Campionato del mondo.

Platea e galleria piene.

Io sono al centro della prima fila, davanti al palcoscenico e mi diverto a guardare Sandro emozionatissimo. Mi verrebbe da salire, andare da lui e dirgli di stare calmo che secondo me lui vince. Non posso, essendo l’organizzatore. Vladic è di fronte a lui e, rispetto a me, è sulla sinistra. I due sfidanti sono seduti l’uno di fronte all’altro su delle semplici sedie in paglia. Sandro non dimostra affatto i suoi 37 anni, ma anche Vladic porta benissimo i suoi 49 anni.

Stiamo tutti aspettando il responso dei giudici e l’emozione scorre in tutto il teatro.

Guardo l’orologio, me lo ha regalato la mia piccola nonostante sapesse che non li porto nemmeno pagato. Certi regali però non possiamo mai non accettarli. Sono le 22,30.

Dopo la nomina del campione del mondo anno 2024, ci sarà una festa e quindi a letto tardissimo, stanotte.

L’attesa si fa lunga e lo posso capire, non è facile come scelta, ma mi lascia il tempo di pensare. Con facilità torno a quando un annetto fa lessi una notizia che mi fece riflettere.

Riportava tutta la gioia possibile per un campionato del mondo di boxe femminile.

Il mio rapporto con quella attività che non riesco proprio a chiamare sport è di profondo distacco, non ho mai potuto credere che ci fosse positività nel tirarsi legnate terrificanti fino ad arrivare a ammazzarsi. Chiaramente avevo tutti contro e alla fine non mi restava che una speranza: le donne, che per istinto credevo così lontane da questo tipo di gare. Invece eccoti la campionessa del mondo italiana, orgoglio della nazione. Una grinta impressionante, colpi che mi avrebbero staccato la testa, una esaltazione al limite della trascendenza.

Poveri noi,sembrava che non potessi che pensare questo. Invece no, ho pensato altro, ho pensato a quello che mi ha portato qui.

Oh, ecco il presidente della giuria con la busta contenente il nome del vincitore.

Saluta tutti e ringrazia i presenti, i partecipanti, gli organizzatori (ricambio il grazie), i finalisti.

Prima parla di Sandro, finalista italiano, della sua presenza a Kherson, in Ucraina.

Poi di Vladic, finalista serbo, e della sua presenza in Turchia per il terremoto.

Alla fine prende la busta, la apre e, dopo qualche secondo di suspance, dice il nome:

Vladic!

Campione del mondo di abbracci, anno 2024.

Applaudo un po’ dispiaciuto per Sandro e questo tradisce una preferenza che per principio non dovrei avere. Prometto di migliorare. Devo ammettere che il duro lavoro fatto tra le rovine di più città turche e la trasmissione di speranza che Vladic regalava con i suoi abbracci (senza che sapesse di essere osservato) era una cosa meravigliosa.

Sandro mi saluta da lontano, inarca le sopracciglia come riconoscimento della sconfitta. Poi vedo i due abbracciarsi.

Un abbraccio da campioni del mondo. Un abbraccio che fa bene al mondo.

Preghiera (stavolta la parola me la sono data da solo)

C‘era una punta di vergogna nel tono disperato che Alexis aveva usato per chiedere quella grazia, se ne era quasi pentito, ma sentiva che tanto era una richiesta fatta certo al niente.

Seduto sulla panchina di quel parco sgangherato, aveva il cuore a pezzi e aveva smesso di pensare. Era da tempo la sua difesa migliore in situazioni del genere, nello stesso momento sentiva che quella fragile fortezza sarebbe presto crollata di fronte ai colpi potenti che le arrivavano dal mondo. Gli era quasi venuta naturale quella richiesta al dioqualunquefosse di aiutarlo. Fai come ti pare, ma fallo, pensò.

Il dioqualunquefosse lo stava osservando a sua insaputa, il dioqualunquefosse era tutti e nessuno e era vicino a nessuno e a tutti. Lui compreso. Aveva ascoltato la sua preghiera come miliardi di altre preghiere, ma stavolta era rimasto incuriosito dall’idea della stessa.

Il dioqualunquefosse aveva deciso di accontentarlo anche perché ciò che sarebbe accaduto non era detto fosse per forza una cosa positiva per il richiedente. Proprio questo aveva spinto il dioqualunquefosse a esaudire il suo desiderio.

Il dioqualunquefosse prese tra le sue due mani la scatola del destino e cominciò a agitarla. Forte, sempre più forte. Si accorse che la cosa gli dava piacere, questo stravolgere il presente e il futuro degli individui lo divertiva senza limiti. Per un bel pezzo rimase ad agitare quella scatola fino a che non sentì il fastidio della prima stanchezza. Ripose la scatola del destino e se ne andò.

