Si è aperta la porta

Si è aperta la porta
di una fredda primavera
in questo giorno che di rosso
ha solo il divieto d’esistere.
Mentre percorro le strade
di una casa troppo piccola
tra mille possibili eventi
sfoglio un libro del tempo.
Fermi immagini in bianco nero
sono i miei ricordi stampati
e in uno d’improvviso appari tu.
Hai lo sguardo incerto
di chi dal primo istante
fa sempre la stessa domanda
a cui non ho mai risposto.
Passo un dito sul tuo viso
in una tardiva carezza
sterile come ogni occasione
persa e dissolta.
Mentre richiudo il volume
della mia vita, mi affaccio ad ovest
dove il primo sole di stagione
come te, illumina il tramonto.

Ti ho rubato un bacio

Ti ho rubato un bacio

mentre dormivi.

Lo faccio ogni sera

da quando il sonno

senza pietà

ti porta via da me

senza avere tempo

di dartelo da sveglia.

Non mi sento un ladro

ma un povero barbone

che cerca calore

o forse un benestante

che ne vuol donare.

Ti ho rubato un bacio

mentre dormivi,

coricata sul fianco destro

nella penombra

ho spostato i tuoi capelli

ed ho pianto alla vista

dei tuoi occhi chiusi.

Ho poggiato le tue labbra

sulla mia guancia

e ho ascoltato il tuo respiro.

Mi hai raccontato di te

con parole che solo io

potevo comprendere,

ma che avrei tradotto

al mondo intero

per condividere con tutti

la tua bellezza.

Ti ho rubato un bacio

mentre dormivi,

ho aperto il mio petto

e in esso l’ho posato

come ogni sera.

Eravamo vari amici al bar.

Un po’ mi rompe arrivare per primo, ma è così da sempre. Ci tengo così tanto che per paura di ritardare finisce che sono sempre mezzora in anticipo. Lo sanno persino i gestori che hanno smesso di chiedermi la comanda e soprattutto hanno smesso di incazzarsi perché gli occupo un tavolino per un tempo che potrebbe essere riservato a altri.

Il tavolino è sull’esterno, il primo a destra appena usciti dal bar, il nostro mitico “Bar Magnolfi”. Ormai il mercoledì è come fosse di nostra proprietà, il tavolino intendo. Da qualche mese abbiamo cominciato a vederci in maniera costante a metà settimana sfruttando questi giorni di buona stagione ed è un ritrovo a cui non rinuncerei per niente al mondo.

Seduto, in attesa degli altri, osservo i camerieri. Sono tutti cinesi. Veloci, bravi e precisi e parlano in toscano. Ripenso all’Adriana, la vecchia proprietaria, a quando da ragazzino mi faceva pagare anche una goccia d’acqua, però mi regalava dei sorrisi bellissimi. Il tempo passa e di tutto quanto viene detto, ci ha regalato solo una cosa: il cambiamento. Quindi ho smesso di meravigliarmi da subito per la presenza orientale. Peraltro lo hanno fatto diventare un bar famoso nel mondo per aver creato il “Meet”. Davvero, i cinesi sono troppo avanti.

Ecco in fondo al corso vedo Massimo. Viene da casa a piedi, abita abbastanza vicino e poi gli piace camminare. Oggi compie gli anni e già immagina che qualcosa gli faremo, anche se non è sicuro sia un bel regalo o una bella presa di giro, visto gli elementi del gruppo.

In effetti siamo una decina di amici che da 45 anni si conoscono e hanno condiviso un sacco di avventure, di momenti belli e di altri decisamente meno. Siccome la memoria è il vero tesoro che ogni uomo cerca di trovare a una certa età, ecco che ci ritroviamo a raccontarci eventi che non sono solo ricordi, ma avvenimenti che vengono rivissuti al momento del racconto.

Massimo mi raggiunge, gli faccio gli auguri e gli tiro le orecchie. Mi ringrazia e mi chiede degli altri. “Spero arrivino veloce…” gli rispondo. Così è, infatti.

Nell’ordine Ugo, Daniele, Renato, Enrico e Carlo. Ci sediamo intorno a due tavolini affiancati salutandoci da ultrasessantenni rincoglioniti, con pacche disumane sulle spalle e spinte come da ragazzi, solo con in più l’artrosi. In attesa dei ritardatari, si ordina l’aperitivo come il solito: bitterini rossi con noccioline. Si comincia come al solito a mandarsi a fare in culo e chiedersi come stiamo.

