta, l’accappatoio e tutto il necessario per questa straordinaria avventura.
A quarantotto anni giocare a calcio in nazionale!
Io che al massimo ho giocato negli amatori e neanche tanto bene; decisamente il 2027 è destinato a rimanere per me un anno particolare.
Certo, sento ancora mia moglie ridere mentre esco di casa ed io a dirle: «E’ inutile che tu rida, passerina, la tua è solo invidia perché nonostante l’età sono ancora in grado di ottenere grandi prestazioni fisiche». Dichiarazione che l’ha fatta ancor più sganasciare dalle risate.
E chi se ne frega. Non c’è niente che possa macchiare questa giornata memorabile.

Eccomi arrivato. Sono tutto un fremito e mi rendo conto che non so dove devo andare. Vedo un signore e «Scusi,- gli chiedo, vergognandomi un po’- devo giocare con la nazionale, sa mica dove devo andare?». Questo mi guarda un po’ sorpreso e poi mi indica una porta « Quelli sono gli spogliatoi.».
Lo ringrazio e ,avvicinandomi all’entrata, apro la porta e mi siedo su una delle panche affiancate al muro dove con grande gioia trovo un completo da gioco con un cartello «Per Marco».
Mi sembra di tornare ragazzo: l’emozione prima delle partite, l’odore acre del sudore, la nebbia del vapore acqueo durante la doccia a fine partita, gli urli di gioia o l’imprecare alla sfortuna, il non voler tornare dai genitori dopo una figuraccia, le 5000 lire del babbo dopo un gol (ne ho fatti pochi, poteva darmi anche di più), il tifo delle compagne di classe. In questo spogliatoio sembrano materializzarsi ricordi perduti.

Sono solo, apro la borsa e lentamente comincio a cambiarmi; pantaloncini bianchi, calzettoni blu, le particolari scarpette cosi diverse da quelle dei miei tempi e per ultima la maglia e che maglia, un azzurro splendido con un altrettanto splendido n° 10 senza nome, come andava una volta.
Entra un signore piccolo, con pochi capelli, che in maniera un po’ sgarbata mi dice di entrare in campo. «Fine il ragazzo!» penso tra me e me ma forse è per farmi sentire subito uno della squadra.
Sono davanti alla porta d’entrata dello stadio.
Mamma che fifa, mi tremano le gambe anche se si tratta solo di una amichevole. Apro la porta, entro e rimango letteralmente senza fiato.
Lo stadio è stracolmo di persone, saranno centomila, non so, sembrano milioni, tutte urlano, sventolano bandiere, fischiano, cantano, gettano petardi ed io rimango ancora li, impietrito. Mai trovato in una situazione del genere.
Cerco di riprendermi, poi vedo gli altri giocatori vicino a me.
Che compagni di squadra! Forti, alti, tecnicamente ai migliori livelli e poi anche caratterialmente bravi: per quello che mi hanno riferito non rompono le scatole se uno sbaglia e per me dovrebbe essere importante.
Mentre li saluto l’arbitro ci invita a disporsi in campo.
Centrocampista con ruolo di rifinitore mi dispongo subito al calcio d’inizio.
La partita è cominciata.
Mi muovo lentamente, ancora non conosco perfettamente le mie capacità di resistenza allo sforzo e non vorrei crollare troppo presto.
I miei compagni si muovono perfettamente nello scacchiere tattico deciso dall’allenatore, un 4-4-2 abbastanza prudente, e devo stare molto attento a non uscire dal modulo.
Avversari i brasiliani, i più forti, d’altronde sono i campioni del mondo in carica.

Sarà dura.
Dribbling, tackle, lanci lunghi e pedalare, parate strepitose, contropiedi micidiali, ammonizioni, colpi di testa con elevazioni incredibili.
E il pubblico che si infiamma.
Io cerco di fare il mio, ho dato tre palle gol ( non sfruttate ) e credo di dirigere bene il centrocampo.
Finisce il primo tempo sullo 0 a 0.
Sono un po’ stanco, ma non c’è tempo di riposare.
Parte il secondo tempo.
Solite azioni da manuale con il nostro portiere che stavolta deve fare gli straordinari.
Il tempo passa ed io sono sempre più fermo.
A due minuti dalla fine siamo ancora a reti inviolate.
Il nostro centravanti ruba un pallone alla difesa avversaria e si invola verso la porta. Mentre sta per concludere a rete viene atterrato da un difensore. Espulsione del brasiliano e calcio di punizione dal limite dell’area.
Tutti mi guardano, il compagno più vicino mi indica il pallone.
Devo tirare io.
Mi avvicino tremolante e osservo la disposizione della barriera. Mi sembra cosi alta, insormontabile.
L’arbitro fischia e senza rincorsa tiro quasi chiudendo gli occhi, ma li tengo aperti quel tanto che basta per vedere la palla colpire la traversa e andare sul fondo.
Poteva essere la soddisfazione sportiva più grande della mia carriera.
L’arbitro fischia la fine dell’incontro.

Nella stanza ottagonale si spengono il pubblico , i giocatori. le reti, il pallone, l’arbitro e rimangono solo le pareti video grigio scure della Virtual Station, questo nuovo impressionante gioco del calcio parzialmente virtuale, dove il giocatore è parte integrante del programma.

Esco, mi cambio, faccio la doccia e torno a casa dove c’è mia moglie che vedendomi arrivare mi chiede «Hai vinto?» e giù a ridere.