Quando dopo un incredibile sballottamento, Alexis tornò a essere fermo, la prima cosa che fece fu toccarsi per capire se era ancora vivo. Quando comprese che godeva ancora di buona salute si tranquillizzò. Una serenità che durò pochissimo. C’era qualcosa che non andava. La sua stessa pelle non andava: era un… po’ troppo scura. Ma non c’era uno specchio, non c’era neppure una stanza e men che meno una casa. Era in mezzo a una pianura sconfinata e arida, solo. Si riguardò le braccia, le gambe, il torace. Erano nere. Nerissime. Coperte da vestiti luridi e stracciati. Alexis cominciò a sentirsi male.

Il dioqualunquefosse lo osservava, era curioso di vedere cosa sarebbe successo da quel momento. Quel rimescolare i destini delle persone aveva dato possibilità migliori ad alcuni e riservato il peggio a altri. Grande l’idea di Alexis, mescola il destino e cambia quello che mi hai riservato aveva detto. Appunto, detto e fatto. Il dioqualunquefosse lo aveva accontentato seppure col senno di poi forse Alexis avrebbe preferito affrontare la faccenda in maniera diversa. Non sempre le strade più difficili sono le peggiori, ma era troppo tardi, non era più possibile tornare indietro.

Alexis si guardò attorno cercando qualcosa da mangiare in quella savana inospitale.

Sentì il morso della fame.

Solo

Ho fatto il corso di astronomia e un po’ mi torna utile. Non fosse che studiare alla mia età ti garantisce di ricordarti il 30 per cento di quello che impari.

Osservo i monitor, grandi e anche colorati se vi fosse inquadrato qualcosa di colorato. Invece c’è solo una macchia buia traforata da piccoli punti di luce.

Le stelle.

Tante e chissà se piene di vita.

Ma chi se ne importa, tanto non avrò abbastanza tempo per scoprirlo.

Mi guardo attorno, le vasche di ibernazione sono tutte chiuse con il loro contenuto umano e auguro loro di aver possibilità di poter comprendere ogni mistero di questo universo.

Ho fatto come in quel film dove in una astronave colonizzatrice per il difetto di un dispositivo si sveglia un uomo cento anni prima dell’arrivo alla meta.

Solo che il mio non è stato un errore, ma una scelta.

Era giunto il momento di restare solo, assolutamente solo.

Sono sei mesi che vivo tra scorte sufficienti per due vite e il silenzio del vuoto astrale. Non sono più riconoscibile nemmeno per i parenti più stretti. Perché oltre a essere solo, ho deciso di smettere di fare qualsiasi cosa a parte masticare e andare in bagno.

Ero stanco di quel trascorrere i giorni su un pianeta fatto di bellezza e di esistenze condizionate. Quanto male. Troppo, insopportabile, incomprensibile, inevitabile.

Quando hanno proposto il progetto di colonizzare il quarto pianeta di un altro sistema solare ho accettato senza alcun dubbio. Avevo già deciso cosa fare e un tecnico accondiscendente (e pagato) mi aiutò a provocare l’apertura della mia vasca d’ibernazione poco dopo la partenza.

Ricoperto di barba lunga e capelli ancor più lunghi, adesso sono seduto sulla poltrona al centro della semisfera che in realta è uno schermo circolare su cui viene proiettata l’immagine esterna dello spazio visibile.

Mi riconcilio con l’universo.

E sto bene.

Chris e Rocky

Seduto sulla panchina, guardava Rocky giocare con la palla di pezza, ormai tutta sbrindellata. Un bastardino dal pelo rosso, marrone, nero e bianco, così colorato da far immaginare da quante razze potesse discendere e sembrava aver preso da ognuna il meglio.

Dolce, fidelizzato, affettuoso, allegro e giocoso.

Coraggioso.

Chris e Rocky erano diventati amici da poco tempo, ma compresero subito, entrambi, che erano fatti per stare l’uno con l’altro, che qualcosa di divino li aveva messi in contatto. Le carezze, le attenzioni erano dispensate in pari quantità tra i due e alla fine si era stabilito un rapporto molto stretto.

Chris, ancora seduto sulla panchina, chiamò Rocky a sé e il cane non se lo fece dire due volte avvicinandosi al suo amico umano.

“Sai una cosa?” gli domandò Chris senza aspettare una risposta che non sarebbe mai arrivata.

“Ormai non sento più un alito di bellezza o di gioia, ma solo l’opprimente dolore che mi e ci circonda. Un malessere che sta cancellando tutto il bello di cui potrei nutrirmi e vivere sereno.

Vorrei dire meno male che ci sei, ma non riesco. Posso solo affermare che prenderò quello che mi verrà concesso. Ricordi Marina? Certo che la ricordi, anche tu sapevi misurare il suo amore per la vita. E Jury? Ti domandi dove sarà, vero? Lo capisco dal tuo scodinzolare appena ne faccio il nome. Uffa… mi sento soffocare, Rocky… e tu come va?”