Piano piano si completa il quadro dei presenti con l’arrivo di Gabriele, Tiziano, Alberto, Stefano, Andrea, Marco e Claudio che ha appena chiuso il negozio.

Ci s’abbraccia come se non ci si fosse visti dal secolo scorso e si inizia a chiacchierare che in realtà è un vociare disturbante (per gli altri).

Intanto si riempiono anche i tavolini del “Meet”, da quattro posti. Mentre i miei amici per comunicare urlano nonostante ancora non siano del tutto sordi, osservo gli occupanti di questa decina di tavolini, con una tristezza infinita. Poi torno a porre tutta l’attenzione ai miei amici e a tutta la loro gioia di vivere che non hanno mai perso. Infatti raccontano di ieri ma anche dell’oggi con una ironia di cui davvero non potrei mai fare a meno.

Poi oggi è un giorno particolare, vogliamo festeggiare Massimo e i cinesi rimangono stupiti per lo Champagne che ordiniamo per brindare.

Calici al cielo e tanti auguri, a lui prima di tutto e poi anche a tutti noi.

Passa una mezzora abbondante di casino infernale.

Torno a guardare i tavolini del “Meet”. I partecipanti che parlano tra loro sono degli ologrammi di giovani che si collegano da casa e si incontrano con amici o amiche senza uscire. Una idea sviluppata da questo esagerare nel comunicare con gli altri virtualmente. E poi fa ganzo. Ma quando a un certo punto termina il tempo concesso, gli ologrammi si spengono e il tavolino torna vuoto come comunque lo era già prima.

Siamo rimasti solo noi, gli unici esseri viventi al bar.

Io e gli altri ci guardiamo, ci diciamo “sarà meglio parlarne con i nostri figli” e poi siamo tornati a fare baldoria.

Dieci minuti, poi a casa.

Marzo

Questo marzo incerto
regala giornate alterne.
Oggi le campane suonano a festa
ininterrotte
e le nubi come d’incanto
si son fatte da parte.

Disteso su un letto di tulipani,
osservo la potenza del sole
trapassare persiane chiuse.
Gioco con lame inoffensive di luce
a formare ombre che imitano Natura
nelle sue forme più vitali.
Musi di cane,
orecchie di conigli,
farfalle senza colore
e penso,
perché così faccio ogni giorno,
ogni momento,
penso a quanto siamo piccoli
e imperfetti,
penso alla vita che ha bisogno di pause
di parole, di gesti,
di occhi allegri e di sorrisi,
penso alla vita e alle sue offerte
come prestiti a fondo perduto,
le cogli e ti chiedi come usarle,
occasioni uniche
uniche occasioni.
Osservo ancora il sole
nell’impossibile di comprenderne il miracolo,
si presenta e ci dona il vivere
ogni giorno
e nell’incomprensibile
che ci rende così uomini
ecco che m’appari adesso
come questo sole.
Ti terrò con me
senza chiedermi,
senza chiederti.

L’aperitivo

Santo aveva comprato alla Coop una confezione di sei bitterini a 1 euro e cinquanta, mentre al bar gli chiedevano cinque euro per uno solo.

Con un pacchetto di patatine Pai dell’anno scorso, ma non ancora scadute, a 40 centesimi, aveva organizzato l’aperitivo con gli altri quattro ad uno dei tavolini esterni del supermercato che sembrava messo apposta per loro.

Stappò le bottigliette con la chiave di casa e le distribuì agli altri mentre le patatine, dopo aver aperto il pacchetto, le mise al centro del tavolino.

Alzarono le bottiglie al cielo per brindare.

Santo li guardava e ripensava a una ventina di giorni prima.

Trovarsi all’improvviso nel reparto psichiatrico dell’ospedale cittadino fu per lui uno shock, primo perché ad essere ricoverato era stato suo figlio, secondo perché si trovò in un mondo diverso e inospitale.

Mai termine fu pensato in maniera così erronea da Santo.

Suo figlio Carmine soffriva di un gravissimo stato depressivo e per superare la crisi acuta da cui era stato colto, in quel reparto lo avevano reso quasi uno zombie da quante medicine gli avevano dato.

E poi che gente c’era in quel reparto! Drogati all’ultimo stadio, alcolizzati, c’era persino uno che aveva ucciso sua madre. Tutti in uno stato fisico inenarrabile.

Santo non aveva lacrime, era uno che non avrebbe mai fatto vedere a qualcuno che piangeva, era una cosa non da uomini, ma la disperazione dentro non avrebbe mai potuto nasconderla.

Carmine rimase per una settimana nel reparto e fu un periodo devastante per suo padre, preoccupato anche per tutti quei pazienti attorno. “Non devi preoccuparti, babbo… tutto a posto…”. Certo, ma Santo non vedeva l’ora che Carmine tornasse a casa.

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Portò la bottiglietta alla bocca e dette un sorso, poi prese una patatina. Erano stati loro quattro a volere un aperitivo economico, non erano pronti a sopportare un lusso che avevano voluto spontaneamente abbandonato. Sorrise e sorrisero.

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Tre giorni dopo il ritorno a casa, Carmine attaccò un foglio sulla porta della sua camera. C’era il disegno di un fantasmino e il suo nome scritto. “Me lo ha fatto Rocky quando avevo deciso di tagliarmi le vene. Volevo uccidermi, babbo, ma lui mi ha parlato, delle sue sofferenze che lo avevano portato involontariamente a uccidere sua madre, a come avesse compreso il valore della vita, quello degli altri come del suo. Mi ha carezzato il volto, mi ha fatto questo disegno e mi ha detto di non farlo. C’era luce e speranza nei suoi occhi e io ho capito che stavo facendo la cosa sbagliata. Mi ha salvato.”

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Riccardo, Sandro, Giuseppe e Roberto erano quattro barboni, erano personaggi strani e non poteva essere diversamente. Ognuno aveva la sua storia e da ognuno c’era qualcosa da imparare, così come da Rocky aveva capito che dobbiamo imparare a non giudicare frettolosamente e a condividere senza pregiudizi. “Alla nostra salute!!” disse Santo. “A quella di tutti!” dissero gli altri quattro.

Il giorno dopo Santo sarebbe andato a dare una mano in una comunità.

Heimska

Ho imparato e ancora sto imparando da questa vita, che non manda in pensione l’anima, ma la fa lavorare come un minatore italiano in Belgio. Trasudano le mie mani di un liquido giallastro che puzza e mi fa quasi schifo. Quasi perché, al contrario, mi fa sentire bello in questo niente assoluto. Gli sguardi s’incrociano: il mio, il tuo, il loro e quello d’essi così per completare pronomi senza motivo d’esistere poiché ciechi dalla nascita. Se avessero visto davvero, non sarei qui a scrivere. Ho parcellizzato senza sapere cosa volesse dire. Ho transumato come appartenente al gregge, ma nessuna maglia è fatta con la mia lana. Mi chiedo perché, non uno, ma decine, centinaia, migliaia, miliardi di perché, uno per ogni testa pensante che pensa di pensare e invece… Ho scritto una poesia, credo sia d’amore e dice: ho baciato un tuo capello, mi è rimasto sulla lingua e invece di vomitare, ho provato il piacere di sentirmi tuo. Subito dopo, l’ho cancellata e sono tornato. Dove non so, ma sono tornato senza sapere di essere uscito. Capita a molti più di quanto si creda. Ho voglia di urlare. Lo faccio dentro di me, il cane del vicino se ne accorge perché mi vibrano i bulbi oculari. Se ne potrebbe accorgere anche la gente che vive vicino a me, non fosse disattenta. O menefreghista. Quando ho finito di urlare, sto in silenzio, ovvero come ero prima quando urlavo senza farlo. Di solito mi viene fame e mi preparo da mangiare, con la gatta che mi guarda. Finisce che io mi mangio i croccantini e lei le lasagne. Vado avanti lo stesso, però lei miagola piena d’amore e io mi addormento col sorriso. Il sorriso, una cosa che nessuno mi ha mai visto, dato che lo faccio solo di notte al buio. Ho comprato un arco, senza frecce. Ho scritto al ministero della difesa di dotare l’esercito della stessa arma perché odio le armi e chi le usa. Ho trovato un paio di pantaloni di mio nonno, mi stanno larghi e hanno ancora uno spago come cintura. Li ho indossati al matrimonio del sindaco, dove tutti mi guardavano senza capire l’affetto che mi legava a quel capo d’abbigliamento. Mi sono scaccolato e attaccato un pallino nero sulla torta.

Vado a capo, perché il sindaco non l’ha presa bene, neppure gli infermieri che mi hanno ricoverato forzatamente e mi hanno imbottito di farmaci. Medicine che hanno il solo effetto di pormi la domanda: perché dover essere normale se sto bene come sono?