Il cane con tutti i suoi 22 chilogrammi si gettò sulle gambe di Chris. Abbaiò, e abbaiò. Lingua di fuori e pelo irto. Stava dicendogli che stava bene.

Chris pensò che avrebbe voluto essere come lui, incapace di comprendere la situazione e di vivere in un mondo che gentile gli aveva fatto incontrare un grande amico.

Chris sorrise di un sorriso amaro e tornò a guardare in aria. Non vedeva niente, ma ormai aveva deciso di non pensare altro che a Rocky.

Chris non sapeva, anche se poteva immaginare, del drone che lo aveva individuato e ingoiato nelle sue telecamere. Un piccolo oggetto volante costruito per spettacolarizzare la morte con missili intelligenti e infallibili.

Chris si alzò dalla panchina, si avvicinò a Rocky e lo abbracciò. Sentì anche il leggero fischio di un qualcosa che fendeva rapido l’aria. Col suo cane, scattò rapido verso un portone per ripararsi, ma non fece in tempo o almeno non del tutto. L’esplosione non distrusse più di quanto era già distrutto, ma ferì Chris e Rocky.

La morte però decise di divertirsi un po’ e lasciò vivere ancora i due amici. Feriti, ma vivi.

“Ci vediamo presto”, disse la Signora in nero.

Nel frattempo un colpo di fucile abbatté il drone

il bacio del giorno dopo


Il tuo bacio mi fa ricco,
posso permettermi il mondo
e viverlo in ogni suo angolo.
Non v’è spiaggia o pista innevata
sconosciute ai miei occhi,
non vi è città che le tue labbra
non mi ha fatto visitare.
Il tuo bacio è la mia droga
e godo ciò che desidero.
Il tuo bacio di oggi
è quello del giorno dopo
quando sembra che niente
sia più da festeggiare,
si fa simbolo dei pensieri errati
e segna la resa del mio genere.

Poesia di non amore

Chiederò la tua mano

in un giorno privo di vento,

le mie parole saranno

incorniciate dal canto d’uccelli

e tu mi dirai di no.

È una poesia di non amore, questa,

triste come sarà il mio sguardo

alla tua sincera risposta,

ma sarò pronto al mio dolore.

Traduzione di emozione dove l’uno

resta tale se privo dell’altro.

La quercia del tempo trascorso

scrive sulle foglie sempreverdi

il segreto per sopravvivere

alla tua assenza.

Mi salverà soltanto il leggerlo.

Sulla riva.

Anche oggi partita.

E’ appena finita la scuola e non si vedeva l’ora di poter dedicare tutto il tempo a giocare a pallone. La mamma non è proprio d’accordo, ma si è arresa, e poi giocare sulla sabbia è troppo ganzo.

La spiaggia è lunga qualche centinaio di metri e larga una trentina e si può disegnare il campo in vari punti. Poi si mettono due canne come pali, si fanno le squadre e poi giù a tirare pallonate e pedate per qualche ora. Si torna sempre stanchi, ma ci si sente sempre degli eroi. L’ultima volta ho fatto dodici reti, ero in stato di grazia, mi sentivo infallibile e non sentivo nemmeno i nocchini della mamma quando sono tornato a casa lercio come uno svuotatore di pozzi neri tailandese (quelli privi di aspiratore).

C’è solo una cosa che a noi ragazzi ci inquieta un po’: una signora di colore che ogni mattina presto si presenta sulla spiaggia, apre la sua sedia pieghevole e la pone sempre al solito posto. Si siede e, voltata verso il mare, resta lì fino al pomeriggio. Ci manca solo quella parte di spiaggia dove giocare, ma lei proprio non si muove e ci impedisce di disegnarci il campo.

Le abbiamo chiesto di spostarsi, anche solo una volta, così per aver la soddisfazione di aver completato l’opera. Lei però ci ha sempre dato la stessa risposta: “ Non posso, mi spiace, devo stare qui. Potrebbe arrivare all’improvviso e io devo esserci”:

Brutta megera, lo fa apposta. L’ho raccontato alla mamma e non ho capito perché si è arrabbiata di brutto dicendomi, anzi gridando di lasciarla stare.

L’ho detto ai miei amici e anche loro hanno risposto che le loro madri avevano fatto lo stesso.

Sono passati alcuni giorni, noi abbiamo giocato e la signora è stata seduta tutto il tempo.

Non ce l’ho fatta. Finita una partita, grondante di sudore che con la sabbia aveva intonacato la mia faccia, mi sono avvicinato alla signora e le ho chiesto perché stava sempre lì.

“Aspetto Hamed”, mi ha risposto.

“E chi è Hamed?”

“Mio figlio”

“Perché? Dove è andato?”

“Se non dovesse tornare, spero sia andato in un posto bellissimo. Ma io lo aspetto. Questo mare ci ha divisi e io mi aspetto che il mare ci riunisca. Quando lo farà gli chiederò perché salvarmi solo io. Sì, gli chiederò perché?”.

Boh, ma cosa dice? Non capisco. La lascio lì e torno a casa. Racconto alla mamma di quella vecchia rimbambita e le chiedo se lei sapeva cosa volesse dire.

La mamma mi ha guardato, si è guardata intorno e con gli occhi lucidi mi ha detto che è solo una questione di fortuna.

“Tu sei nato qui e io non ho avuto bisogno di fornirmi di una sedia per sedermi sulla riva nella speranza che il mare ti facesse tornare”:

Tornare? Ho pensato. Anche la mamma comincia a perdere colpi. “Vado a lavarmi e poi mangio che ho una fame bestia”.

“Ecco, appunto. Lavati che fai schifo e che non a tutti tocca la fortuna di poterlo fare”.

Sentirlo lacera l’anima

Ho smesso di decifrare

il mistero della vita.

Volo verso la pazzia

ora che ad ogni faccia

collego una storia,

che ogni sguardo

è immagine di memoria

e che ogni parola detta

è racconto indimenticabile.

Sento miliardi di respiri

farsi vento sul pianeta

ed io sono un piccolo alito

disperso nel niente.

Non riesco a fare di me

punto focale dei miei giorni,

ma solo parte di un tutto.

Guardo da un ponte

il passare di auto

col loro carico vitale,

mi invento la storia

del loro passato e traccio

il loro presente.

Lontano, ma non troppo,

altri ponti,

crollati,

chiedono il loro futuro.

Non sono uno, ma tutti,

sentirlo lacera l’anima

nei giorni sbagliati

come questo.

serendipità

Che io potessi amare i gatti è stata davvero una scoperta tanto straordinaria quanto inaspettata. Specie se accade mentre pensi davvero a altro, a sfamarti ad esempio. Che in fin dei conti è una disciplina naturale e inevitabile. Oh, non che volessi mangiarmeli i gatti, seppure credo potrebbero avere un buon sapore, anzi, ripeto che ai gatti proprio non ci pensavo. Piuttosto capita di passare momenti di magra in cui tutto diventa difficile al punto di rendere complicato anche procurarsi un piccolo pezzo di carne o anche solamente degli avanzi che per me, al contrario, sarebbero parsi un pranzo luculliano. Ecco, questo è uno di quei periodi: mangio pochissimo e ho perso un sacco di peso. Dicono che fare la linea fa buono, a me conduce alla morte. Disperato, due giorni fa avevo perso completamente le forze, non riuscivo a camminare e alla fine sotto un gelo terribile mi sono appoggiato a un muro dal quale sembrava passare un tubo del riscaldamento, da come era caldo. Mi era parso un modo dignitoso di morire. Solo che a quel muro si era appunto appoggiato anche un enorme gatto nero, con degli occhi che parevano due fanali. Mi ha miagolato come a dire che quel muro era suo. Io non ho avuto la forza di dire niente e lui se ne è reso conto. Ha inclinato la testa una volta a destra, una a sinistra, poi si è allontanato. È tornato con tra i denti una scatoletta. Con un po’ di difficoltà l’ho aperta e poi ne ho mangiato il contenuto. Faceva schifo, ma mi ha reso un po’ di forza. Me ne ha portata un’altra. Appena mangiata anche quella mi ha fatto cenno di seguirlo. Dietro l’angolo c’era una bambina. Appena mi ha visto assieme al gattino, ha cominciato a a urlare: “lovogliolovogliolovoglio”.
Da due settimane sono ben nutrito e al caldo insieme a Torello, il gatto delle scatolette, e Giulia, la bambina. Mi piacciono le sue carezze, gioco con entrambi e cerco di abbaiare allo stesso volume del miagolare del mio carissimo amico felino.
Talmente inaspettato che ancora fatico a crederci.

Poesia per San Valentino

E’ giunto l’attimo
per raccontar d’amore,
ora
alla fine del giorno
meno mezzora,
quando se ne coglie
l’essenza.
Come fosse la nostra vita.
L’età svela
il mistero del sentimento,
celato dai sorrisi
di giovani innamorati,
per farsi lampo potente
verso le cose del mondo
e dell’universo intero.
Gli anni incidono la pelle
e cambiano la vista
con il cuore,
d’improvviso ogni senso
parla una nuova lingua
e ci rende parte integrante
di una Natura che chiede
il nostro “t’amo” salvifico.
Oggi festeggio così,
in presa di coscienza,
il mio amore per ciò
che mi circonda.